Giudici: ampliamento del ruolo e riequilibrio

31 Luglio 2009
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Bruno Troisi

Prosegue la riflessione del Prof. Bruno Troisi sul nuovo ruolo della magistratura. Nel primo intervento ci ha parlato dell’aumento del peso sociale e istituzionale  dei giudici, oggi segue una valutazione sul fenomeno e un’ipotesi di riequilibrio.

Certamente non si può dire che vi sia un’impropria assunzione di funzioni, allorché i giudici si limitano ad attribuire rilevanza a diritti, a interessi, a bisogni e a soggetti che già assumono rilevanza nel quadro costituzionale (che gli stessi giudici contribuiscono ad integrare) o, addirittura, hanno ottenuto un riconoscimento formale da parte del legislatore ordinario. La realtà ci mostra, poi, l’esistenza di un intreccio sempre più complesso tra scelte legislative e attività giudiziaria: molto spesso la scelta legislativa si risolve in un’attribuzione di penetranti poteri al giudice, o attraverso un suo coinvolgimento diretto nella “gestione” di rapporti intersoggettivi (si pensi alla sua presenza, talvolta addirittura ingombrante, nel “governo” della famiglia) o attraverso l’uso, sempre più frequente, di una normazione per clausole generali (cioè, di una legislazione costituita non soltanto da norme analitiche, ma da generali indicazioni di principio), che attribuisce al giudice ampi margini di autonomia e “creatività”.
La funzione della magistratura è, insomma, rispettata tutte le volte che si dà piena attuazione a diritti riconosciuti, tutte le volte che si legittimano e quindi si tutelano interessi “nuovi” nel quadro di valori fondamentali già definiti , anche se a loro volta destinati ad un processo continuo di adeguamento alle dinamiche sociali.
Ma le preoccupazioni di tenere ben distinta l’attività giudiziaria da quella di altri soggetti istituzionali sono certamente giustificate allorché si consideri, da un lato, l’inquietante scenario della domanda inevasa di tutele legislative, conflitti sociali non regolati e interessi collettivi alla ricerca di possibili garanzie che, dagli anni Sessanta ad oggi, diventano sempre più spesso materia di contenzioso davanti ai giudici (ad esempio, in materia di informatica, di telematica o di “bioetica”); e dall’altro il fatto che interi settori della magistratura, impegnati sul fronte delle emergenze che stringono da ogni parte la tormentata Italia degli anni Novanta (si pensi alle svariate forme di criminalità organizzata, alle diffuse zone d’illegalità della pubblica amministrazione, ai diffusi episodi di criminalità economica, e soltanto ieri al terrorismo) investiti di un ruolo istituzionale sempre più complesso, sono sospinti dalla forza stessa delle cose a interpretare gli strumenti del processo penale come strumenti di un controllo sociale da non circoscrivere più all’ambito e ai modi degli stretti controlli di legalità, con esiti gravemente elusivi della regola di soggezione del giudice alla legge (art. 101, comma 2, Cost.): quando il processo penale, da sede dei controlli di legalità, si trasforma in più complessa strategia di controllo sociale, accade talvolta che la magistratura spinga i suoi interventi più avanti di quanto non le consentano le norme di legge; e le garanzie processuali - segnatamente, il diritto di difesa - finiscono talvolta per essere valori meno sentiti dell’esigenza di conseguire il risultato di una decisione (si pensi, ad esempio, all’uso eccessivo - talvolta addirittura improprio - della carcerazione preventiva, o al ricorso esagerato alle intercettazioni telefoniche: secondo una stima ufficiale, nel 1996 vi sono state in Italia 44.000 intercettazioni telefoniche, una cifra impressionante se confrontata con le 1150 intercettazioni eseguite in tutti gli Stati Uniti, o con le 6500 disposte dalla magistratura tedesca).
Illusorio appare in proposito invocare il ripristino della legalità, presupponendo un automatismo meccanicistico nell’applicazione delle norme. Ma, come sappiamo, ogni norma lascia ambiti di discrezionalità nella sua interpretazione-applicazione, ed è appunto il modo con cui tali spazi vengono riempiti che consente di cogliere il “senso” di una giurisprudenza.
Non è possibile, in altre parole, negare la ineliminabile politicità dell’azione del giudice. Oggi, il problema vero è quello del quanto di politicità e di creatività è inscindibile dallo svolgimento dell’attività giudiziaria ed è compatibile con gli equilibri di un moderno sistema di democrazia.
Lo sviluppo del potere giudiziario deve essere in qualche modo bilanciato da efficaci contrappesi istituzionali, che oggi in Italia appaiono particolarmente deboli.
In confronto ad altri sistemi democratici, la nostra Magistratura gode di un’indipendenza molto forte, in considerazione del fatto che tutti i provvedimenti che riguardano i magistrati sono presi dal CSM, composto per due terzi da magistrati eletti direttamente dai loro colleghi. Inoltre, punto estremamente importante, le funzioni requirenti e quelle giudicanti sono esercitate dallo stesso corpo di magistrati indipendenti, un caso unico nei paesi democratici. La conseguenza è, appunto, quella che risultano deboli i contrappesi istituzionali al potere giudiziario. Non bisogna dimenticare che i teorici classici dell’indipendenza del potere giudiziario (da Hamilton a Tocqueville) giustificavano tale principio anche sul presupposto della netta separazione tra magistratura giudicante e pubblica accusa: un corpo unico di giudici e pubblici ministeri non solo danneggia l’immagine di imparzialità del giudice nel processo penale ma, soprattutto se dotato di forti garanzie di indipendenza, aumenta notevolmente la capacità del potere giudiziario di intervenire nel processo politico e, indebolendo uno dei principali contrappesi, ne mette in discussione la stessa legittimazione democratica.
Per ristabilire l’equilibrio, occorre innanzitutto giungere alla separazione organizzativa e istituzionale tra magistratura requirente e magistratura giudicante, tanto più che in questa direzione spinge l’adozione di una procedura penale di tipo accusatorio, caratterizzata da una salvaguardia più rigida del carattere triadico del processo, e quindi dell’immagine di imparzialità del giudice, come terzo tra le parti (la difesa da un lato, la pubblica accusa dall’altro). Una carenza di terzietà del giudice, tra l’altro, rendendo la difesa ancor più debole e subalterna, sottopone la ricerca della verità processuale al dominio della funzione requirente e della polizia giudiziaria. Cosa che potrebbe costituire un pericolo per la libertà dei cittadini.
È un discorso che ineludibilmente conduce alla definizione del ruolo del pubblico ministero. Questi deve perdere il suo ambiguo carattere di “giudice travestito”, che si ammanta d’imparzialità in quanto la legge gli impone formalmente l’obbligo di ricercare oltre alle prove della colpevolezza anche quelle dell’innocenza (art. 358 c.p.p.), ma che, con l’avvento del rito accusatorio, finisce inevitabilmente con l’avere il ruolo della pubblica accusa, cioè un ruolo di parte , come quello della difesa.
La stessa obbligatorietà dell’azione penale , posta dalla legge (art. 112 Cost.) proprio a garanzia dell’imparzialità - oltre che dell’indipendenza - del pubblico ministero, è considerata “un’ipocrisia istituzionale”. È, infatti, ormai pacifico che l’azione penale è di fatto discrezionale (con le intuibili implicazioni sul piano della “politicità” della giurisdizione), nel senso che sono i magistrati a scegliere cosa perseguire e cosa no (come potrebbe mai, una Procura, perseguire con la stessa “intensità” e “tempestività” gli innumerevoli reati di cui viene, o sarebbe facilmente in grado di venire, a conoscenza?). Non solo, ma l’ufficio del pubblico ministero può avviare le indagini anche sulla base di una notizia di reato “non qualificata”, e lo può fare con pieno titolo (al contrario di quanto era stato previsto nel progetto di revisione costituzionale approvato dalla Commissione bicamerale), acquisendo di sua iniziativa la notizia di reato risultante da pubbliche dichiarazioni o da interviste giornalistiche.
In conclusione, appare necessario un intervento del legislatore volto a realizzare il valore della terzietà del giudice, che costituisce il carattere imprescindibile di ogni giurisdizione: non è, infatti, indipendente - oltre che imparziale - un giudice che non sia davvero terzo, cioè equidistante dalle parti in causa.
Se i cittadini chiedono oggi ai giudici tutela anche rispetto ai possibili abusi e prevaricazioni degli altri poteri, spetta al potere legislativo garantire i cittadini anche da possibili arbitri del potere giudiziario, organizzandolo secondo moduli adeguati. La fisiologia della democrazia costituzionale indubbiamente richiede la presenza di un forte potere giudiziario, ma esige che anch’esso sia limitato, al pari degli altri poteri, perché non si trasformi in “potere assoluto”.

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