Fernando Codonesu
Transizione ecologica
Quando parliamo di transizione ecologica, da un punto di vista ambientale si cerca di fare un ragionamento che ha come riferimento l’intera biosfera, non una singola regione o l’uscio e il giardino delle case di ciascuno di noi.
La biosfera riguarda tutto lo spazio costituito da suolo, acqua e aria dove sono presenti gli esseri viventi, tutti, nessuno escluso, con la consapevolezza che l’equilibrio tra questi è stato alterato e compromesso dagli esseri umani soprattutto negli ultimi tre secoli.
Sono questi i ragionamenti di base che hanno condotto nel quadro delle Nazioni Unite alla Convenzione di Rio de Janeiro nel giugno del 1992 e poi alla COP del 1997, quando a Kyoto ci fu il primo protocollo internazionale tra i vari paesi del mondo industrializzato. In quel consesso vennero assunti una serie di impegni (purtroppo non cogenti e senza poteri sanzionatori da parte di nessuno) volti alla riduzione dei gas ad effetto serra, responsabili del riscaldamento del pianeta. Come cronaca, voglio qui osservare che gli USA hanno firmato ma non hanno mai ratificato l’accordo, il Canada è stato il primo paese ad uscirne e chi ha avuto un ruolo fondamentale nella sua entrata in vigore è stata la Russia!
Da allora ogni anno c’è stata una COP. Qui ricordo come particolarmente importante e vicina a noi la COP 21 del 2015 svoltasi a Parigi, da cui è scaturito l’ulteriore accordo su un piano di azione per limitare il riscaldamento significativamente al di sotto dei +2°C (si voleva un +1,5°C), e ricordo anche le posizioni di Trump al riguardo assunte nel 2020, su cui invito a leggere le cronache di quel periodo.
Parlare di transizione ecologica vuol dire fare un ragiomento tecnico, scientifico, giuridico, economico e politico su base planetaria, almeno questo è il compito intanto degli Stati, degli organismi internazionali e degli ambientalisti ed ecologisti che da diverse competenze professionali si occupano di questo punto di vista globale.
Parlare di transizione ecologica significa affrontare globalmente tutti i settori produttivi in cui le società umane si sono organizzate nel tempo, a qualunque latitudine del pianeta.
Il dato di base è il riconoscimento che all’inizio della civilizzazione del pianeta vi erano circa 275 ppm (parti per milione) di CO2 nell’atmosfera, si riconosce come punto di possibile equilibrio il valore di 350 ppm, ma oggi siamo purtroppo a 420 ppm che, per alcuni ecologisti, è oramai un dato impossibile da riportare indietro.
Al riguardo, qui ricordo la proposta del Prof. Stefano Mancuso di piantare 1000 miliardi di alberi sulla terra, considerata come una risposta del tutto naturale per la cattura di una parte significativa della CO2 presente in atmosfera.
Non si dimentichi che, per il colmo e la beffa dell’ambientalismo, l’ultima COP si è svolta niente di meno che a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, 7° produttore al mondo di petrolio e gas, dove nell’ultimo giorno utile si è preso atto che l’impegno di contenere l’innalzamento della temperatura entro +1,5°C è oramai quasi impossibile da raggiungere.
Transizione energetica
La transizione energetica fa parte della transizione ecologica. Se vogliamo usare un riferimento matematico diciamo che può essere vista con un piccolo insieme contenuto nel più vasto insieme della transizione ecologica.
Siccome è un “insieme” più piccolo, si fa per dire, dovrebbe essere relativamente più semplice intervenire con programmi mirati ed organizzati territorialmente a livello comunale, provinciale, regionale e statale.
E qui entrano in gioco i piani energetici e ambientali nazionali e regionali, e a cascata quelli provinciali e comunali.
Anche la cittadinanza in questo campo può avere un ruolo molto attivo e propositivo.
Gli strumenti non mancano di certo, però le attività vanno fatte, non ci si può limitare a parlarne, o peggio al lamento continuo e a dire solo NO.
Bisognerebbe diventare parte attiva costruendo dei SI per l’uso delle energie rinnovabili, diventandone proponenti, progettisti e realizzatori!
Che fare a casa nostra
Se partiamo dai dati relativi alle emissioni di CO2 in atmosfera, la presenza delle due centrali a carbone fa della Sardegna una delle regioni più inquinanti dell’Europa. Per questo se ne prevede la chiusura nel 2025, tra un anno appena.
Come sostituire l’energia prodotta dalle due centrali a carbone che saranno dismesse tra pochi anni?
Con nuove centrali a gas, con centrali nucleari di cosiddetta IV generazione?
Preferisco di gran lunga lo sviluppo delle rinnovabili perché si tratta di tecnologie disponibili, convenienti e mature, con la popolazione sarda direttamente protagonista della transizione.
In poche parole, basta lamentarsi delle multinazionali o gruppi nazionali del settore che vorrebbero realizzare i propri impianti in Sardegna. Loro fanno i loro interessi e noi vogliamo imparare una buona volta, come popolo, a fare i nostri interessi?
E tanto più ritengo ridicolo e assurdo ritenere Alessandra Todde responsabile del famigerato decreto Draghi perché quello era un governo in cui erano presenti tutti i partiti, con l’unica esclusione dei nipoti e pronipoti del ventennio fascista, che non intendo prendere in nessuna considerazione in questo contesto.
Per l’autogoverno dell’energia
Per lo sviluppo delle rinnovabili in Sardegna e non solo
Nell’ambito della transizione ecologica una Sardegna totalmente verde è possibile.
Il Prof. Fabrizio Pilo che insegna sistemi energetici all’Università di Cagliari ed è riconosciuto come uno dei maggiori esperti in campo nazionale, in un recente convegno organizzato Cagliari dalla Scuola di cultura politica Francesco Cocco dal titolo “Sardegna, per un nuovo Statuto speciale. Idee, progetti e possibili processi di autogoverno”, ha osservato che per sostenere con produzione locale rinnovabile il pieno raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 è necessario complessivamente avere una capacità produttiva di 10 GW .
In queste condizioni il taglio nell’uso dei combustibili fossili sarebbe pari al 25% nel 2030 e al 79% al 2050 (ipotizzando uso di idrogeno ed ammoniaca) con il conseguente abbattimento delle emissioni di anidride carbonica.
Ci si riferisce all’intero bisogno energetico per una Sardegna verde, non solo albisogno di energia elettrica.
Il territorio dedicato alla produzione di energia per raggiungere questi risultati risulta pari allo 0,3%-1% della superficie della Sardegna. Una quantità non insignificante, ma che può largamente insistere su coperture esistenti, aree degradate e territori non destinati ad uso agricolo e, aggiungo convintamente, in parte dei 35.000 ettari che continuano a costituire le servitù militari presenti in Sardegna.
“La trasformazione della Sardegna in un’isola verde non richiede la cannibalizzazione del territorio che, insieme a sole e vento, costituisce una delle principali risorse economiche della regione. Al contrario una tale prospettiva di sviluppo porterebbe notevoli incrementi della forza lavoro impiegata (si pensano saldi netti di decine di migliaia di posizioni di lavoro di alta qualità come sono tipicamente i green job), migliore qualità della vita e perfino una riduzione dei costi per la spesa sanitaria (Pilo)”.
Se pensiamo ad una Sardegna “green” siamo già all’interno della vasta tematica della transizione ecologica e questo ci permetterà di mettere mano anche agli altri processi produttivi che riguardano l’industria, l’agricoltura, l’allevamento, la mobilità e i servizi di vario genere di cui disponiamo.
Se teniamo conto che di tutti gli impianti di energia rinovabile presenti nell’isola, se si eccettua l’impianto eolico di Sardaeolica (gruppo Saras) che per diversi osservatori non rientra tra le aziende sarde, non vi sono realizzazioni da parte di imprese sarde nei cosiddetti impianti di larga taglia. Bisogna prendere atto che come sardi non abbiamo fatto un utilizzo adeguato dei meccanismi di incentivazione che abbiamo avuto fino al 2013. Si trattava di incentivi molto generosi che a fronte di un costo del denaro pari al 5% gli impianti eolici e fotovoltaici costruiti garantivano un tasso di ritorno di circa il 12-15%. In termini imprenditoriali una vera e propria manna dal cielo perché l’investimento veniva ammortizzato in un massimo di 7/10 anni a seconda della tipologia di impianto!
Per questo motivo c’è stata la seconda calata dei Lanzichenecchi in Italia che ha avuto termine quando sono finiti i meccaniscmi statali di incentivazione.
Ora per la cittadinanza sarda si rischia lo stesso risultato con le comunità energetiche e gli altri impianti di autoproduzione che presentano valori analoghi in termini di costi-benefici, oltre a quelli ambientali su cui non ritorno.
Sulla Società energetica sarda
Una soluzione al problema energetico va trovata tenendo conto che non si possono proporre soluzioni di stampo “autarchico” giacché viviamo in un mercato liberalizzato.
Al riguardo, una proposta di società o agenzia elettrica sarda dovrebbe vedere la luce a seguito di una valutazione attenta delle condizioni del mercato in cui dovrebbe operare per far sì che possa avere un futuro e non si configuri come un inutile “poltronificio”.
Una società che, dal mio punto di vista, dovrà produrre energia, dare altri servizi e dispiegare tutte le attività previste dallo Statuto e dalle condizioni di mercato.
Vedo la costituzione di una società elettrica sarda, già prevista nel programma del centrosinistra guidato da Alessandra Todde, come un primo passo verso la possibilità di attuare un processo di autogoverno dell’energia nella nostra isola, purché si prendano i necessari accorgimenti e decisioni strategiche e operative.
Più efficacemente e correttamente, per come la vedo io, dovrebbe essere chiamata “Società energetica sarda”, non solo “elettrica” perché non di sola energia elettrica dovrebbe occuparsi.
Una Società energetica sarda, allora, deve essere pensata e organizzata con il concorso del pubblico e del privato, con una compagine azionaria di tipo consortile e con una forte presenza di un “azionariato popolare diffuso” a cui possano partecipare i cittadini sardi.
Per esempio, e lo dico soprattutto per esperienza personale, sarebbe auspicabile un modello di “multiutulity” perché avrebbe più possibilità di successo in quanto operativa su più segmenti di mercato come l’energia elettrica, l’acqua, il gas, il ciclo dei rifiuti e altro, alla stregua di altre società analoghe operative nel territorio nazionale (A2A, ACEA, IREN, …).
E soprattutto, ancorché non richiesto, mi permetto di dare un consiglio alla presidente Todde: che trovi in Sardegna le competenze tecnico-professionali adeguate alla realizzazione, sviluppo e gestione di tale società nell’attuale mercato dell’energia. Le garantisco che tali competenze ci sono e sono più che concorrenziali rispetto ai migliori gruppi nazionali!
L’autoproduzione vale come principio strategico rispetto ai nostri bisogni, ma non basta. Da un punto di vista produttivo e dell’attività di trading dell’energia, una società energetica come quella appena delineata non può essere finalizzata ad una visione autarchica, che sarebbe inutile e controproducente. Bisogna invece abbracciare una prospettiva di sviluppo in cui si produca energia per noi e per gli altri, fermando certamente la speculazione a fini privati, ma ponendoci contemporaneamente in una sana ottica di soddisfacimento dei nostri bisogni e vendita ed esportazione dell’energia in eccesso.
Rinnovabili e proposte in campo: sono componibili tra loro
Da un lato c’è la Giunta che è impegnata nell’individuazione delle aree idonee e che giustamente ha coinvolto tutti i Comuni della Sardegna, giacchè il governo del Territorio e l’Urbanistica sono specifiche competenze locali che meglio sono conosciute dall’istituzione più vicina alla cittadinanza. Così come ha fatto bene ad intervenire tempestivamente sul recente decreto governativo che mira a centralizzare l’estrazione delle terre rare attaccando le nostre prerogative costituzionali sulle cave e miniere.
Sulle rinnovabili ci sono poi la proposta Soru (che l’ha messa a disposizione di tutti i gruppi politici presenti in Consiglio regionale e quella portata avanti dal partito del gruppo Unione Sarda (si, è un partito politico ancorché non formalizzato e come tale va considerato), nata come legge di iniziativa popolare, che vede anche la convergenza di tanti comitati del NO.
Ho letto attentamente le due proposte. Ritengo quella di Soru ben scritta da un punto di vista giuridico. Ma solo la giurisprudenza non basta perché anche in quel testo non si è tenuto conto che proprio sull’energia alcune delle competenze specifiche di tipo primario previste nello statuto di autonomia speciale sono state superate già a partire dalla legge n. 10 del 1991 relativo all’implementazione del piano energetico nazionale e successive nuove norme di stampo comutario e nazionale.
In effetti, da quell’anno diverse competenze sono state riassorbite dallo Stato nel silenzio e nell’assenza della nostra Regione.
D’altro canto, la proposta del nuovo partito politico di fatto rappresentato dall’imprenditore-editore Sergio Zuncheddu e dal suo giornalista di punta Mauro Pili presenta diversi lati deboli, ma ha il pregio di porre con forza la necessità dello svilupo delle comunità energetiche rinnovabili. L’aspetto positivo è che dà forza alla contestazione e ribellione che viene espressa con forza dai Comitati, però nel contempo il quotidiano cagliaritano si presenta di fatto come “capo popolo” dei tanti comitati, fagocitandone le aspirazioni e facendoli alla fine apparire come contrari alle energie rinnovabili in assoluto. Questo non va bene e va stigmatizzato con forza.
Comunque, da un lato si dice che no, non si è contrari all’energia rinnovabile, ma che lo si voglia o no, per come viene condotta la campagna dell’Unione Sarda quel che è evidente è che si tratta di un’opposizione di fatto alle rinnovabili e a questo punto il gasdotto che dovrebbe attraversare la Sardegna si avvicina velocemente e magari anche le nuove centrali che andranno a sostituire le centrali a carbone: si vuole il gas o il “nuovo” nucleare?
E una proposta di legge, ancorchè ben scritta come testo (vale per entrambe), non può essere legata alla competenza esclusiva della Regione sull’Urbanistica perché dal mio punto di vista questo è un elemento di debolezza strutturale. Infatti, si dimentica che la ricentralizzazione delle competenze da parte dello Stato in questi ultimi 30 anni ha visto la compressione del diritto regionale, sia delle regioni a statuto ordinario che di quelle a statuto speciale come la nostra, a vantaggio dello Stato.
Vantaggio sempre ribadito dalla Corte costituzionale che nelle varie impugnazioni di leggi regionali da parte dei governi che si sono succeduti nel tempo ha sempre declinato e interpretato il principio di “leale collaborazione” con il principio di fatto della “Supremazia dello Stato”, contraddicendo anche quella parte della Costituzione ispirata alla piena realizzazione e sviluppo delle comunità locali.
Insomma, il tema è veramente complesso e risulta ora più che mai necessaria l’unità di tutti per vincere questa battaglia se non si vuole compromettere lo sviluppo e il futuro della Sardegna: Presidenza e Giunta regionale, forze politiche, sindacati, società civile, corpi intermedi e comitati territoriali.
1 commento
1 Aladin
5 Settembre 2024 - 18:43
Anche su aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it/?p=157103
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