Contro gli incendi? Anzitutto l’autodifesa delle comunità

29 Luglio 2009
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Antonio Leoni jr.

Le domande di A Manca sottendono una visione un pò ingenua e fanno riemergere una tentazione ricorrente, quella di ipotizzare cause dei fenomeni incendiari estranee alla realtà sociale e territoriale sarda contemporanea. Basta leggere i giornali di oggi per rendersi invece conto che non c’è molto di nuovo in quello che è accaduto. Le notizie fornite dagli investigatori riconducono gli episodi dei giorni scorsi a due categorie. La prima è quella degli Incendi dolosi (la più parte): finalità principale è quella di arrecare un danno specifico ai proprietari di determinati fondi o aziende. Il paradosso è dato dalla stessa legislazione statale antincendi, nata dall’intento di stroncare l’uso del fuoco ai fini di speculazione, sopratutto edilizia. Chi appicca l’incendio oggi sa in genere benissimo che oltre al danno contingente scattano i vincoli della legge 353 del 2000: per dieci anni i terreni bruciati diventano inutilizzabili e, se si tratta di zone boscate (in Sardegna ci rientrano anche i pascoli arborati e vaste zone a prevalente macchia mediterranea), non ci si può costruire, coltivare, pascolare e nemmeno compiere interventi di rinaturalizzazione. Il proprietario vittima dell’incendio è praticamente rovinato. Tra gli incendi dolosi rientrano anche quelli originati da cause “sociali”: ritorsioni contro enti pubblici per mancate erogazioni di benefici, per mancate assunzioni in cantieri forestali, minacce o vendette o atti di vandalismo contro amministrazioni o amministratori comunali.
La seconda cetegoria è quella degli incendi colposi: più o meno il trenta per cento quanto a numero dei fuochi, ma assai di più quanto a conseguenze in termini di estensione dei territori colpiti, per effetto di un altro paradosso: l’incendio doloso è spesso (non sempre) ben organizzato e tendenzialmente circoscritto, anche se chi lo appicca mette nel conto che possa “scappare” o addirittura ne favorisce l’estensione per occultare l’individuazione del vero obiettivo; l’incendio colposo è di per sè “scappato”, è imprevisto e imprevedibile, può partire dovunque e arrivare dovunque. Uso di fresatrici (incendio di Monte Arci), di decespugliatrici (Tresnuraghes), persino di attrezzature da barbecue e chi più ne ha più ne metta, in un contesto di assoluta perdita di quella dimestichezza col fuoco che avevano le genti sarde e in particolare pastori e contadini in passato e che non hanno affatto i nostri contemporanei.
Chi appicca il fuoco dolosamente non ha bisogno dei giornali per sapere quali sono le giornate più adatte (sono assolutamente prevedibili a chiunque conosca i cicli a breve del maestrale e dello scirocco). Chi lo innesca per colpevole imperizia, al contrario, non solo non sa nulla dei cicli del vento, ma i giornali neppure li legge. Aggiungiamo ancora tralicci elettrici, linee ad alta tensione, cabine di trasformazione lasciati a sè stessi da gestori pubblico-privati irresponsabili. Nessun complotto, quindi.
L’apparato antincendio non sempre funziona al meglio? Il coordinamento tra le forze impiegate non solo nello spegnimento ma anche nella gestione dell’ordine pubblico e della sicurezza mostra delle falle? Capita. Ma nessun apparato sarà mai in grado di controllare completamente il fuoco in un territorio così vasto come la Sardegna. Certo invece che un’accurata prevenzione (la manutenzine costante e la ripulitura dei punti più critici di strade, linee elettriche, periferie dei centri abitati, confini dei fondi e delle aziende agricole e zootecniche) può scongiurare la morte di persone e di animali. Certo ancora che una capillare informazione (ri-educazione) sul pericolo endemico del fuoco in ambiente mediterraneo potrebbe ridurre gli incendi causati da imperizia. Certo anche che una seria collaborazione dei cittadini nella individuazione e nella denuncia dei responsabili, al fine di applicare pene che già sono previste dalla legge e che sono abbastanza pesanti, se inflitte e scontate davvero, aiuterebbe a scoraggiare gli incendiari dolosi e quelli che maneggiano fuochi, attrezzi e territori in modo imbecille. Tutto ciò si chiama autodifesa delle comunità: un tempo faceva parte della cultura delle campagne e dei paesi della Sardegna (esemplari i contenuti, in materia, della Carta de Logu arborense). Oggi nelle nostre comunità, anche rurali, si respira una subcultura da periferia urbana, tanto indifferente al valore del territorio quanto tendente a deresponsabilizzarsi dalla sua gestione e ad accettare vecchi e nuovi sensazionalismi.

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