Israele e la pace in Medio Oriente

17 Maggio 2008
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Gianfranco Sabattini

In un suo recente saggio Furio Colombo (La fine di Israele, Il Saggiatore, 2007) compie una difesa appassionata in favore di Israele. Per Colombo, è difficile contestare l’affermazione che lo Stato di Israele è nato quando ancora non c’era uno stato palestinese; che quest’ultimo è stato proposto per la prima volta dalle Nazioni Unite nel 1948, nelle stesse dimensioni e con le stesse risorse e con la stessa data di nascita di Israele; che la sua formazione è stata rifiutata dagli Stati arabi già esistenti nell’area mediorientale; che gli stessi stati arabi hanno deciso di muovere guerra contro Israele usando strumentalmente i palestinesi. Da più di sessant’anni Israele ed il popolo palestinese sono stati quasi sempre in guerra, anche se non sono mancate occasioni di pace, che sono servite solo a mantenere viva la speranza di una possibile via di uscita. Per Colombo, però, alla luce degli attuali avvenimenti, quella speranza non esisterebbe più.
Al peggioramento della prospettiva per un sicuro futuro dello Stato di Israele non sarebbe estranea la sinistra del mondo e con essa quella italiana, la quale, avrebbe ideologicamente interiorizzato l’idea di una guerra coloniale di ebrei organizzati e potenti contro palestinesi poveri e dispersi, nonostante che centinaia di milioni di arabi, sorretti dalla potenza resa possibile dalla disponibilità di petrolio ed organizzati all’interno di Stati proclamati artificialmente indipendenti dall’ultimo occupante europeo sulle ceneri dell’Impero Ottomano, abbiano usato e continuino ad usare i palestinesi poveri come falso scopo delle loro mire. Nonostante tutto ciò, la sinistra italiana avrebbe sempre condiviso posizioni contrarie ad Israele, per cui anche ora i palestinesi, quando effettuano attentati suicidi nelle vie delle città israeliane, sarebbero i caduti di una guerra di liberazione, mentre Israele, anche quando stipula condizioni di pace con Egitto e Giordania o quando si ritira dalla striscia di Gaza, rimarrebbe sempre l’invasore da sconfiggere.
A parte la passione profusa in favore di Israele da Colombo, si deve tuttavia riconoscere che molti errori, o meglio molte rigidità, dopo molti anni di guerra, si collocano anche dal lato di Israele; è il caso di ricordare che una personalità non sospetta di parte israeliana, Moshe Dayan, ebbe una volta onestamente a riconoscere che la pace con i palestinesi, dopo anni di duri confronti, sarebbe stata assai problematica, in quanto il “massimo che Israele poteva offrire ai palestinesi era meno del minimo di quanto essi potevano accettare”. Nonostante questa pessimistica ammissione, si deve anche riconoscere che il rischio di Israele non è tanto connesso al fatto di essere stato abbandonato dalla sinistra del mondo, quanto al fatto che il suo interlocutore, sul piano dialogico, si trova arroccato dietro posizioni che non è dato sapere se mai in futuro sarà possibile rendere negoziabili. Da cosa deriva l’impossibilità del dialogo per chi da anni ha interiorizzato la cultura del rifiuto?
Per rispondere all’interrogativo può essere utile nell’interpretare la particolare natura del rapporto che intercorre tra israeliani e palestinesi quanto ebbe ad affermare il grande storico Arnold Toynbee sul rapporto tra culture diverse. Quando due culture, una percepita da chi la condivide come autosufficiente ed un’altra ad essa esterna, totalmente o solo parzialmente propensa al dialogo, vengono in contatto, quest’ultima provoca nelle cultura percepita come autosufficiente una reazione negativa, con conseguente erezione di barriere volte ad evitare possibili aperture nei confronti della cultura esterna. La qualità delle barriere che possono essere erette, all’interno della cultura autosufficiente, contro gli effetti dell’intrusione della cultura esterna, dipenderanno dalla possibilità che gli agenti in essa operanti, dotati delle capacità politiche più dinamiche, si costituiscano in “partito progressista”, per divenire i sostenitori di un’intenzionale e programmata apertura al dialogo con l’esterno. In questo contesto, però, se il “partito progressista” fallisce nella soluzione dei problemi, anche per cause estranee al dialogo con l’esterno, è inevitabile, come l’esperienza mediorientale sta a dimostrare, l’egemonia politica del “partito conservatore”, per il quale sarà facile sostenere che i fallimenti della politica di unità nazionale e l’annientamento delle specificità culturali ed identitarie sono da imputarsi ai tentativi di dialogare con l’esterno; per Toynbee, quando ciò accade non deve meravigliare che l’atteggiamento della cultura chiusa verso l’esterno sia di opposizione e di ostilità e la sua risposta naturale sia quella negativa dell’ostrica che si chiude nel suo guscio, o dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia.
Di fronte a tale situazione a che serve preoccuparsi del fatto che Israele, nella percezione del suo isolamento, sia portato ad omologarsi su posizioni di destra, con il conseguente “tradimento” degli ideali che presiedettero alla sua stessa nascita? A che serve il relativismo valoriale col quale l’Occidente tende, contemporaneamente, a ribadire la fondatezza delle posizioni degli uni e degli altri? Un serio aiuto ad Israele ed al popolo palestinese può giungere non solo dal sostegno economico, col quale i Paesi arabi e quelli occidentali pretendono di “salvarsi l’anima” a fronte delle gravi responsabilità per il loro unico interesse per il petrolio, ma anche e soprattutto dal sostegno, in Israele e nel mondo arabo, che deve essere dato a chi è impegnato a combattere le forme di integralismo e di chiusura a tutti i tentativi di dialogo. Tutti coloro che tradiscono questo impegno e che approfittano di ogni occasione (come, ad esempio, quella offerta dalla fiera del libro di Torino di questi giorni in cui Israele è stato invitato come ospite di onore) per organizzare dimostrazioni a favore degli uni contro gli altri, ma che i più consapevoli degli gli uni e degli altri condannano, mostrano non solo scarso rispetto per i popoli che da anni sono sottoposti a sofferenze indicibili, ma anche forme di abietto cinismo col quale, strumentalizzando i mali altrui, perseguono finalità proprie delle quali a stento se ne percepisce il senso.

1 commento

  • 1 Andrea Pubusa
    17 Maggio 2008 - 10:24

    Devo confessare che sulla questione Fiera del Libro mi sento come l’asino di Buridano: il solo odore del libro mi inebria e l’idea di allontanarmene mi disturba, ma al tempo stesso m’inorridisce il solo pensiero delle nefandezze che il governo d’Israele stà compiendo contro il popolo palestinese. Ed allora penso che abbiano ragione tutt’e due: quelli che ce l’hanno contro il governo israleliano e quelli che ritengono la cultura l’unico terreno da cui ripartire per ricomporre una ferita lacerante. Hanno torto gli organizzatori che anziché invitare uno Stato, che, poi in concreto, ha la faccia del governo del momento, avrebbero dovuto appoggiarsi a quegli intellettuali palestinesi e israeliani che sono per il dialogo e per la pace. Ricordate quelle personalità della cultura dei due popoli che qualche anno fà, incontrandosi - se non ricordo male - in Svizzera, lanciarono un manifesto per la pace fra i due popoli? L’errore è dunque degli organizzatori, che, privilegiando una parte, dovevano aspettarsi la reazione dell’altra. E poi è stato un errore? O non è stata una precisa scelta politica?
    Infine, due parole sul boicottaggio. E’ stato criminalizzato. In realtà, è una nota forma di lotta democratica, che tende in modo forte a sollevare un problema, a imporlo all’opinione pubblica. E, a vedere dai risultati, l’obiettivo è stato raggiunto. I contestatori hanno dato luogo ad una manifestazione pacifica in cui l’unica nota stonata era l’inutile dispiegamento delle forze di polizia in assetto antisommossa. Raitre l’ha seguita in diretta ed ha intervistato i promotori, i quali hanno detto cose molto sensate sulle ragioni della loro protesta, mettendo anche in luce che non sono i libri, né la cultura il loro bersaglio, ma la politica del governo israeliano. Insomma, in fondo, mi pare che la cultura e la politica si ricongiungono quando si fondano sul rispetto della persona e sulle idealità di pace e di fratellanza fra i popoli; divergono quando la prima privilegia il potere, l’arroganza e la sopraffazione. Ed è una riflessione su questa verità che è mancata agli organizzatori.

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