Riflessioni sul testamento biologico

1 Settembre 2009
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Bruno Troisi

Tra i problemi più dibattuti e controversi dei nostri giorni, il cui interesse è stato reso ancor più vivo da alcuni casi mediatici, si può certamente annoverare quello relativo al “testamento biologico”. Si tratta di un problema estremamente delicato e complesso, riguardando esso il tema drammatico del morire, sempre meno affidato alla natura e ai suoi ritmi e sempre più consegnato all’umano e alle sue scelte, in forza delle moderne tecnologie che consentono di prolungare artificialmente la vita in situazioni un tempo impensabili.
Per affrontare correttamente il problema, occorre innanzitutto sgomberare il campo da possibili equivoci. Le distinzioni fondamentali che, generalmente, sono alla base delle analisi di questo tema, sono almeno quattro, ben diverse tra loro, che non devono essere sovrapposte, per evitare confusioni fuorvianti: il testamento biologico, appunto, il rifiuto di cure, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia.
Il testamento biologico – o testamento di vita, secondo la terminologia impiegata in Francia, nella legge del 2005#, e in Spagna, nella legge del 2008# – è una sintesi verbale, una formula riassuntiva, entrata ormai nell’uso comune, con la quale vengono designate le direttive anticipate# - contenute in un atto pubblico o in una scrittura privata autenticata e revocabili in ogni tempo - sui trattamenti medici e assistenziali# ai quali l’interessato vuole o non vuole essere sottoposto#, da far valere per il futuro, qualora si trovi in stato d’incapacità#. Secondo l’opinione largamente dominante, sia in dottrina sia in giurisprudenza sia nei progetti di legge presentati in Parlamento, si tratta di direttive vincolanti per il medico#, il quale può disattenderle soltanto se, nel frattempo, il progresso scientifico abbia decretato l’emersione di efficaci alternative terapeutiche, tali da far fondatamente ritenere che quelle direttive non siano corrispondenti a quanto l’interessato aveva espressamente previsto al momento della redazione del testamento biologico.
Niente a che vedere con il rifiuto di cure, decisione attuale#, non destinata a valere per il futuro, presa da una persona capace di agire e perfettamente consapevole delle conseguenze della sua scelta.
Niente a che vedere con l’accanimento terapeutico - sempre inammissibile#, vi sia o no testamento biologico – consistente in tutti quei trattamenti, straordinari e sproporzionati, dai quali non si possa fondatamente ottenere alcun beneficio per la salute del malato (che versi in condizioni estreme) ovvero un miglioramento della qualità e delle condizioni di vita. In tali casi si tratterebbe soltanto di prolungare artificialmente l’agonia e le sofferenze del malato.
Niente a che vedere con l’eutanasia, la quale consiste in un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte: si pensi alla diretta somministrazione da parte del medico di un farmaco ad azione letale, oppure alla fornitura al malato che ne abbia fatto richiesta di un farmaco letale (c.d. suicidio assistito). A differenza delle ipotesi viste in precedenza, dove il malato opera una scelta nel senso che la malattia segua il suo corso naturale#, qui si compiono azioni positive dirette a provocare la morte del malato terminale#.
Il testamento biologico rappresenta, dunque, una delle tante modalità di governo della vita, che trova il suo fondamento nella libertà personale (l’art. 13 Cost.), che è uno dei diritti inviolabili della persona umana (art. 2 Cost,), e che comporta che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessu caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (art. 32 Cost.). E’, questa, una delle disposizioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile: nessuna volontà esterna può prendere il posto di quelle dell’interessato. In altre parole, il consenso informato dell’interessato rappresenta il presupposto ineliminabile, mancando il quale nessuna attività che riguardi la persona, la sua salute, il suo corpo può essere legittimamente intrapresa.
E se questo è il fondamento giuridico del rifiuto dei trattamenti medici (in senso stretto), lo stesso principio non può non valere per i trattamenti sanitari di tipo assistenziale (idratazione e alimentazione artificiale: c.d. terapie di sostentamento vitale), atti dovuti, sì, ma che non possono essere imposti contro la volontà dell’interessato: il valore tutelato è sempre quello della inviolabilità della sfera personale.
Questo è il quadro dei principi che emerge dalla nostra Costituzione e che trova riscontro nella più recente legislazione europea#: basti pensare alla Convenzione su diritti umani e biomedicina di Oviedo del 1997, che all’art. 5 stabilisce che “nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero e informato”. Stesso principio è sancito all’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Peraltro, nel nostro ordinamento, la mancanza di una legge che espressamente preveda il diritto dei pazienti a rifiutare le cure mediche - e, in particolare, i trattamenti sanitari c.d. salvavita - ha comportato (e tuttora comporta) gravi incertezze, soprattutto sul piano pratico, per quanto riguarda il comportamento a cui devono conformarsi i medici. Incertezze, che la giurisprudenza ha, sia pure in parte, provveduto a dissipare, con una serie di importanti decisioni, ispirate ai principi costituzionali di cui si è detto.
Le tappe più significative del percorso che ha portato al riconoscimento, da parte della giurisprudenza, del diritto dei pazienti a rifiutare anche i trattamenti sanitari “salva-vita” possono così, sinteticamente, ricostruirsi:
1) nel corso degli anni ’60, si afferma l’idea che i diritti costituzionalmente riconosciuti e garantiti devono essere “immediatamente immessi nell’ordinamento giuridico con efficacia erga omnes”, cioè, con efficacia verso tutti i soggetti - pubblici e privati - e non soltanto verso lo Stato (Corte cost. n. 45/1965).
2) La Corte costituzionale, con la sentenza n. 161/1985, confermando la piena legittimità della legge n. 164/1982 che consente l’intervento chirurgico che porti al mutamento del sesso, definisce l’intervento chirurgico in questione come atto terapeutico, espressione del diritto alla salute, teso alla realizzazione del diritto all’identità personale (segnatamente, del diritto all’identità sessuale): nel contempo, afferma la prevalenza dell’art. 32 Cost. sull’art. 5 cod. civ., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo.
3) Il diritto alla salute, già riconosciuto e tutelato nei settori più disparati, fa il suo ingresso nel rapporto medico-paziente con le famose sentenze sul caso del “chirurgo di Firenze”, che portarono alla condanna per omicidio preterintenzionale di un medico che aveva operato senza il consenso del paziente, provocandogli lesioni (volontarie) seguite dalla morte (nella motivazione si legge che “La salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare”).
4) La Corte cost., con sentenza n. 471/1990, definisce, per la prima volta, la libertà per ognuno di disporre del proprio corpo come un postulato dell’inviolabilità della libertà personale di cui all’art. 13 Cost.; una successiva sentenza della Corte cost. (n. 238/1996) ha escluso in modo perentorio che una persona possa essere costretta a un intervento sanitario indesiderato, sempre in forza dell’art. 13 Cost.
5) Nel 2007, quasi contemporaneamente, vengono emanate due importanti pronunce giudiziarie che coinvolgono, seppure per aspetti diversi ma comunque complementari, la delicatissima questione dei confini tra la vita e la morte in relazione a situazioni patologiche di eccezionale gravità. Si tratta, in primo luogo, della sentenza della Corte di Cassazione n. 21748/2007, avente per oggetto il caso di una giovane donna (Eluana Englaro) da lungo tempo in stato vegetativo permanente, e rispetto alla quale il padre, in qualità di tutore, aveva chiesto l’interruzione delle pratiche di nutrizione e di idratazione artificiale. La suprema Corte ha deciso nel senso di consentire che, a determinate condizioni (irreversibilità dello stato vegetativo permanente, accertamento della volontà univoca dell’interessato, tratta da precedenti dichiarazioni e dallo stesso stile di vita, dai quali sia possibile ricostruire la sua identità personale, e dunque la stessa concezione della dignità della persona), il giudice possa autorizzare il tutore a ottenere l’interruzione delle suddette terapie di sostentamento vitale. Tale decisione fornisce, senza dubbio, un importante viatico per l’ingresso, nel nostro ordinamento, delle cc.dd. “direttive anticipate” (testamento biologico). Tanto più, che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione confermava tale orientamento con sentenza n. 27145/2008.
La seconda decisione del 2007 è del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma. Con essa si è deciso in ordine in ordine alla richiesta di rinvio a giudizio di un medico accusato di omicidio del consenziente in quanto, avendo provveduto a staccare il ventilatore automatico che manteneva in vita un paziente affetto da malattia ormai da lungo tempo irreversibile, ne aveva causato la morte (caso Welby). Il Gup del Tribunale di Roma ha concluso nel senso della non punibilità del medico, in quanto sussisteva la scriminante dell’adempimento del dovere ai sensi dell’art. 51 c.p., dovere consistente nel rispetto del diritto all’autodeterminazione del paziente (ex artt. 2, 13 e 32 Cost.), anche quando questi rifiuti le cure ovvero, con una manifestazione di volontà “personale, autentica, informata, reale e attuale”, manifesti la volontà di procedere all’interruzione di un trattamento “salva-vita” (nella specie, il ventilatore automatico).
6) Nel 2008, ancora la Cassazione, con sentenza n. 23676, ha affermato che deve essere riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio della morte; tuttavia, affinché i medici si astengano dal somministrare al paziente incosciente le cure dalle quali quest’ultimo dissente è necessario che il “non consenso” sia contenuto in una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di non sottoporsi a determinate pratiche mediche (nella specie, la Corte ha rigettato la richiesta di risarcimento per danni morali avanzata da un testimone di Geova che, trasportato in stato di incoscienza ed in pericolo di vita presso una struttura ospedaliera, era stato sottoposto a una serie di trasfusioni, nonostante portasse con sé un cartellino recante la dicitura “niente sangue”).
Si tratta, com’è facile capire, di questioni di estrema gravità e delicatezza che non possono rimanere affidate all’interpretazione giurisprudenziale, ma che richiedono l’intervento del legislatore a tutela della certezza del diritto, sia per il malato che per il medico#.
Il legislatore, da parte sua, pur essendo in grave e colpevole ritardo, ha accusato la Magistratura di svolgere un’opera di supplenza legislativa ed ha – non so se più imprudentemente o più impudentemente - sollevato davanti alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. La Corte costituzionale, con ordinanza 8 ottobre 2008, n. 334, ha dichiarato inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione sollevati da Camera e Senato.
Si avverte, dunque, la necessità di una legge mite e civile, che sia in grado di realizzare il difficile equilibrio tra diritti della persona tutti costituzionalmente tutelati: la vita, la salute, la libertà e l’identità personale. Certo, il compito non è agevole né può arrestarsi di fronte a formule quali la “sacralità” o la “indisponibilità della vita”, giacché, trasferite dal piano delle legittime convinzioni a quello delle regole, queste affermazioni trasformano il diritto di vivere nel dovere di vivere e di vivere a qualunque costo e in qualunque condizione, indipendentemente dalla qualità della vita. Vita che, invece, alla luce della nostra Costituzione, di ispirazione personalistica e caratterizzata dal pluralismo dei valori, deve essere vissuta in maniera libera e dignitosa.

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