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Nel corso dell’Ottocento la Sardegna conobbe una serie di vicende, legate a specifici provvedimenti del governo Sabaudo finalizzati ad imprimere all’economia e alla società dell’Isola una forte spinta modernizzatrice. Il Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della corona, e sopra i tabacchi, nel regno di Sardegna, emesso il 6 ottobre 1820 e pubblicato nell’aprile del 1823, si proponeva sostanzialmente di introdurre miglioramenti nel settore agrario, ammodernare le tecniche produttive, incoraggiare gli investimenti nelle campagne, creare una proprietà chiusa per favorire la nascita di un ceto di proprietari fedeli alla corona e affievolire il potere dei feudatari: lo strumento principale era l’abolizione della forma di gestione comunitaria della terra che da secoli caratterizzava l’economia agraria dell’Isola.
Le chiusure dei terreni riservati a pascolo comune dovevano essere autorizzate dal prefetto con il parere favorevole del Consiglio comunitativo interessato (l’assemblea dei capifamiglia o dei rappresentanti della popolazione della “villa”).
Le comunità dovevano vendere o affittare i terreni a privati entro un anno, trascorso il quale l’assegnazione poteva essere fatta d’ufficio dallo stesso prefetto.
Scriveva l’Angius, nel 1822:
Avendo in conformità della legge alcuni proprietari chiuso i loro terreni, i pastori cominciarono a maledire irreligiosamente l’editto delle chiudende e a cercare di reprimere l’ambizione di alcuni chiudenti e ad avvantaggiare il loro interesse che vedevano in notevole decremento con la tolta comunanza territoriale e con la diminuzione del pascolo, invocando però le leggi, e quella particolarmente dalla quale i proprietari delle tanche sono comandati di introdurvi i propri armenti. Queste doglianze furono dall’Ufficio economico della provincia trovate giuste; non pertanto la invocata legge restò inerte.
Il provvedimento fu parzialmente modificato nel 1830 e nel 1831, per ovviare agli effetti negativi scaturiti dalla sua applicazione.
Ciò nonostante continuarono a verificarsi numerosi abusi e usurpazioni, che ben presto degenerarono in veri e propri conflitti fra pastori e agricoltori, soprattutto nelle Barbagie, nel Marghine e nel Goceano, dove i pastori, quasi tutti costretti alla transumanza, erano i più penalizzati.
Molto eloquenti, a questo proposito, appaiono due relazioni inviate il 22 settembre e il 6 ottobre 1832 dal viceré di Sardegna al guardasigilli:
È veramente eccessivo l’abuso che fecesi delle chiudende da alcuni proprietari. Siffatto abuso è quasi generale. Si chiusero a muro ed a siepe dei boschi ghiandiferi, si chiusero al piano e ai monti i pascoli migliori per «obbligare i pastori a pagarne un altissimo fitto» e si incorporarono perfino le pubbliche fonti e gli abbeveratoi per meglio dettare ai medesimi la legge […] una legge savissima come il regio editto del 6 ottobre 1820, che dovea con il progresso dell’agricoltura produrre la prosperità di questa isola, «giovò soltanto nella sua esecuzione ai ricchi e potenti», i quali non ebbero ribrezzo di cingere immense estensioni di terreni di ogni natura, senza idea di migliorare il sistema agrario, ma al solo oggetto di far pagare a caro prezzo ai pastori e ai contadini la facoltà di seminarvi ed il diritto di far pascolare i loro armenti.
Dalle più accurate informazioni che mi sono pervenute da Nuoro, e che d’ordine mio sonosi prese sulla faccia del Luogo, mi è risultato che gli eccessi succeduti in quella Provincia e Luoghi vicini principiarono in Gavoi ove furono demoliti soltanto tre chiusi per le avutesi discussioni fra li demolitori e danneggiati.
Che indi il male attaccò a Mamoiada ove si diroccarono a maleficio le molte tanche di quei Cavalieri, come quelli che coltivando di più l’agricoltura erano stati più solleciti a chiudere.
Si propagò poscia in Nuoro, Fonni, Bitti, Oliena e Benetutti; trapassò in Ozieri, né risparmiò Pattada e Buddusò, portando in tutti codesti luoghi devastamenti, incendi e rovine, e segnatamente in Benetutti il di cui aspetto mette orrore al passeggiero.
E come rotto una volta il freno al delitto non è facile lo stare in misura, non mancarono ad aggravare la triste situazione di quei popoli, furti, rapine, grassazioni e omicidj.
Ricercatesi le cause di questi disordini, nessun politico sentore vi si è scoperto, bensì si è imparato che diede stimolo l’avidità di varj particolari, che andarono impudenti ne’ chiusi rinserrando pubbliche strade, beni comunali e comuni abbeveratoi, ovvero que’ più ubertosi terreni, che al comune bisogno di pascolo più acconciamente sopperivano, eccedendo eziandio ben soventi li stessi termini delle loro concessioni. Che da pari vi concorse l’irragionevole bramosia de’ silvestri pastori di un’illimitata libertà di pascolare li loro armenti in cui ripongono unicamente ogni loro idea di proprietà.
Più l’invidia di taluni, che inerti a chiudere o per preiudicio, o per accidia male dopo vedevano la felice riuscita de’ più diligenti, come altresì spirito di private inimicizie e fredde vendette.
E che finalmente non poco vi contribuì l’avarizia di alcuni ecclesiastici, li quali temendo di sminuirsi le loro decime sulla pastoria coll’aumento dell’agricoltura ne’ chiusi, non si ristettero dall’insinuare e predicare in mezzo a rozzi pastori, che il sistema delle chiudende era odioso.
Particolarmente significativi delle emozioni con cui i sardi vissero questo trapasso epocale appaiono i versi del frate ozierese Gavino Achena, che denunciavano la situazione che si era venuta a creare nell’Isola in seguito all’applicazione dell’editto:
Tancas serradas a muru
fattas a s’afferra afferra
si su chelu fit in terra
bos serraizis cussu puru.
Terre chiuse con muri
fatte alla “afferra-afferra”
se il cielo fosse stato in terra
vi sareste chiuso quello pure.
Il governo sabaudo, tuttavia, pur essendo perfettamente a conoscenza della situazione, non riuscì né a far rispettare le leggi né ad impedire gli abusi e le usurpazioni, e i pastori furono costretti a farsi giustizia a modo loro.
Nel Goceano e a Nuoro essi si sollevarono in massa:
Correndo l’estate del 1832 i pastori nuoresi fecero alleanza giurata con persone malvagie e pronte ai delitti per demolire i chiostri delle tanche. Così, nelle tenebre della notte, incominciò l’opera di distruzione. Si fece un grosso attruppamento e, incoraggiatisi gli uni e gli altri tra loro, si sparsero nel salto armati di pali per far leva alla demolizione deliberata; quindi una moltitudine di donne, come erano state consigliate, si presentò tumultuosamente al vescovo Bua, instancabile confortatore delle chiudende, per supplicarlo dei suoi valevoli uffici presso il governo contro gli abusi.
Nell’intero circondario di Nuoro la resistenza dei pastori alle chiudende assunse quasi i connotati di una guerra civile, con omicidi, danneggiamenti, incendi, furti e intimidazioni. Il governo decise pertanto di mostrare i muscoli e di reprimere duramente la rivolta.
Il 6 settembre 1832 il viceré istituì una speciale commissione militare che ordinò diverse decine di arresti, condannando numerose persone a morte e a lunghe pene detentive, senza un regolare processo.
Venne allora inviata una delegazione mista, costituita da militari e civili, munita di pieni poteri, che peraltro non riuscì a modificare la situazione. Fallì anche una terza commissione, presieduta da un giudice della Reale udienza che aveva a disposizione l’esercito, perché operò con parzialità, in favore dei principales.
I rappresentanti del governo furono,
accusati a voce e per iscritto di abusi ed arbitrii che avevano commessi, di non sostenere con il costume la dignità del loro carattere, di insultare la pubblica mestizia con baldorie, danze e banchetti e con altri disordini, di donare a persone indegne e turpi le cose mal tolte a famiglie perseguitate, di rovinare la fortuna dei calunniati, vendendo a vile prezzo le proprietà dei medesimi per rimunerarsi nella loro opera, di ascoltare e secondare le private passioni, di operare imprudentemente ordinando l’arresto e di condannare senza maturo giudizio.
Fu così che centinaia di contadini e pastori si diedero alla macchia, per sottrarsi agli arresti immotivati e alle condanne emesse ingiustamente e in via economica. «Il popolo, che ragiona sempre con buona logica, ne dedusse, dunque, che i demolitori [delle chiusure] non avevano fatto iniquità e però ingiustamente erano perseguitati e puniti».
Nel 1833 fu vietata, con una serie di nuove norme, la ricostruzione delle chiudende ed ordinata la distruzione di quelle abusive.
A trarne vantaggio, però, furono paradossalmente gli usurpatori delle terre comunali, delle fonti, degli abbeveratoi e delle strade, che pure non avevano dato inizio ad alcun lavoro di miglioramento agricolo.
Fu noto a tutti, a questo punto, che l’editto era diretto a distruggere la pastorizia, perché, se non ci fossero state la rivolta e la demolizione violenta delle recinzioni, i pastori non proprietari sarebbero stati estromessi dai pascoli “trasformabili”, e per sopravvivere si sarebbero dovuti ridurre a far pascolare le greggi nei terreni peggiori o piegarsi a pagare fitti esosi.
Risale proprio a questo periodo, in Sardegna, la formazione di gran parte della proprietà terriera, che è pertanto una diretta conseguenza di un processo fortemente connotato da abusi e usurpazioni.
Sostiene giustamente Ignazio Pirastu (// banditismo in Sardegna, Editori Riuniti, Roma, 1973) che la legge sulle chiudende ebbe conseguenze nefaste: da essa nacque la proprietà assenteista attuale, con essa non si realizzò il «rifiorimento della Sardegna» sognato dal Gemelli; le coltivazioni agricole non ebbero alcun rilevante incremento e le chiusure altro non ottennero che segnare i limiti di una proprietà assenteista e parassitaria nella quale i pastori continuarono ad esercitare la loro attività primitiva per di più gravata da un nuovo insostenibile onere, il canone di affitto.
L’aver concepito quella riforma come rivolta contro la pastorizia e non averla fatta precedere e accompagnare da provvedimenti idonei a trasformare e migliorare l’assetto della pastorizia, incrementando la produzione di foraggio e ammodernando l’impresa pastorale, determinò una drammatica crisi dell’allevamento, non eliminò ma accentuò la dissensione fra pastorizia e agricoltura, suscitò una violenta reazione dei pastori e di intere popolazioni e produsse una lacerazione profonda del tessuto sociale, consolidò l’impronta di arretratezza dell’economia terriera dell’Isola, rese permanenti gli squilibri e le contraddizioni che, in breve volgere di tempo dovevano fare esplodere ancora più feroce il fenomeno del banditismo quale è giunto fino a noi.
Causa di fondo di quel fallimento storico fu aver concepito la riforma senza aver tenuto alcun conto della realtà effettiva della società nelle campagne sarde, ben diversa da quella che aveva consentito lo sviluppo dell’agricoltura piemontese.
Dalle chiudende ha origine la questione della pastorizia sarda come si presenta oggi. In pianura e in bassa collina, dove era meno incerto il titolo di proprietà e dove seppur in misura esigua, erano state avviate coltivazioni agrarie, le chiusure si affermarono con un minimo di fondamento legale; in montagna e in alta collina, dove erano prevalenti l’uso comune della terra e le proprietà comunali, le chiusure vennero imposte con gli abusi e le usurpazioni, più evidenti e più gravemente condannabili socialmente e moralmente perché lo scopo degli usurpatori era chiaramente non tanto di investire per trasformare e impiantare colture, quanto di ricavare una comoda rendita dall’affitto dei terreni a quegli stessi pastori che prima delle chiudende avevano libero e quasi gratuito accesso.
Da qui le reazioni violente del 1832 e degli anni successivi nelle Barbagie e in Baronia, a difesa delle proprietà comuni; il successo della lotta in difesa delle proprietà comuni è provato dalla vasta estensione di terre comunali, oltre 350.000 ettari in tutta l’Isola, che si son conservati fino ad oggi. I paesi nei quali la lotta contro gli abusi ebbe pieno successo sono facilmente individuabili in quelli che, come Villagrande, Orgosolo, Siniscola, Orune, hanno proprietà comunali che raggiungono i 20.000 ettari.
Le disposizioni del 1833 praticamente abrogano le chiusure abusive, proibendo la ricostruzione delle recinzioni demolite nel 1832 e ordinando la demolizione di quelle erette senza autorizzazione. Queste disposizioni, pur con la ripresa delle chiusure promossa dalla carta reale del 26 febbraio 1839, salvarono e ripristinarono gran parte dei pascoli comunali.
Troppo tardi, però, i pastori si resero conto del fatto che le chiusure affermatesi in pianura avevano radicalmente modificato la loro situazione: dopo il breve uso (dal giugno al settembre) dei pascoli estivi che la loro reazione aveva conservato ai comuni, nella maggior parte dell’anno l’uso dei pascoli invernali in pianura era possibile solo con il pagamento di sempre più elevati canoni di affitto, imposti da coloro che con le chiudende erano divenuti proprietari dei pascoli che erano d’uso comune prima del 1820.
La situazione della pastorizia si aggravò così ulteriormente, dando luogo a una crisi permanente in seguito a tre fattori determinanti successivi alle chiudende: 1) l’abolizione del feudalesimo; 2) l’abolizione del diritto di ademprivio; 3) l’impianto delle industrie casearie che, incoraggiando l’incremento del numero dei capi e l’estensione dell’area pascolativa, provocò l’aumento dei canoni di fitto, un maggior peso della rendita e la concorrenza dei pastori per assicurarsi il pascolo, del cui prodotto, però, non erano più i “padroni” nella nuova economia di mercato dominata dagli industriali e dai grandi commercianti esportatori (che erano quasi sempre gli stessi industriali).
Tratto da: Sardegna Criminale di Giovanni Ricci (Newton Compton Editori s.r.l. - 2007)
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