Emanuele Severino, il capitalismo e la democrazia

6 Agosto 2009
1 Commento


Gianfranco Sabattini

Di recente, il filosofo Tedesco Thomas Soren Hoffman in un suo saggio ha presentato Emanuele Severino come una delle venti figure di prima grandezza della filosofia italiana che maggiormente hanno contribuito alla tradizione culturale dell’Occidente. Secondo il filosofo tedesco, Emanuele Severino rappresenterebbe “il metafisico meno convenzionale e più autentico dei nostri tempi”, la cui opera condurrebbe “nel centro delle grandi questioni filosofiche che mostrano da sé stesse la loro attualità e, insieme, la loro fecondità rispetto al futuro”. E’ così? Per rispondere all’interrogativo occorre considerare la prospettiva di analisi di Emanuele Severino riguardo alle due opere che più lucidamente consentono di valutare la sua posizione complessiva rispetto alla tradizione culturale occidentale: “Il declino del capitalismo” e “Il destino della tecnica”.
Molte delle riflessioni svolte da Emanuele Severino sul declino del capitalismo sono certamente condivisibili. La logica che egli pone a fondamento del processo evolutivo non è però condivisibile; ciò perché le forme disfunzionali che il modo di produzione capitalistico tende ad assumere a seguito della sua evoluzione sono l’esito di un processo evolutivo degenerativo e non l’esito di un processo evolutivo necessitante. Emanuele Severino afferma che l’azione del capitalismo altro non è che il suo scopo; azione e scopo perciò coincidono, o quantomeno non sono che le facce di un’unica medaglia. Posta questa corrispondenza, afferma anche che lo scopo del capitalismo è l’espansione continua del profitto; questa propensione ad accrescere di continuo il profitto porterebbe il capitalismo a collidere con il “bene comune”, il quale, secondo Emanuele Severino, costituirebbe un vincolo eversivo del profitto. Il capitalismo, inoltre, mirando alla crescita senza limiti del profitto, entrerebbe in contraddizione con lo scopo dell’unica organizzazione politico-istituzionale con esso perfettamente compatibile: la democrazia. Secondo Emanuele Severino, infatti, la democrazia, in quanto strumento per la realizzazione ottimale delle scelte politiche orientate al bene comune, sarebbe neutrale ed indifferente rispetto a quelle del capitalismo.
L’analisi svolta da Emanuele Severino contiene una errata definizione di profitto ed una distorta e riduttiva considerazione dello scopo della democrazia. Al profitto Emanuele Severino attribuisce un significato storico-ideologico, mentre esso, all’interno della scienza economica, ha un significato logico-formale. Esso, infatti, non designa lo scopo finale del processo di produzione, bensì la rimunerazione del servizio di uno specifico fattore di produzione: la capacità d’impresa. Questa si configura in termini di pura e semplice capacità “gestionale” dei fattori produttivi complessivamente organizzati in specifiche combinazioni produttive; oppure, in termini di capacità innovativa. Nel primo caso, il profitto (normale) esprime la rimunerazione di una particolare abilità lavorativa nell’ipotesi di un sistema sociale statico; mentre nel secondo caso, il profitto esprime una “quantità residua” denominata extraprofitto, il quale, al netto del profitto normale, rappresenta la rimunerazione della capacità innovativa dell’imprenditore innovatore nell’ipotesi di un sistema sociale dinamico. Sia il profitto normale che l’extraprofitto non rappresentano perciò lo scopo del modo di produzione capitalistico.
In entrambi i casi, lo scopo è espresso dal risultato finale del sistema sociale, ovvero da ciò che costituisce il prodotto sociale, il cui conseguimento è motivo di legittimazione, presso tutti i componenti il sistema sociale, di entrambe le forme di profitto. Ciò che, invece, non riscuote alcuna legittimazione sono i “mali” sociali connessi agli squilibri (territoriali, settoriali e sociali) originati dalla distruzione creativa nella quale si risolve normalmente l’attività innovativa del capitalismo. Ma se tali “mali” sociali, nell’interesse stesso del capitalismo, sono rimossi dall’organizzazione politico-istituzionale democratica del sistema sociale all’interno della quale esso opera, costituisce un non-senso considerare la democrazia uno strumento in conflitto con il capitalismo medesimo. La democrazia, infatti, si configura come strumento per la realizzazione di “scelte politiche” finalizzate a soddisfare il “bene comune” e, perciò, come strumento suppletivo ed integrativo del mercato. In particolare, in questo contesto, la democrazia è l’istituzione che presidia la necessità di garantire al funzionamento del capitalismo uno “spazio pubblico” per la critica e la rimozione dei suoi esiti negativi. La democrazia, perciò, non è neutrale rispetto alla funzionalità del sistema capitalistico, ma costituisce, invece, l’organizzazione politico-istituzionale che assicura il funzionamento virtuoso del capitalismo medesimo.
Allo stato attuale, si potrà anche essere portatori di valori metafisici poco convenzionali, ma una riduttiva considerazione di alcune delle istituzioni che rappresentano il “nocciolo duro” dell’identità della tradizione culturale dell’Occidente, è esito insufficiente per costituire una riflessione critica del presente utile per il futuro.

1 commento

  • 1 Gaetano Palchetti
    22 Novembre 2009 - 13:28

    La critica che Lei rivolge a E. Severino a me pare più tecnico-economica che filosofica. Infatti Severino mette in luce la vera essenza del capitalismo e a tal proposito cita Aristotele, il quale, come lei sa sostiene che l’essenza di un’azione è data dallo scopo. Pertanto cambiando lo scopo cambia l’essenza. Chi può mettere in dubbio che il fine della produzione capitalistica sia il profitto e non la produzione sociale come lei sostiene, anche se il conseguimento del profitto ha indubbiamente rilevanza sociale? Tutte le considerazioni da lei fatte sono assolutamente valide sul piano economico-aziendale, ma non su quello filosofico, dove si deve ricercare la vera essenza dell’azione capitalistica.

Lascia un commento