L’editto sulle Chiudende

10 Agosto 2009
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Red

Nel corso dell’Ottocento la Sardegna conobbe una serie di vicende, legate a specifici provvedimenti del governo Sabaudo finalizzati ad imprimere all’economia e alla società dell’Isola una forte spinta modernizzatrice. Il Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni co­muni e della corona, e sopra i tabacchi, nel regno di Sardegna, emes­so il 6 ottobre 1820 e pubblicato nell’aprile del 1823, si proponeva sostanzialmente di introdurre miglioramenti nel settore agrario, am­modernare le tecniche produttive, incoraggiare gli investimenti nelle campagne, creare una proprietà chiusa per favorire la nascita di un ce­to di proprietari fedeli alla corona e affievolire il potere dei feudatari: lo strumento principale era l’abolizione della forma di gestione co­munitaria della terra che da secoli caratterizzava l’economia agraria dell’Isola.
Le chiusure dei terreni riservati a pascolo comune dovevano essere au­torizzate dal prefetto con il parere favorevole del Consiglio comunitativo interessato (l’assemblea dei capifamiglia o dei rappresentanti della popolazione della “villa”).
Le comunità dovevano vendere o affittare i terreni a privati entro un anno, trascorso il quale l’assegnazione poteva essere fatta d’ufficio dal­lo stesso prefetto.
Scriveva l’Angius, nel 1822:
Avendo in conformità della legge alcuni proprietari chiuso i loro terreni, i pastori co­minciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti e ad avvantaggiare il loro interesse che vedevano in no­tevole decremento con la tolta comunanza territoriale e con la diminuzione del pascolo, invocando però le leggi, e quella particolarmente dalla quale i proprietari delle tanche sono comandati di introdurvi i propri armenti. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte.
Il provvedimento fu parzialmente modificato nel 1830 e nel 1831, per ovviare agli effetti negativi scaturiti dalla sua applicazione.
Ciò nonostante continuarono a verificarsi numerosi abusi e usurpa­zioni, che ben presto degenerarono in veri e propri conflitti fra pastori e agricoltori, soprattutto nelle Barbagie, nel Marghine e nel Goceano, dove i pastori, quasi tutti costretti alla transumanza, erano i più pena­lizzati.
Molto eloquenti, a questo proposito, appaiono due relazioni inviate il 22 settembre e il 6 ottobre 1832 dal viceré di Sardegna al guardasigilli:
È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagar­ne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge […] una legge savissima come il regio edit­to del 6 ottobre 1820, che dovea con il progresso dell’agricoltura produrre la pro­sperità di questa isola, «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti», i quali non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni di ogni natura, senza idea di migliorare il sistema agrario, ma al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti.
Dalle più accurate informazioni che mi sono pervenute da Nuoro, e che d’ordine mio sonosi prese sulla faccia del Luogo, mi è risultato che gli eccessi succeduti in quella Provincia e Luoghi vicini principiarono in Gavoi ove furono demoliti soltanto tre chiu­si per le avutesi discussioni fra li demolitori e danneggiati.
Che indi il male attaccò a Mamoiada ove si diroccarono a maleficio le molte tanche di quei Cavalieri, come quelli che coltivando di più l’agricoltura erano stati più solleci­ti a chiudere.
Si propagò poscia in Nuoro, Fonni, Bitti, Oliena e Benetutti; trapassò in Ozieri, né ri­sparmiò Pattada e Buddusò, portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e ro­vine, e segnatamente in Benetutti il di cui aspetto mette orrore al passeggiero.
E come rotto una volta il freno al delitto non è facile lo stare in misura, non man­carono ad aggravare la triste situazione di quei popoli, furti, rapine, grassazioni e omicidj.
Ricercatesi le cause di questi disordini, nessun politico sentore vi si è scoperto, bensì si è imparato che diede stimolo l’avidità di varj particolari, che andarono im­pudenti ne’ chiusi rinserrando pubbliche strade, beni comunali e comuni abbevera­toi, ovvero que’ più ubertosi terreni, che al comune bisogno di pascolo più accon­ciamente sopperivano, eccedendo eziandio ben soventi li stessi termini delle loro concessioni. Che da pari vi concorse l’irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare li loro armenti in cui ripongono unicamente ogni lo­ro idea di proprietà.
Più l’invidia di taluni, che inerti a chiudere o per preiudicio, o per accidia male dopo vedevano la felice riuscita de’ più diligenti, come altresì spirito di private inimicizie e fredde vendette.
E che finalmente non poco vi contribuì l’avarizia di alcuni ecclesiastici, li quali temendo di sminuirsi le loro decime sulla pastoria coll’aumento dell’agricoltura ne’ chiu­si, non si ristettero dall’insinuare e predicare in mezzo a rozzi pastori, che il sistema del­le chiudende era odioso.
Particolarmente significativi delle emozioni con cui i sardi vissero questo trapasso epocale appaiono i versi del frate ozierese Gavino Achena, che denunciavano la situazione che si era venuta a creare nell’Isola in seguito all’applicazione dell’editto:

Tancas serradas a muru
fattas a s’afferra afferra
si su chelu fit in terra
bos serraizis cussu puru.

Terre chiuse con muri
fatte alla “afferra-afferra”
se il cielo fosse stato in terra
vi sareste chiuso quello pure.

Il governo sabaudo, tuttavia, pur essendo perfettamente a conoscenza della situazione, non riuscì né a far rispettare le leggi né ad impedire gli abusi e le usurpazioni, e i pastori furono costretti a farsi giustizia a mo­do loro.
Nel Goceano e a Nuoro essi si sollevarono in massa:
Correndo l’estate del 1832 i pastori nuoresi fecero alleanza giurata con persone malvagie e pronte ai delitti per demolire i chiostri delle tanche. Così, nelle tenebre della notte, incominciò l’opera di distruzione. Si fece un grosso attruppamento e, in­coraggiatisi gli uni e gli altri tra loro, si sparsero nel salto armati di pali per far leva alla demolizione deliberata; quindi una moltitudine di donne, come erano state con­sigliate, si presentò tumultuosamente al vescovo Bua, instancabile confortatore del­le chiudende, per supplicarlo dei suoi valevoli uffici presso il governo contro gli abusi.
Nell’intero circondario di Nuoro la resistenza dei pastori alle chiuden­de assunse quasi i connotati di una guerra civile, con omicidi, danneg­giamenti, incendi, furti e intimidazioni. Il governo decise pertanto di mostrare i muscoli e di reprimere duramente la rivolta.
Il 6 settembre 1832 il viceré istituì una speciale commissione militare che ordinò diverse decine di arresti, condannando numerose persone a morte e a lunghe pene detentive, senza un regolare processo.
Venne allora inviata una delegazione mista, costituita da militari e ci­vili, munita di pieni poteri, che peraltro non riuscì a modificare la situa­zione. Fallì anche una terza commissione, presieduta da un giudice del­la Reale udienza che aveva a disposizione l’esercito, perché operò con parzialità, in favore dei principales.
I rappresentanti del governo furono,
accusati a voce e per iscritto di abusi ed arbitrii che avevano commessi, di non sostene­re con il costume la dignità del loro carattere, di insultare la pubblica mestizia con baldorie, danze e banchetti e con altri disordini, di donare a persone indegne e turpi le co­se mal tolte a famiglie perseguitate, di rovinare la fortuna dei calunniati, vendendo a vi­le prezzo le proprietà dei medesimi per rimunerarsi nella loro opera, di ascoltare e se­condare le private passioni, di operare imprudentemente ordinando l’arresto e di con­dannare senza maturo giudizio.
Fu così che centinaia di contadini e pastori si diedero alla macchia, per sottrarsi agli arresti immotivati e alle condanne emesse ingiustamente e in via economica. «Il popolo, che ragiona sempre con buona logica, ne dedusse, dunque, che i demolitori [delle chiusure] non avevano fatto ini­quità e però ingiustamente erano perseguitati e puniti».
Nel 1833 fu vietata, con una serie di nuove norme, la ricostruzione delle chiudende ed ordinata la distruzione di quelle abusive.
A trarne vantaggio, però, furono paradossalmente gli usurpatori delle terre comunali, delle fonti, degli abbeveratoi e delle strade, che pure non avevano dato inizio ad alcun lavoro di miglioramento agricolo.
Fu noto a tutti, a questo punto, che l’editto era diretto a distruggere la pa­storizia, perché, se non ci fossero state la rivolta e la demolizione violenta delle recinzioni, i pastori non proprietari sarebbero stati estromessi dai pa­scoli “trasformabili”, e per sopravvivere si sarebbero dovuti ridurre a far pascolare le greggi nei terreni peggiori o piegarsi a pagare fitti esosi.
Risale proprio a questo periodo, in Sardegna, la formazione di gran parte della proprietà terriera, che è pertanto una diretta conseguenza di un processo fortemente connotato da abusi e usurpazioni.
Sostiene giustamente Ignazio Pirastu (// banditismo in Sardegna, Edi­tori Riuniti, Roma, 1973) che la legge sulle chiudende ebbe conseguenze nefaste: da essa nacque la proprietà assenteista attuale, con essa non si realizzò il «rifiorimento della Sardegna» sognato dal Gemelli; le coltiva­zioni agricole non ebbero alcun rilevante incremento e le chiusure altro non ottennero che segnare i limiti di una proprietà assenteista e parassita­ria nella quale i pastori continuarono ad esercitare la loro attività primiti­va per di più gravata da un nuovo insostenibile onere, il canone di affitto.
L’aver concepito quella riforma come rivolta contro la pastorizia e non averla fatta precedere e accompagnare da provvedimenti idonei a tra­sformare e migliorare l’assetto della pastorizia, incrementando la produ­zione di foraggio e ammodernando l’impresa pastorale, determinò una drammatica crisi dell’allevamento, non eliminò ma accentuò la dissen­sione fra pastorizia e agricoltura, suscitò una violenta reazione dei pa­stori e di intere popolazioni e produsse una lacerazione profonda del tes­suto sociale, consolidò l’impronta di arretratezza dell’economia terriera dell’Isola, rese permanenti gli squilibri e le contraddizioni che, in breve volgere di tempo dovevano fare esplodere ancora più feroce il fenome­no del banditismo quale è giunto fino a noi.
Causa di fondo di quel fallimento storico fu aver concepito la riforma senza aver tenuto alcun conto della realtà effettiva della società nelle campagne sarde, ben diversa da quella che aveva consentito lo sviluppo dell’agricoltura piemontese.
Dalle chiudende ha origine la questione della pastorizia sarda come si presenta oggi. In pianura e in bassa collina, dove era meno incerto il ti­tolo di proprietà e dove seppur in misura esigua, erano state avviate col­tivazioni agrarie, le chiusure si affermarono con un minimo di fonda­mento legale; in montagna e in alta collina, dove erano prevalenti l’uso comune della terra e le proprietà comunali, le chiusure vennero imposte con gli abusi e le usurpazioni, più evidenti e più gravemente condanna­bili socialmente e moralmente perché lo scopo degli usurpatori era chia­ramente non tanto di investire per trasformare e impiantare colture, quanto di ricavare una comoda rendita dall’affitto dei terreni a quegli stessi pastori che prima delle chiudende avevano libero e quasi gratuito accesso.
Da qui le reazioni violente del 1832 e degli anni successivi nelle Barbagie e in Baronia, a difesa delle proprietà comuni; il successo della lot­ta in difesa delle proprietà comuni è provato dalla vasta estensione di terre comunali, oltre 350.000 ettari in tutta l’Isola, che si son conservati fino ad oggi. I paesi nei quali la lotta contro gli abusi ebbe pieno suc­cesso sono facilmente individuabili in quelli che, come Villagrande, Orgosolo, Siniscola, Orune, hanno proprietà comunali che raggiungono i 20.000 ettari.
Le disposizioni del 1833 praticamente abrogano le chiusure abusive, proibendo la ricostruzione delle recinzioni demolite nel 1832 e ordinan­do la demolizione di quelle erette senza autorizzazione. Queste disposi­zioni, pur con la ripresa delle chiusure promossa dalla carta reale del 26 febbraio 1839, salvarono e ripristinarono gran parte dei pascoli comu­nali.
Troppo tardi, però, i pastori si resero conto del fatto che le chiusure af­fermatesi in pianura avevano radicalmente modificato la loro situazione: dopo il breve uso (dal giugno al settembre) dei pascoli estivi che la loro reazione aveva conservato ai comuni, nella maggior parte dell’anno l’u­so dei pascoli invernali in pianura era possibile solo con il pagamento di sempre più elevati canoni di affitto, imposti da coloro che con le chiu­dende erano divenuti proprietari dei pascoli che erano d’uso comune prima del 1820.
La situazione della pastorizia si aggravò così ulteriormente, dando luogo a una crisi permanente in seguito a tre fattori determinanti successivi alle chiudende: 1) l’abolizione del feudalesimo; 2) l’abolizione del diritto di ademprivio; 3) l’impianto delle industrie casearie che, inco­raggiando l’incremento del numero dei capi e l’estensione dell’area pa­scolativa, provocò l’aumento dei canoni di fitto, un maggior peso della rendita e la concorrenza dei pastori per assicurarsi il pascolo, del cui prodotto, però, non erano più i “padroni” nella nuova economia di mercato dominata dagli industriali e dai grandi commercianti esportatori (che erano quasi sempre gli stessi industriali).

Tratto da: Sardegna Criminale di Giovanni Ricci (Newton Compton Editori s.r.l. - 2007)

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