Autonomia differenziata, tutte le parti illegittime della legge secondo la Corte Costituzionale

22 Novembre 2024
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 Vitalba Azzollini

 

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legge in tema di autonomia differenziata (legge 26 giugno 2024, n. 86). Il comunicato che sintetizza la sentenza - emesso dalla Corte stessa nella serata del 13 novembre scorso, dopo gli interventi degli avvocati che hanno sostenuto i ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania - è molto tecnico e articolato. Pertanto, può essere utile fornirne una spiegazione che renda la pronuncia comprensibile anche ai non addetti ai lavori, vista l’importanza della materia.

La Consulta ha ritenuto non fondata “la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata”, ma ha considerato invece “illegittime specifiche disposizioni dello stesso testo legislativo”, elencando in particolare sette profili di incostituzionalità.

Le premesse

Per inquadrare correttamente la pronuncia della Corte Costituzionale, occorre prestare particolare attenzione alle premesse formulate nel relativo comunicato, alla luce delle quali vanno letti i sette rilievi espressi. Secondo la Corte, “l’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana”. I giudici riconoscono la possibilità che le regioni “ottengano forme particolari di autonomia”, ma ciò non può avvenire a discapito dei “principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio”. Si tratta di principi che evidentemente gli autori della legge – in primis Roberto Calderoli, ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie - non hanno tenuto nella considerazione che, invece, sarebbe stata necessaria.

Inoltre - afferma ancora la Corte - la devoluzione di funzioni legislative e amministrative non può tradursi in una spartizione di potere politico fra Stato e Regioni, ma deve avvenire in vista “del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”. Dunque, la richiesta di singole funzioni va giustificata da ogni Regione sulla base del principio di sussidiarietà, e quindi della comprovata capacità della regione stessa di svolgere la funzione in modo più efficiente rispetto a quanto può fare lo Stato. Dunque, come ha precisato il professor Massimo Villone, l’autonomia differenziata non può tradursi “in uno shopping nel supermercato delle competenze in vista di indimostrati vantaggi nella gestione della cosa pubblica”, ma deve fondarsi sulla attestazione che certe funzioni possano essere svolte meglio a livello territoriale in ragione di determinate specificità della regione richiedente, la quale deve fornire “prove concrete e inerenti alle peculiarità vantate”, come affermato nel ricorso della regione Campania.

Il trasferimento di funzioni

Innanzitutto – afferma la Corte - l’intesa tra lo Stato e la Regione, e la successiva legge di approvazione dell’intesa stessa, devono riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative, e non materie o ambiti di materie, come invece dispone la legge sull’autonomia differenziata. L’art. 116, infatti, si limita a prevedere il trasferimento di “ulteriori forme e condizioni di autonomia” nelle materie di potestà concorrente e in alcuni ambiti di competenza esclusiva dello Stato, con un decentramento di specifiche funzioni. La devoluzione illimitata di competenze comporterebbe ripercussioni sulla capacità dello Stato di garantire l’uniformità dei diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, determinando – come afferma il ricorso della regione Puglia - “un’intollerabile frattura dell’ordinamento”, che inciderebbe anche sulla coesione sociale, riverberandosi “in maniera decisiva sulla pari dignità sociale dei cittadini e sulla capacità dell’ordinamento giuridico di essere effettivamente solidale su base nazionale”.

Cosa significa trasferire specifiche funzioni, e non una materia nel suo complesso? Lo chiarisce il professor Luigi Ferrajoli con un esempio: “non è possibile portarsi via l’Istruzione, magari mettendo mano ai programmi, ma si può invece ottenere l’organizzazione territoriale dei servizi scolastici”. Peraltro, il trasferimento delle competenze di intere materie scardinerebbe l’unitarietà dello Stato, come ha affermato l’ex ministro Franco Bassanini: “in molte di queste materie bisogna oggi affrontare sfide globali” - basti pensare alla questione ambientale o alla transizione energetica - “con le politiche comuni concertate in sede europea, altro che spezzettarle per ventuno Regioni”.

I LEP (livelli essenziali delle prestazioni)

Il secondo profilo affrontato dalla Corte riguarda la delega legislativa con cui il Parlamento ha attribuito all’esecutivo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP). Tale delega risulta priva di idonei criteri direttivi ai quali i decreti legislativi dell’esecutivo stesso si debbano attenere. Ciò significa che “la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento”. Formalmente, la riserva di legge per la predisposizione dei LEP (art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione) è rispettata, ma sostanzialmente la delega è in bianco, e come tale è illegittima.

Sempre allo stesso tema attiene il terzo rilievo di incostituzionalità, relativo alla “previsione che sia un decreto del presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) a determinare l’aggiornamento dei LEP”. In questo caso, non è rispettata nemmeno formalmente la citata riserva di legge sui LEP, poiché la loro modifica viene rimessa a un atto di rango secondario privo di forza di legge, qual è il DPCM. La riserva di legge è violata, come attesta il quarto rilievo della Consulta, anche dalla previsione secondo cui, “sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi» con cui il governo determinerà i LEP, questi ultimi siano fissati con DPCM secondo “la procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023)”. Peraltro, come chiarisce il ricorso della regione Campania, la legge n. 197/2022 non contiene criteri effettivi di determinazione dei LEP, bensì solo disposizioni di natura organizzativa e procedurale, inadeguate a indirizzare l’esercizio della funzione legislativa, e questo contrasta con l’articolo 76 della Costituzione, in base a cui essi vanno definiti chiaramente.

Una esemplificazione di tali criteri direttivi che la legge delega dovrebbe definire la fornisce ancora Franco Bassanini: ad esempio, “non è possibile capire se i LEP in materia di istruzione devono garantire il tempo pieno a scuola al 20 o al 50 per cento degli studenti o se negli asili occorre avere un educatore o educatrice ogni 5, 10 o 20 bambini. I principi e i criteri direttivi devono dare al governo indicazioni precise per la determinazione delle singole prestazioni e servizi pubblici che incidono sull’esercizio dei diritti civili e sociali, e la Corte lo ricorda”.

Il finanziamento delle funzioni trasferite

Il quinto rilievo di incostituzionalità riguarda la “possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito”. Proviamo a spiegare: le risorse necessarie per finanziare le funzioni devolute derivano dalla compartecipazione delle Regioni che le hanno ottenute al gettito erariale maturato nel proprio territorio. Questo meccanismo può presentare criticità legate all’andamento del gettito, tali da far sorgere la necessità di elevare le aliquote di compartecipazione e continuare così a finanziare le funzioni trasferite; ma le criticità potrebbero anche essere legate a una pessima gestione della Regione stessa, incapace di amministrare adeguatamente i fondi ad essa attribuiti.

In relazione a questo secondo profilo, la Corte ritiene che la citata previsione della legge sull’autonomia differenziata potrebbe premiare “le Regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni”. La questione è spiegata bene nel ricorso della Puglia: “la Regione dotata di autonomia particolare può spendere a piacimento, sottraendo risorse al bilancio dello Stato, sicura della successiva copertura”. La legge sull’autonomia, infatti, non impone alle regioni meccanismi di responsabilità o incentivi per un uso efficiente delle risorse trasferite, e questo comporta una potenziale violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione (articolo 97 Costituzione) e del principio di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione).

Il concorso agli obiettivi di finanza pubblica

Quanto al sesto punto, incostituzionale è pure aver previsto “la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le Regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica”.

Regioni ed enti locali hanno un obbligo di partecipazione alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. Tale obbligo discende da quanto previsto all’articolo 119 della Costituzione, nella formulazione introdotta dalla legge costituzionale n. 1/2012, che ha costituzionalizzato il principio del pareggio di bilancio, derivante dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Ogni livello di governo (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), oltre a garantire la parità tra entrate e spese (artt. 81, 97 e 117 Cost.), deve concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari che l’Italia è tenuta a rispettare in base all’ordinamento dell’UE. La previsione, da parte della legge sull’autonomia differenziata, della mera “possibilità” per le Regioni che hanno sottoscritto le intese di concorrere agli obiettivi di finanza pubblica - secondo il ricorso della regione Puglia - “determina un’evidente discriminazione tra le regioni non richiedenti”, obbligate a contribuire a tali obiettivi, “e quelle ad autonomia particolare”, che potrebbero esserne esentate. Ed è una discriminazione “priva di ogni ragionevole giustificazione”.

Come si afferma nel ricorso della regione Sardegna, ciò comporterebbe per le regioni che abbiano ottenuto forme di autonomia particolare «una sorta di extraterritorialità finanziaria — o, se si preferisce appellarla così, di un’autentica “secessione finanziaria” — potendo benissimo (…) restare estranee e indifferenti agli obiettivi di finanza pubblica, che, pertanto, varrebbero per tutti gli enti dei quali si compone la Repubblica (…) ma non per le regioni “differenziate”».

Le Regioni a statuto speciale

Infine, al settimo punto, la Corte afferma che è incostituzionale l’estensione della legge sull’autonomia differenziata, e dunque dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, alle Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia). Secondo la Consulta queste Regioni hanno già proprie forme di autonomia garantite dalla Costituzione e, se vogliono ottenerne di nuove, devono seguire le procedure previste dai loro statuti speciali.

Altre determinazioni

Per superare ulteriori criticità della legge, la Corte ha dato un’interpretazione costituzionalmente orientata di alcune sue disposizioni. Tra le altre, quando il governo si accorda con una regione per concederle l’autonomia differenziata, il voto del parlamento su tale accordo non può essere inteso come “di mera approvazione dell’intesa”, quindi come un “prendere o lasciare”. Per la Consulta bisogna consentire alle Camere di modificare l’accordo, cosa che poi porterebbe a una nuova negoziazione dello stesso. Inoltre, “l’individuazione, tramite compartecipazioni al gettito di tributi erariali, delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso”. In proposito, il ricorso della regione Toscana ha sottolineato che “il criterio della spesa storica (…) riflette e consente il perdurare di profonde differenze territoriali, perché assume a parametro di riferimento quanto si è speso in precedenza, e non quanto si dovrebbe spendere”.

Nelle conclusioni, i giudici affermano che spetta al Parlamento “colmare i vuoti” determinati dalla dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni sopra indicate, nel rispetto dei “principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge”. Ma non basterà che il Parlamento modifichi la legge sull’autonomia differenziata in conformità a quanto indicato dalla Corte. Quest’ultima, infatti, ha specificato che essa resta competente a vagliare la costituzionalità delle leggi di approvazione delle singole intese tra governo e regioni, “qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale”. Insomma, la strada per l’autonomia è ancora lunga e irta di difficoltà.

Il referendum

A fronte di quanto fin qui esposto, resta aperta la domanda circa le sorti del referendum abrogativo che ha per oggetto proprio la legge sull’autonomia differenziata. Com’è noto, sono previsti due quesiti: il primo è relativo all’abrogazione totale della legge, mentre il secondo riguarda un’abrogazione parziale, cioè di specifiche disposizioni del testo normativo. Entro il prossimo 15 dicembre è attesa una pronuncia dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, che deciderà circa la conformità alla legge della richiesta di referendum. In particolare, l’Ufficio centrale dovrà verificare se i quesiti non abbiano più ragione d’essere, dato che la sentenza della Corte costituzionale ha inciso in modo sostanziale sul testo in tema di autonomia differenziata; o se i quesiti stessi possano sopravvivere, mediante la riformulazione degli stessi da parte dei promotori del referendum, al fine di renderli aderenti al mutato quadro normativo. Nel caso in cui la Corte ritenga di “salvare” il referendum, nel mese di gennaio spetterà alla Consulta esprimere un giudizio di ammissibilità dello stesso, ai sensi dell’art. 75 della Costituzione.

Secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il referendum non è più proponibile, evidentemente perché la pronuncia della Corte costituzionale incide sulle disposizioni che erano oggetto del referendum stesso. Tuttavia, forse il ministro non considera che, siccome uno dei quesiti riguarda la cancellazione integrale della legge, potrebbe essere comunque reputato valido. La Corte, infatti, non ha giudicato fondata la questione di illegittimità sollevata sull’intera legge, e pertanto questa opzione referendaria non può ritenersi senz’altro decaduta.

 

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