ALFONSO GIANNI
L’ondata nera non si è verificata in modo così travolgente, come si temeva alla vigilia del voto europeo - con la successiva non trascurabile eccezione dell’Austria - ma è soprattutto vero che il condizionamento delle destre sulle politiche europee e nazionali è enormemente cresciuto. Il crollo dei partiti di governo in Francia e in Germania ha messo in crisi l’asse franco-tedesco su cui poggiava l’Ue fin dal suo sorgere. Questo si è incurvato, se non spostato, verso i paesi dell’Est e quelli appartenenti all’ex campo sovietico. Gli effetti si sono fatti subito sentire nella stessa composizione della Commissione Von der Leyen. O si vedono nell’ultima deliberazione assunta dal Parlamento europeo che costituisce di fatto una dichiarazione di guerra alla Russia, concedendo all’Ucraina armi che per la loro complessità tecnologica solo esperti occidentali possono azionare. Non siamo ancora agli scarponi sul terreno, ma ai posti di comando dei sistemi d’arma sì. Il piano Draghi – e con minore incidenza quello di Enrico Letta - cui la Ue pare affidarsi punta su una finanziarizzazione il cui esito è la sempre più massiccia penetrazione delle grandi società di investimento Usa (“The Big Three”, cioè BlackRock, Vanguard e State Street) nella finanza europea e italiana. Lo dimostra, ad esempio, la consistente presenza di Black Rock in Unicredit e Commerzbank - la banca tedesca che gli italiani vogliono scalare - o l’incontro a palazzo Chigi tra la Meloni e Larry Fink, Ceo di BlackRock, interessato al nuovo piano di privatizzazioni del governo ma ovviamente solo ai pochi bocconi prelibati che sono rimasti in mano pubblica, quali ad esempio Poste italiane.
Se la proposta di debito comune europeo è in astratto migliore di quelle avanzate da coloro che vi si oppongono, il modo con cui è concepita e la finalizzazione che viene avanzata da Mario Draghi sono disastrosi, poiché, essendo finito l’acquisto da parte della Bce del debito dei singoli Stati, questi dovranno rinverdire la vecchia austerità contraendo la spesa pubblica, e soprattutto perché gli investimenti saranno indirizzati verso la spesa militare o verso l’innovazione tecnologica ‘dual use’, rispondendo precisamente agli incitamenti statunitensi ad aumentare l’impegno in questo mortale settore. La pressione sulla Ue e sui singoli governi nazionali per un cessate il fuoco in Ucraina e in Medio Oriente deve quindi intensificarsi: va bloccato l’invio di armamenti, va avanzata la richiesta, nel primo caso, di una conferenza internazionale sul modello di quella di Helsinki del 1975, per garantire sicurezza ad entrambi i contendenti, Russia e Ucraina, nel quadro di una pace realistica - demistificando l’ipocrisia della cosiddetta ‘pace giusta’ - e smentendo le offerte di Marc Rutte su un ingresso imminente dell’Ucraina nella Nato, anzi postulando la necessità di un superamento di quest’ultima, le cui “ragioni” storiche di esistenza, una volta sciolto il Patto di Varsavia, sono da tempo svanite. Nel secondo caso, puntando ad una immediata tregua sul fronte di Gaza e oggi anche del Libano, per riproporre una trattativa sulla base almeno delle risoluzioni Onu, che Netanyahu definisce una “palude antisemita”, per garantire uno Stato palestinese e l’integrità territoriale del Libano, nonché la fine dell’esplicito disegno del primo ministro israeliano di porsi come liberatore del popolo iraniano. Se dobbiamo con tenacia percorrere queste vie per la pace, dobbiamo sapere che la forza per ottenerle non deriva tanto dai governi o dagli organi sovranazionali, quanto dalla ricostruzione di un ampio, variegato, ma sostanzialmente unito popolo della pace. Quello che caratterizzò l’inizio degli anni duemila, pure non riuscendo ad evitare la sciagurata guerra in Iraq. Guardiamo a quanto è successo in Francia. Ora siamo di fronte a un colpo di stato bianco da parte di Macron, ma questo avviene perché è stato il Nuovo Fronte Popolare a fermare le destre della Le Pen. E questo non deriva solo dalla capacità delle sinistre in quel paese di definire un programma e una linea di comportamento comuni, ma dal fatto che da molti mesi a questa parte in Francia sono entrati in scena movimenti sociali che, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno arato il terreno per una sconfitta del macronismo e perché questa non si risolvesse in una vittoria della destra. Se vogliamo contribuire a costruire questo ampio movimento, non possiamo appellarci solo a un pacifismo di principio - ben venga comunque - ma allargare e precisare la nostra analisi sulle cause della guerra e sulle conseguenze da trarre. I pezzetti della guerra si stanno allargando e si congiungono come in un puzzle. Come hanno dimostrato gli studiosi riuniti nel Fernand Braudel Center di New York, come Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, è in atto da qualche decennio una transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est, che vede da un lato il declino americano e dall’altro l’ascesa della Cina. Sono i due paesi fra cui analisti americani prevedono una guerra entro un decennio (speriamo che si sbaglino). La vera forza che rimane in mano agli Usa è quella militare, mentre, seppure con qualche rallentamento, l’ascesa della Cina è evidente non solo in termini di forza economica, anche di capacità attrattiva verso altri paesi. La ripresa dell’azione dei Brics certifica questo. Così come lo sforzo di determinare una nuova moneta comune di scambio, avanzata di nuovo da Lula, è la risposta positiva al processo di dedollarizzazione in corso. Nel passato si sono succedute altre transizioni egemoniche mondiali, come quella completata nella prima metà del Novecento tra Regno Unito e Usa. Quella fu facilitata da due guerre mondiali. Ora, al contrario, è solo un evento bellico di proporzioni globali con l’uso del nucleare che può fermare quel processo, per i caratteri distruttivi che avrebbe, capaci di stravolgere in modo non prevedibile la storia del pianeta e dell’umanità. Dobbiamo analizzare le cause materiali della guerra, evitando tanto forme di determinismo economico, quanto quelle di una sopravvalutazione della geopolitica che va tanto di moda. Se nel caso della guerra russo-ucraina la cosa appare più semplice, a condizione che la si cominci a datare almeno dal 2014, quando appunto i possenti venti dell’Ovest impedirono che si realizzassero accordi economico-commerciali fra Ucraina e Russia per aprire le porte alla Ue, sembra, ma solo apparentemente, che sia più difficile usare questa chiave per leggere il conflitto israelo-palestinese, così incistato di questioni religiose e miti della terra promessa. Ma il quadro si fa più chiaro se teniamo conto che l’eliminazione di Hamas, Hezbollah e degli Houti è funzionale a “bonificare” con un bagno di sangue il terreno per il passaggio del Corridoio Economico India-Medioriente-Europa (Imeec), una rete multimodale di migliaia di chilometri che partendo dai porti indiani, passando per quelli emiratini e sauditi, vuole culminare al porto israeliano di Haifa, potenziale hub per l’intero Mediterraneo. Si tratta di un progetto che da un lato vuole ricostruire le catene di creazione e trasmissione del valore interrotte dalla crisi della globalizzazione, dall’altro contrapporsi alla Via della Seta progettata dai cinesi. Non a caso sono gli Usa gli sponsor dell’Imeec. Ecco perché - anche se quella che ho appena accennato non è l’unica ragione - appena in Medio Oriente qualcuno è disponibile ad una trattativa, viene immediatamente fatto fuori dalle forze israeliane come è successo a Nasrallah. D’altro canto, che la guerra continui è interesse delle grandi forze economiche e finanziarie. Infatti, dal 24 febbraio 2022 il valore di Borsa delle prime 14 aziende americane ed europee agenti nel settore bellico è aumentato del 59,7%. Dall’8 ottobre 2023 il boom dei titoli ha raggiunto il 124% (e la nostra Leonardo ne ha giovato assai). Insomma l’economia di guerra tira, soprattutto in Borsa. Ma se le cause economiche della guerra fanno parte delle manovre del capitale su scala internazionale, se sono consustanziali al suo sviluppo e si ripropongono ormai senza soluzione di continuità, il nostro compito diventa più complesso. Non vedo altra strada, se non quella di unire le ragioni etiche della pace e la critica al concetto stesso di vittoria - perché non c’è vittoria, come diceva Alexander Kojeve nelle sue celebri lezioni su Hegel negli anni trenta del secolo passato, se “il vinto morto non riconosce la vittoria del vincitore” - alla lotta per modificare a fondo le condizioni economiche da cui nasce tutto questo orrore. Allargando così il numero dei soggetti interessati a questa lotta, che include ovviamente quella per la sopravvivenza dell’ambiente, siano essi popoli o parti di essi o strutture istituzionali. Non sto predicando banalmente la fine del capitalismo (aveva comunque ragione Fredric Jameson, ripreso da Mark Fisher, quando diceva che “oggi ci sembra più facile immaginare il deterioramento del pianeta Terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo”), ma quantomeno la necessità di agire coscientemente per mettergli i bastoni tra le ruote. Come potrebbe essere la creazione di un diverso ordine nei rapporti economici internazionali (una nuova Bretton Woods), con elementi di controllo sui movimenti del capitale, con una moneta che sostituisca il primato del dollaro e faciliti i commerci tra i Brics, cercando di promuovere in Europa tutto ciò che la renda autonoma dagli Stati Uniti e libera di giocare un ruolo internazionale non da ancella sia sul piano economico che su quello politico. In questo senso si muove l’appello comparso mesi fa sul Financial Times (successivamente pubblicato in Alternative per il Socialismo) ad opera di autorevoli economisti, a partire da Emiliano Brancaccio e da Robert Skidelsky, il grande biografo di Keynes. Da lì si è sviluppato un dibattito che abbiamo bisogno di tenere vivo. Un’utopia? Forse, ma come diceva un famoso matematico italiano l’unica utopia davvero irrealizzabile è quella di pensare che se ne possa fare a meno.
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