Pd, tutti pazzi per il centro

5 Agosto 2009
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Piero Bevilacqua

Da Il Manifesto, 14-12-2008

La premessa ovvia è che il cattolicesimo democratico costituisce una componente fondamentale della cultura politica italiana. Essa ha svolto un ruolo importante sia nelle grandi lotte sociali del dopoguerra che nella costruzione dell’Italia repubblicana e nei processi di allargamento della democrazia nel corso degli anni ’60 e ’70. Dunque il dialogo e talora l’alleanza della sinistra comunista e socialista con le varie anime di questa componente è stata prova fruttuosa di intelligenza e di lungimiranza politica. Una scelta politica che vale anche oggi, benché i protagonisti di un tempo appaiono così radicalmente mutati. Ma quanto è saggio e lungimirante oggi trasformare dialogo e alleanze su singoli temi e lotte in un rapporto di unità organica di partito?
Vediamo in quale insormontabile difficoltà si è posta la dirigenza dei DS nel puntare a realizzare un nuovo partito, il PD, con i cattolici della ex Margherita. Un partito, rammentiamo, nato anche per realizzare un organismo unitario, capace di decisione, in grado di superare le divisioni paralizzanti che segnano l’azione della sinistra radicale e popolare. Su questo punto l’insuccesso è evidente. E qui tralascio i fatti di cronaca recente per annotare alcuni dati di valore generale.
I dirigenti ex comunisti non hanno compreso la portata storica della nuova politica della Chiesa di Roma, che condiziona profondamente la scelta politica dei cattolici oggi. La linea di Benedetto XVI non rappresenta soltanto l’involuzione di un papa manifestamente conservatore.E quindi un fenomeno isolato e potenzialmente transitorio. E’ qualcosa di più. Essa testimonia una cultura e una strategia profondamente pensata da quasi tutto il Vaticano. Per dirla in breve, in questa fase storica la Chiesa, di fronte agli esiti estremi di una modernizzazione che si esprime in termini di accresciuto dominio tecnico sulla natura e sulle persone, di mercificazione compulsiva di ogni angolo della vita, reagisce con un riflesso autoritario. Se la libertà dell’individuo, conquista del pensiero illuminista, diventa l’individualismo anomico, che sgretola la rete dei rapporti sociali, la Chiesa non si schiera contro i poteri che orchestrano questo modello di società.Non cerca soluzioni progressive, che ricompongano le relazioni umane con un incremento di potere democratico.. Essa stessa, del resto, è un potere: gerarchico, autoritario, antidemocratico ab ovo. Non può affondare l’analisi in una critica che si rivolgerebbe anche contro se stessa. Perciò cerca di rispondere alle sfide difendendo il vecchio ordine. Posta in grande difficoltà nei suoi cardini dottrinali, reagisce con decisioni di ordine restaurativo, che sono spesso apertamente configgenti con il semplice senso comune dei diritti della persona oggi.
Del resto, la distruzione di senso che accompagna ormai apertamente l’avanzare dello sviluppo, nella sua veste di « occidentalizzazione del mondo», provoca un riflesso analogo anche in altre religioni, soprattutto nell’Islam. La violenta reazione delle fedi rivelate, che oggi si muovono a difendere identità culturali mortalmente minacciate, recuperano a questo fine, come sappiamo, anche le forme più arcaiche e repressive delle loro tradizioni. Ed è rivelatore il fatto che, tale generale reazione, venga dalla stessa Chiesa di Roma interpretata come una rinascita del fervore religioso nel mondo.
Ora, non dubito del fatto che i cattolici del PD siano in buona parte autonomi dalla Chiesa. Ma fino a che punto possono esserlo ? Qui occorre rammentarsi di ciò che è accaduto ai partiti negli ultimi 20 anni. Essi – per dirla con il politologo Otto Kirchheimer - sono diventati «partiti pigliatutto», si sono trasformati in agenzie di marketing elettorale. La Chiesa di Roma – entrata peraltro ormai direttamente nell’agone politico - non rappresenta più soltanto il più alto magistero spirituale del mondo cattolico.Oggi si presenta come una delle pedine in gioco della geografia e del mercato elettorale italiano. E’ oggetto della competizione di gran parte delle forze politiche che guardano ad essa, con un machiavellismo ormai triviale, come a un bacino potenziale di voti, un centro di influenza e di potere. Per quale superiorità culturale e morale i cattolici del PD dovrebbero rinunciare a questa sponda strumentale?
E’ evidente, dunque, la difficoltà sistemica in cui si sono messi gli ex DS, costretti a logorarsi in una interminabile mediazione interna su questioni che sono fondative della loro laicità. Parte della paralisi operativa di questo partito nasce anche da qui. Ma non è tutto. L’unità organica con i cattolici costringe gli ex DS, anche per le ragioni dette, a uno spostamento al «centro», cioé verso posizioni moderate dell’asse programmatico del PD. Uno spostamento strategico, in atto per la verità da tempo, che ora viene perseguito in maniera organica e istituzionale Allora la domanda è – al di la di ogni valutazione di merito strettamente politico – è, questa, una scelta vincente, possibile, realistica ? Tutto, ma proprio tutto, lascia pensare che non sia così. Il cosiddetto centro è il luogo più affollato della vita politica italiana. Non soltanto perché c’è già un medio partito come l’UDC. Questa è una osservazione banale. Ma perché, in realtà, tutti i partiti italiani sono ormai di centro. La maggioranza che oggi sostiene il governo non è di destra, ma di centro-destra. Essa cioè copre e rappresenta uno spettro straordinariamente ampio di ceti sociali. Non solo dentro AN c’è una “destra sociale”, ma tutti i partiti hanno il loro insediamento e il loro marketing popolare. Sono «partiti pigliatutto», per l’appunto. Il caso della Lega è esemplare. Da quando esiste ha messo in campo tutti gli strumenti più abietti della retorica populistica, quelli destinati a creare il nemico: dal Sud infetto a Roma ladrona, per passare ai rom, ai rumeni, agli zingari, a clandestini. Eppure è noto che tale formazione ha oggi in tante regioni un insediamento da vecchia DC.
Dunque, che cosa ci sta a fare al centro il PD ? C’è bisogno addirittura di un nuovo partito per realizzare un programma di governo un po’ meno moderato di quello dell’esecutivo attuale? Perfino l’Economist si è accorto di questa imbarazzante omologazione, quando ha preso visione del programma dei due poli nell’ultima campagna elettorale. Ma l’errore strategico acquista un’evidenza drammatica di fronte al fatto che un vasto universo sociale, un intero continente di culture, soggettività, movimenti, associazioni, rimane oggi sempre più privo di rappresentanza politica. Nessuno lo dice, perché i commentatori accreditati sono impegnati a spiegare la crisi con ragioni di ingegneria finanziaria. Ma essa dipende anche dal fatto che i ceti popolari e soprattutto la classe operaia hanno progressivamente perduto le loro rappresentanze storiche, da decenni impegnate a «spostarsi al centro ». Sempre più al riparo da conflitti oppositivi, il capitalismo è così potuto diventare «unleashed», scatenato - come ha ricordato l’economista inglese Andrew Glyn – privo di controlli, di contrappesi, di regole,
Oggi, che la crisi economica, il crollo di aziende, la disoccupazione di massa avanza a grandi passi chi rappresenterà politicamente la marea montante dei poveri? Chi darà voce e progetto a conflitti che saranno necessariamente radicali? Il centro? Rammentiamo sommessamente che la Grande Crisi degli anni Trenta ha avuto due esiti divergenti: il New Deal e il nazismo. Non è indifferente per gli esiti della crisi attuale chi, con quali idee, si porrà alla testa dei movimenti popolari.
Oggi, di fronte a tanta manifesta inadeguatezza, appare perfino trascurabile il fatto che i dirigenti del PD non siano neppure d’accordo sulla collocazione da dare al loro partito nel Parlamento europeo

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