Bruno Troisi
La magistratura è andata via via assumendo un nuovo ruolo nella società e a livello istituzionale. Crescono le funzioni a garanzia dei cittadini e dei diritti, ma c’è anche un aumento di peso istituzionale e, come avviene in natura, il maggior spazio occupato dall’uno viene sottratto agli altri. E ciò crea ovviamente reazionie problemi di assestamento. Il conflitto persistente con la politica nasce da qui ed è fin troppo evidente. I problemi - come si vede - sono tanti e complessi. Ci aiuta ad individuarli e a delineare una risposta il prof. Bruno Troisi, autorevole giurista dell’Ateneo cagliaritano ed acuto osservatore delle questioni sociali. In questo primo intervento viene trattata la questione dell’ampliamento dei poteri dei giudici e le sue ragioni. In altro intervento verrà fornita una riflessione sul fenomeno e qualche risposta.
Protagonisti della creazione di diritti “nuovi” (si pensi al diritto alla salubrità dell’ambiente, al diritto alla riservatezza o a quello all’identità personale), tutori della moralità pubblica (si pensi alle inchieste riassunte nell’espressione “Tangentopoli”), in prima linea nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata: sono, questi, i ruoli che hanno contrassegnato i giudici negli ultimi decenni. Ciò ha comportato una modificazione, spesso radicale, della percezione sociale della magistratura, immersa sempre più profondamente nei conflitti sociali, ed una inevitabile crescita di peso del potere giudiziario nei confronti del sistema politico-istituzionale.
Questo, si badi, non è un fenomeno soltanto italiano (basti pensare a ciò che è accaduto negli Stati Uniti, dove i giudici sono stati i promotori della cosiddetta “rivoluzione dei diritti civili”; o in Germania, dove sono stati attivi sostenitori delle “iniziative dei cittadini”; o ancora in Francia e in Spagna, dove sono stati -anche qui- difensori della moralità pubblica), e non può essere spiegato facendo soltanto ricorso al criterio della “politicizzazione della magistratura”.
Ci sono, e ci sono sempre stati casi, anche numerosi e inquietanti, di singoli magistrati o di singole corti che si son resi protagonisti di operazioni dichiaratamente partigiane (com’è noto, fin dagli anni ‘60, i giudici, sempre più coinvolti nelle dinamiche sociali, hanno cominciato a interrogarsi politicamente sul proprio ruolo: basti pensare al “manifesto” di Magistratura Democratica, nel quale si teorizzava l’”uso alternativo” del diritto a favore delle “classi subalterne”). Ma quello che viene comunemente designato “attivismo giudiziario” è fenomeno ben più complesso: la tendenza generale all’ampliamento del ruolo della magistratura nell’ambito delle istituzioni dello Stato è un fatto che non può essere semplicisticamente ricondotto a una serie di forzature soggettive, più o meno apprezzabili o censurabili, è un’evoluzione che, di per sé, non va considerata negativamente. In uno Stato costituzionale, lo sviluppo di un forte potere giudiziario è, di regola, un fatto fisiologico, che per di più corrisponde a tendenze di lungo periodo presenti un po’ dovunque nelle democrazie contemporanee.
Occorre, a tal riguardo, riflettere sul fatto che le stesse funzioni di risoluzione delle controversie e di controllo della legalità assumono, oggi, significati profondamente diversi da quelli che avevano in passato: basti pensare alla rilevanza socio-economica della decisione giudiziaria quando la controversia riguarda gruppi economici che si contendono un settore produttivo o quando il controllo investe comportamenti di chi esercita poteri di governo. Soprattutto quest’ultimo fenomeno ha suscitato polemiche, rimproverandosi ai giudici un eccesso di attenzione per quel che fanno governanti e dirigenti politici. Ma questo non dipende - se non in casi isolati - da una volontà di protagonismo, quanto piuttosto dalla circostanza che il progressivo ampliarsi della sfera dell’azione pubblica ha portato inevitabilmente con sé un corrispondente ampliamento del controllo su questo genere di attività e su chi direttamente la gestisce.
A ciò si aggiunga che dalla stessa società già da tempo - come indicano univocamente tutti i dati quantitativi disponibili - provengono richieste, “nuove” e sempre più numerose (si stima, nell’ultima fase, un aumento medio del 50%), di una risoluzione giudiziaria dei conflitti.
Molteplici sono le cause di questa trasformazione. Sono entrati in crisi altri strumenti di regolazione sociale e la magistratura, soprattutto in una società frammentata come la nostra, appare come l’unico punto di riferimento comune dotato di una legittimazione istituzionale per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti; inoltre, cresce il numero degli interessi in considerazione della rilevanza sempre più marcata assunta dal riferimento ai diritti fondamentali (si pensi a quanto è avvenuto, prima, in materia di lavoro, poi, in materia di ambiente e di tutela del consumatore, o ai problemi legati al diffondersi del fenomeno della famiglia non fondata sul matrimonio, delle tecnologie elettroniche, genetiche, della riproduzione, e così via) e, con esso, crescono le difficoltà di una loro attuazione spontanea: si producono così conflitti nuovi che fatalmente tendono ad essere “giurisdizionalizzati”.
Un’altra causa dell’ampliamento del ruolo della giurisdizione è legata alle politiche di deregulation. Questa non significa affatto meno diritto: vuol dire meno diritto “statuale” con margini più larghi attribuiti all’autonoma creazione da parte dei privati delle discipline giuridiche che li riguardano. Questo comporta che sono appunto i giudici a dover risolvere l’insieme delle controversie legate all’attuazione di questo diritto di fonte privata, controversie per le quali la mancanza di un esclusivo riferimento legislativo attribuisce una particolare qualità all’intervento del giudice. Con un problema in più: in via di principio, quale dev’essere il parametro al quale il giudice deve attenersi nella risoluzione di questo tipo di controversie? La logica di mercato, che ha guidato la normativa messa a punto dai privati, o anche l’insieme dei valori espressi dal testo base dell’ordinamento, cioè dalla Costituzione, nella quale si esprimono valori non riducibili a quelli di mercato? La risposta è ovvia: proprio nella logica di un sistema che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge, e che pone la Costituzione come legge fondamentale, i valori da questa affermati costituiscono la prima e ineludibile guida del giudice.
Il rafforzamento del ruolo della giurisdizione deriva poi dalla lentezza del legislatore : quanto più il legislatore è frenato dalla pressione di interessi particolari, tanto più forte diventa la ricerca di un altro varco istituzionale, che la magistratura può offrire anche per la sua natura di potere diffuso (per intenderci, una lobby potente può bloccare i lavori di una commissione parlamentare, ma difficilmente riesce ad intercettare la miriade di azioni giudiziarie che, respinte magari dalla maggioranza dei magistrati, riescono poi a trovare dei giudici dalla cultura più aggiornata o semplicemente più liberi da condizionamenti).
Il sistema giudiziario diventa così uno strumento di intervento diretto e di partecipazione dei cittadini: soggetti individuali e collettivi (si pensi alle associazioni ambientalistiche o a quelle dei consumatori), che si vedono precluso l’accesso ai luoghi classici della rappresentanza, riescono a far sentire la loro voce e a ottenere risultati diversamente non raggiungibili.
È, questa, una distorsione del sistema democratico, un’impropria assunzione di funzioni da parte di soggetti che come i magistrati mancano di una legittimazione democratica? A questa domanda non può essere data una risposta univoca e valida in assoluto. Ma di ciò in un prossimo intervento.
1 commento
1 Democrazia Oggi - Giudici: ampliamento del ruolo e riequilibrio
31 Luglio 2009 - 06:00
[…] la riflessione del Prof. Bruno Troisi sul nuovo ruolo della magistratura. Nel primo intervento ci ha parlato dell’aumento del peso sociale e istituzionale dei giudici, oggi segue una […]
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