Carbonia. Si razionalizza per creare apparati produttivi di livello tecnicamente più avanzato. Fernando Santi leader Cgil: la classe lavoratrice ha la sensazione, sotto il paterno governo democristiano, di essere oggetto di una violenta aggressione nella fabbrica e fuori dalla fabbrica. Parlano gli storici.

19 Maggio 2024
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Gianna Lai

Come ogni domenica ecco un post sulla storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.

 

E poi le condizioni materiali di vita. La condizione di vita degli operai sulcitani e sardi è tale da far precipitare intere famiglie, basta poco, nella vera indigenza. Dice Sergio Turone che allora “ la condizione dei ceti operai in Italia era una condizione di miseria”, ancora gravi i disagi per “l’insufficienza di locali di abitazione”, dato che “il guadagno mensile dell’operaio… veniva indicato, nel 1951 dal ministro del lavoro, in 26.790 lire, mentre il costo della vita per la famiglia-tipo oscillava sulle 50.000 lire al mese”. Ed era altrettanto tragica la precarietà del lavoro, che “trovava alimento nell’esistenza di percentuali costantemente elevate di disoccupati”, una disoccupazione strutturale dicono gli storici, pur se, come sostiene Carlo Pinzani, il collegamento creato dal sindacato tra lavoratori occupati e disoccupati avrebbe impedito l’uso di questi ultimi “come forza manovrabile politicamente contro gli operai occupati”. Del resto, e torniamo a Sergio Turone, primi fra tutti i lavoratori a risentire, “spesso in modo diretto, anche dell’involuzione politica di segno conservatore, sviluppatasi con intensità crescente tra le elezioni del ‘48 e quelle del 1953” 219. Gli anni “della sistematica e palese collaborazione fra le autorità di PS e gli ambienti imprenditoriali, ai fini di un controllo sull’orientamento politico dei lavoratori”: così parlava allora degli imprenditori il leader socialista della Cgil Fernando Santi, nella citazione ancora di Carlo Pinzani; “sono partiti… all’attacco delle posizioni conquistate dalla classe operaia, sì che la classe lavoratrice ha la sensazione, sotto il paterno governo democristiano, di essere oggetto di una violenta aggressione nella fabbrica e fuori dalla fabbrica. Nell’interno dell’azienda, in primo luogo attraverso la politica dei licenziamenti che in un Paese di disoccupazione permanente come il nostro diviene, nelle mani di una minoranza che non ha preoccupazione del pane, un’arma immorale di pressione volta a fini economici e a fini politici… Vi è infine, nell’interno delle aziende, la lotta degli industriali per decapitare la rappresentanza operaia, la lotta contro le Commissioni interne e contro i Consigli di gestione; vi è la caccia agli elementi più attivi nella difesa degli interessi dei lavoratori, l’attacco sistematico alle loro organizzazioni, la campagna contro i contributi previdenziali,… l’evasione costante di questi contributi, l’intervento dello Stato nei conflitti di lavoro”.

Indebolito il movimento dopo la rottura dell’unità sindacale, ricorda ancora Turone la nascita della Lcgil, “promossa dalle Acli, a impronta prevalentemente cattolico-confessionale”, che due anni dopo avrebbe dato origine alla Cisl, cui seguì la nascita della Uil nel 1950. E infine, “sempre nel 1950,.. diretta erede del pseudosindacalismo fascista, la Cisnal,… messa in piedi dai medesimi ambienti d’estrema destra che, negli anni precedenti,… avevano dato origine al Msi”. Dice Foa nella Storia d’Italia, Einaudi, “le scissioni sindacali del ‘48 ‘49 furono senza dubbio figlie della guerra fredda e quindi portate dall’esterno dentro il movimento sindacale: pesantissima e diretta fu l’influenza americana e con essa quella della chiesa romana e dei partiti americani nel Paese”. Massima espressione della rappresentanza resta sempre, naturalmente, la Cgil, “confederazione di matrice marxista, prosegue Turone, portata a politicizzare i problemi rivendicativi e a generalizzare la lotta”. A partire dalle “agitazioni intese a mobilitare i lavoratori contro l’allineamento dell’Italia alle posizioni americane”. Perché, ricorda ancora Carlo Pinzani, “la Cgil e i partiti della sinistra cercarono di unificare le grandi capacità di lotta rivelate dalla classe operaia attorno alle indicazioni generali, per contraporre alla linea del governo un’alternativa”. In particolare quando, negli ultimi mesi del 1950, “all’annuncio di Di Vittorio di un rilancio delle agitazioni sindacali per l’autunno, il governo rispondeva esprimendo il proposito di dare attuazione costituzionale alla regolamentazione del diritto di sciopero”. Radicalizzando di nuovo il contrasto con il movimento operaio, “nel brusco riaccendersi della tensione internazionale, in seguito alla guerra di Corea”.

Così la sintesi di Aris Accornero nel suo Gli anni ‘50 in fabbrica: “Gli anni cinquanta iniziano con l’eccidio di Modena, il primo in cui la forza pubblica prende a bersaglio gli operai, e con i provvedimenti adottati dal governo De Gasperi - Scelba, prima contro i comizi in fabbrica e poi contro le occupazioni di stabilimenti”. Vengono insieme i licenziamenti di massa: “L’attacco all’occupazione prende di mira le aziende che sono nerbo e vanto di intere città, si sviluppano quindi lotte epiche con officine presidiate e popolazioni solidali in cui viene in primo piano una socialità della fabbrica… Parallelamente sale una centralità produttiva della fabbrica con le conferenze di produzione lanciate a corollario e concretamento del Piano di Lavoro. E si sviluppa nello stesso tempo una centralità politica delle fabbriche cittadelle di democrazia, con i numerosi scioperi contro gli eccidi polizieschi, le misure liberticide, la politica atlantica di riarmo”. Mentre “il grande padronato, impegnato a imporre le forme più spinte dell’aziendalismo, cerca di isolare e liquidare nella fabbrica l’organizzazione operaia”.

Così, a chiudere, ancora Foa nei suoi scritti appena citati: gli inizi degli anni Cinquanta son segnati da battaglie “estremamente intense, per obiettivi di lotta positivi e concreti nelle fabbriche colpite dai licenziamenti”. Dove si combatte in particolare “contro lo sfruttamento intensivo nei luoghi di lavoro”, cioè “accelerazione dei ritmi,… prolungamento arbitrario dell’orario,… abuso delle lavorazioni nocive, attribuzione ai lavoratori di qualifiche più basse del dovuto.” Nelle smobilitazioni industriali, prosegue l’autore, “il movimento operaio credette allora di vedere… il segno della volontà di distruzione della capacità produttiva, anziché quello che esse erano, cioé dei momenti di riorganizzazione e ristrutturazione per portare tutto l’apparato produttivo a un livello tecnicamente più avanzato. In generale e non solo per le questioni industriali, il movimento operaio sottovalutò allora le capacità di ripresa e di sviluppo del capitalismo, col risultato di non dedicare sufficiente attenzione ai nuovi metodi di organizzazione del lavoro e ai nuovi rapporti di mercato.

In effetti la forte spinta operaia e contadina contribuì al successo, nel fronte capitalistico italiano, della parte più moderna e dinamica e accelerò i processi di razionalizzazione, ma al tempo stesso creò, col rafforzamento del capitale, le condizioni per una più grave sconfitta della classe operaia, perché non vi poteva essere sviluppo parallelo del capitale e della democrazia”.

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