Da L’Unione Sarda del 20 dicembre 2008

Gianluca Scroccu 

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. È questo il primo, fondamentale articolo della “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” approvata a Parigi dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sessant’anni fa.
Il documento (un preambolo e 30 articoli) raccoglieva i pareri e i suggerimenti del gruppo di lavoro coordinato da Eleanor Roosvelt ed era debitore nei confronti della “Dichiarazione dei Diritti e dell’Uomo e del Cittadino” del 1789, dei principi presenti nei famosi 14 punti elaborati dal presidente americano Woodrow Wilson nel 1918 e della “Carta Atlantica” del 1941. Vi era anche l’eco del discorso che il 6 gennaio del 1941, come ricorda con una sintesi perfetta lo storico dell’Università di Siena Marcello Flores nella sua Storia dei Diritti umani (Il Mulino, pp. 371, euro 25), il presidente americano Franklin Delano Roosvelt aveva rivolto al Congresso, un accorato appello per la valorizzazione di quelle che rappresentavano a suo avviso le quattro libertà fondamentali su cui si doveva regolare la politica mondiale: quella di pensiero e di espressione, di professare il proprio credo religioso liberamente, di vivere lontani dal bisogno e dalla povertà e in un mondo che non fosse schiavo della paura e della guerra. Sebbene priva di qualsiasi carattere vincolante sul piano meramente giuridico, la Dichiarazione rappresentava il primo tentativo di sistematizzare una nuova concezione del diritto internazionale capace di mettere al centro la persona nella sua essenza di individuo. Come racconta Flores nel suo libro, non erano mancati nel corso dei secoli approfondite riflessioni sul tema dei diritti umani, ad esempio durante l’Illuminismo e nel corso dell’Ottocento, ma sarebbe stato solo con gli orrori della seconda guerra mondiale e della Shoah che i politici avrebbero definitivamente preso coscienza della necessità di sistematizzare il problema della salvaguardia dei diritti individuali in un atto ufficiale di valenza universale.
Il clima generato dalla guerra fredda avrebbe però pesantemente condizionato l’applicazione della Dichiarazione del ‘48 per tutta la seconda metà del Novecento: conflitti tra stati e tra etnie, genocidi spaventosi come quello cambogiano, l’applicazione di pratiche come la pena di morte e la tortura, lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse mondiali capaci di generare situazioni di estrema povertà, hanno rappresentato solo alcune delle più evidenti infrazioni dei trenta articoli. Violazioni che si sono trascinate sino agli eventi più recenti come possiamo leggere nel volume di Antonio Cassese, Il Sogno dei diritti umani (Feltrinelli, pp. 220, euro 15), perfetta integrazione di quello di Flores. Del grande studioso vengono riportati gli interventi più significativi apparsi negli ultimi trent’anni. Leggerli significa richiamare alla memoria le barbarie di conflitti come quelli nell’ex Iugoslavia e del Kosovo, o gli spaventosi genocidi del Ruanda e del Darfur, sino alle guerre in Medioriente e agli avvenimenti post 11 settembre, la crescita dell’attività terroristica jihadista su scala mondiale e l’applicazione di provvedimenti assai discutibili dell’amministrazione Bush come il Patriot Act o l’istituzione del carcere di Guantanamo. Se si aggiungono la violazione di nuovi diritti, come quello di vedere salvaguardato dalla catastrofe l’ecosistema della Terra, si vede come la Dichiarazione mantenga tutta la sua valenza, anzi veda rafforzata quotidianamente la forza dei suoi principi.