Differenziale salariale e sviluppo del Mezzogiorno

18 Agosto 2009
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Andrea Raggio

Per la sua permanente attualità pubblichiamo questo intervento di A. Raggio apparso nell’aprile 1988 sulla Rivista Europa-Italia.

Il Parlamento europeo ha sempre dedicato grande attenzione alla questione salariale nelle regioni deboli, criticando le posizioni favorevoli ai divari. Il 16 marzo 1988 una risoluzione della commissione sociale approvata all’unanimità ha respinto la tesi della differenziazione salariale. Il commento di Andrea Raggio sulla rivista Europa-Italia.
La tesi secondo la quale il differenziale salariale costituirebbe uno dei principali incentivi per lo sviluppo delle regioni deboli non è nuova e non ha riscosso molti consensi, specie in Italia dove è ancora vivo il ricordo delle “gabbie salariali” abolite nel 1969. La prospettiva del mercato unico, inoltre, ha dato a questa tesi un colpo serio. Un mercato nel quale dovessero non solo permanere, ma addirittura accentuarsi le forti differenze esistenti nella condizione complessiva dei lavoratori sarebbe, infatti, non solo iniquo ma fragile e destinato al fallimento.
I costi unitari del lavoro superiori alla media sono la conseguenza di una bassa produttività media. Su questa, dunque, bisogna operare per elevarla decisamente mediante l’adozione di politiche che mirino a superare le carenze strutturali delle regioni in questione e che puntino sulla innovazione e sull’allargamento e qualificazione della base produttiva.
Operando, invece, sul salario con l’intento di adeguarlo alle debolezze strutturali si avrebbe il risultato di scoraggiare il nuovo che, sia pure faticosamente, avanza anche nelle regioni deboli, di far incancrenire il vecchio e di trascinare la produttività media ancora più in basso.
Quanto alla capacità che i bassi salari avrebbero di attirare nuovi investimenti l’obiezione di fondo è in sostanza questa: un modello di sviluppo basato sul sottosalario generalizzato postula una specializzazione in produzioni e servizi a bassa intensità di capitali e a basso contenuto tecnologico. Richiede inoltre un differenziale salariale consistente, cioè un’ulteriore drastica accentuazione dei divari salariali regionali e una deregulation selvaggia, perché altrimenti l’incentivo non avrebbe efficacia. Presuppone, inoltre, una propensione delle imprese verso questo tipo d’incentivo.
E’ realistico tutto questo? E come si concilia con la prospettiva del mercato unico? Non è realistico e non si concilia affatto. Un tale modello di sviluppo porta ad un’accentuazione del divario tecnologico tra regioni deboli e regioni forti e, quindi, ad un’ulteriore dipendenza delle prime dalla seconde. Richiede mano d’opera a bassa qualificazione professionale, mentre l’offerta di lavoro è costituita prevalentemente da giovani scolarizzati che aspirano ad un lavoro qualificato; deve perciò mettere in conto una fuga dei lavoratori più capaci e professionalmente più preparati, o che aspirano ad esserlo, verso le aree forti, con un ulteriore impoverimento delle regioni deboli.
Quanto alle imprese, la loro attenzione sembra essere sempre più rivolta verso le aree capaci di offrire una serie di condizioni (servizi innovativi, infrastrutture – non solo fisiche – adeguate, livelli professionali efficienti, ambiente economico e tecnologico favorevole, amministrazione pubblica efficiente) tali da garantire vantaggi duraturi.

Non si può, inoltre, ignorare che le retribuzioni salariali in queste regioni non solo concorrono in gran misura a determinare il tenore di vita delle popolazioni, ma costituiscono parte importante della domanda del mercato comunitario.

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