L’avanzata delle destre in terra francese sgomenta, ovviamente, ma l’affermazione dell’Afd in Germania manda in frantumi la nostra certezza che fosse sufficiente non far “mai passare il passato” per non ripeterne gli orrori. Così, rassicurati dagli anticorpi diffusi dalla cultura e dagli storici più che dalla politica, abbiamo creduto che certe pulsioni fossero residui senza avvenire e “non le abbiamo viste arrivare”
Siamo rimasti sbigottiti. I risultati delle ultime elezioni europee sono stati quelli che proprio non volevamo. Per chi sa di storia il dato che ha fatto più male è stato quello relativo alla Germania. Sì, anche la Francia ci ha impressionato. La tumultuosa avanzata del partito lepenista ha intaccato un altro caposaldo dell’Europa democratica. Pure, un po’ perché era atteso, un po’ perché la notizia è stata subito superata da quella dello scioglimento del Parlamento e delle nuove elezioni indette da Macron, l’effetto choc è stato minore rispetto a quello che ci ha turbato leggendo le cifre elettorali tedesche. Un verdetto impietoso: l’Afd, un partito razzista e xenofobo, segnalatosi in passato per aver corteggiato le velleità neonaziste della destra estrema, con il 15,9% ha superato l’Spd, il partito del cancelliere Olaf Scholz (13,9%), ed è seconda solo alla Cdu (circa il 30%), saldamente ancorata al centro del sistema politico. Il leader dell’ultradestra Tino Chrupalla, nelle sue dichiarazioni ha usato toni trionfalistici: “Il gioco è finito e abbiamo un super risultato, un risultato da record. Abbiamo quasi un 50% di nuovi elettori in Europa”. Il suo successo non era atteso, almeno non in queste proporzioni.E il fatto che le maggiori percentuali elettorali dell’Afd si registrino nei territori dell’ex Germania comunista manda in sollucchero chi si compiace delle analogie tra nazismo e comunismo ma di per sé non basta a spiegare lo sbigottimento soprattutto di noi storici di fronte a un fatto incontrovertibile: l’Afd si è affermata nel cuore della Germania, la locomotiva economica della democrazia europea; non si tratta dell’Ungheria di Orban o della Slovacchia di Fico, ma proprio della Germania, una roccaforte della democrazia, uno dei Paesi fondatori di un’unità europea che aveva come riferimento ideale il grido “mai più il fascismo, mai più il nazismo!”. Quella che è andata in frantumi è stata la nostra certezza che bastasse non far “mai passare il passato” di Auschwitz e della Shoah per garantire l’efficacia degli anticorpi in grado di impedire al presente di ricadere negli orrori del passato. C’eravamo illusi che il dibattito storiografico, con la ponderatezza delle sue ricerche e il peso delle sue prove, avesse permesso alla Germania di fare i conti con il nazismo così da rendere irreversibile quel “mai più”, provando, come italiani, un misto di invidia e frustrazione per la nostra incapacità di fare i conti compiutamente con il nostro passato fascista. E invece oggi scopriamo che quegli anticorpi si sono spaventosamente indeboliti e siamo obbligati a chiederci il perché.In Germania fu la generazione del ’68 a chiedere a quella che l’aveva preceduta di far luce sulle proprie responsabilità per aver collaborato con il nazismo. Fu una resa dei conti anche impietosa e i padri furono costretti a riconoscere le proprie colpe di fronte alle dure accuse dei figli. L’esito di quello scontro generazionale a noi parve definitivo; ma non era così. Con la morte degli ultimi testimoni e protagonisti di quel passato la memoria degli eventi si è affievolita e i nipoti e le generazioni successive hanno perso man mano interesse per quelle lontane vicende, fino nutrire un certo fastidio per una memoria che si faceva sempre più monumentale, ossificata, prigioniera di schemi celebrativi, così da suscitare più fastidio che emozione, da sollecitare più l’oblio che il ricordo. Un primo, vistoso campanello di allarme suonò nel 1986.Fu uno storico del calibro di Ernst Nolte a prendere posizione dando vita all’Historikerstreit (la disputa tra storici): il passato, tutto il passato anche quello del nazismo e della Shoah, doveva finalmente passare per permettere alla Germania di affrancarsi da ogni senso di colpa, confinando lo sterminio degli ebrei in un passato da analizzare, da studiare, ma senza più essere di impaccio nell’orientare le scelte del presente. Nolte, sostenuto da Hillgruber e Sturmer, invitava a guardare anche agli orrori perpetrati da Stalin e o da Pol Pot e facendo così di fatto sdoganava anche il negazionismo.Gli risposero con grande efficacia Jurgen Habermas e gli altri (Jürgen Kocka, Martin Broszat, Hans Mommsen), sommergendolo sotto una valanga di argomentazioni ineccepibili il cui succo era che “quel passato non doveva passare”. E noi ci accontentammo di una vittoria che ci parve definitiva, rassicurati dagli anticorpi diffusi dalla cultura e dagli storici più che dalla politica. Eravamo in buona compagnia nel prendere questi abbagli. Si diffuse allora, con la nostra totale inconsapevolezza, la sensazione che la storia fosse finita, che il binomio capitalismo/democrazia avesse ormai vinto la partita lasciandosi alle spalle le guerre, il totalitarismo, l’incubo atomico, il bipolarismo che aveva retto il sistema politico internazionale del secondo dopoguerra.
E fu proprio nel 1992, a ridosso del 1989 e della caduta del muro di Berlino, che Francis Fukuyama decretò la fine della storia. Sbagliando clamorosamente. E noi con lui. Sta di fatto che ci fermammo, che ci cullammo nella certezza della solidità degli anticorpi che l’Historikerstreit aveva seminato, inconsapevolmente sedotti da quella prospettiva di pace universale intravista da Fukuyama. Cominciammo a guardare alle destre come residui di un passato senza avvenire, e sorretti da queste sicurezze “non le vedemmo arrivare”. Oggi quell’illusione è andata in frantumi e i risultati elettorali delle europee, quello dell’Afd in particolare, ci hanno brutalmente risospinti nella storia.
Giovanni De Luna
1 commento
1 Aladin
5 Luglio 2024 - 10:11
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