Andrea Pubusa
Negli ultimi tre lunedì abbiamo affrontato con Umberto Allegretti le più rilevanti questioni relative alla nostra Costituzione: la sua attitudine a risolvere i nodi storici dell’Italia, la sua forza propulsiva per lo sviluppo democratico del Paese e la sua capacità di resistenza verso le spinte eversive dall’alto soprattutto ad opera dei governi di centrodestra, capeggiati da Berlusconi. Tant’è che il cavaliere ha, al momento abbandonato la strada della modificazione formale, battuta dagli elettori già col referendum del giugno 2006, e punta ad una sovversione surrettizia attraverso le legislazione ordinaria, come è avvenuto anche col testo legislativo sulla sicurezza. Qui gli organi di garanzia, la Corte costituzionale e la Presidenza della Repubblica, finora hanno costituito un argine alle iniziative del centrodestra, ma si intravedono per il futuro sccenari non entusiasmanti. Napolitano, che non è mai stato un cuor di leone, da segni di cedimento, come nella vicenda dei giorni scorsi, in cui non basta porre dubbi e sollevare problemi, occorre non promulgare. Le ronde sono incompatibili con lo spirito e la lettera della Carta, così come la disciplina sui migranti. Esistono vari articoli che vietano la creazione di formazioni sociali armate o potenzialmente destinate a sostituirsi agli organi statali nell’uso della forza e della coazione, così come il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo impediscono di mettere su un impianto normativo ordinario ch non sia fondato sulla centralità della persona, coi suoi naturali diritti. La Corte costituzionale finora ha annullato molte delle leggi berlusconiane perché ancora composta da esponenti della cultura giuridica progressista e fedele al dettato costituzionale. Ma se il ciclo berlusconiano durerà anche la composizione della Corte muterà, e se anche all’interno di essa prevarranno gli umori acostituzionali, peri il Paese i pericoli di un’involuzione democratiza saranno gravi. Le democrazie son morte quando gli organi di garanzia sono rimasti inerti o hanno tradito la loro funzione.
Ma, al di là di questo, assume particolare rilievo stabilire se la Carta fondamentale ha la capacità di guidarci nel futuro, e cioè di risolvere i problemi della società attuale in un quadro di salvaguardia e di sviluppo della democrazia. E’ un quesito ineludibile per stabilire il centro dell’impegno delle forze democratiche. Ecco perché all’argomento dedichiamo questo colloquio finale con Umberto Allegretti. .
D. Il discorso non può fermarsi al passato. Occorre vedere se la Costituzione ha l’attitudine ad affrontare il futuro. Ma qui viene in considerazione un orizzonte più vasto. La prospettiva presenta connotati di una novità inconsueta. Dunque qui si annidano le maggiori incertezze. E’ così?
R. Più che mai l’ammasso di questioni che incombono non è solo di natura giuridica e strettamente politica, ma cambia i lineamenti della vita, dell’uomo e del mondo e investe con violenza la filosofia dell’uomo e della società, chiamando in causa la capacità di dibattito della cultura e dell’opinione pubblica.
D. Siamo ad un passaggio cruciale della storia…
R. La radicalità dei problemi è tale che più d’una mente pensante – vogliamo citare, ma l’elenco non è certo esclusivo, né potrebbe essere solo italiano, Emanuele Severino, Umberto Galimberti e Pietro Barcellona – concepisce la situazione in cui l’umanità si trova oggi nei termini di un grave dramma conoscitivo e pratico.
D. Con quali effetti sul piano istituzionale?
R. Le ricadute giuridiche, e di livello direttamente costituzionale, di questo dramma sono profonde, e solo la volontà di specialisti usi a chiudersi dentro la cittadella della loro tecnica impedisce di farne oggetto di diretta discussione.
D. C’è anche il fatto che si tratta di un dibattito complesso…
R. Prendere posizione in questo dibattito, e mirare a vederne la proiezione in termini di costituzione, non è certo facile, dato il carattere smisurato dei problemi che esso coinvolge; d’altronde, ogni tentativo di decifrazione del futuro si espone a ragionamenti “fallibili” sebbene “affidabili”.
D. Ma quali sono le questioni principali?
R. La prima questione solleva il dubbio se la nostra Costituzione sia in grado di aiutarci ad affrontare gli sconvolgenti sfondamenti delle antiche frontiere dell’esperienza umana dovuti al dominio della tecnica, che si dispiega soprattutto nel potere assunto su tutte le manifestazioni vitali dalle tecnologie informatiche e telematiche, creatrici di una realtà “virtuale” che diventa preminente su quella materiale e corporea, e nelle biotecnologie agenti sulla natura vegetale, animale e sulle varie dimensioni della vita dell’uomo – nascita, riproduzione, salute, morte, relazioni con l’altro -, che danno luogo a un mondo avvertibile come “post-umano”.
D. Anche perché lo sviluppo della ricerca è incessante e con risultati continui e sorprendenti…
R. Lo sviluppo della tecnica non accenna ad arrestarsi ed è proiettabile verso risultati ancora impensabili ma annunciati, tali da modellare sempre più un mondo diverso da ogni altro prima sperimentato, secondo nuove modalità di tempo e di spazio.
D. Questo è certamente un orizzonte estraneo al costituzionalismo moderno…
R. Sicuramente. Il costituzionalismo che abbiamo conosciuto, anche quando predicava il più rigoroso positivismo giuridico, si è in realtà affidato alla “natura”, pretendendo di tradurre in normatività positiva quanto era stato dedotto e continuava a concepirsi come espressione di una natura dell’uomo e del mondo pensata come data.
D. Ed oggi?
R. Oggi la natura sembra scomparsa, essendo diventata apparentemente tutta disponibile e illimitatamente modificabile.
D. C’è poi la mondializzazione e il multiculturalismo…
R. Sì, la globalizzazione attiva rapporti tra società e culture rimaste a lungo separate, con l’effetto di mescolarle ma a volta a volta di rendere le loro relazioni ispirate a“prossimità” o di erigere divisioni e steccati, in ogni caso obbligandole a “vedersi”, a sentire le loro proprietà e le loro comunanze ponendo, con mille varianti, l’alternativa a una pura “multiculturalità” separata o a una “interculturalità” comunicante, ma non potendo più disconoscere l’esistenza di una fitta rete di contatti.
D. In passato, da questo punto di vista le cose erano più semplici…
R, Gli ordinamenti da noi finora conosciuti erano invece sostanzialmente “monoculturali”, e supponevano un contesto geografico e culturale “occidentale. Il fattore religioso acuisce la delicatezza del passaggio.
D. L’aspirazione all’eguaglianza e la pretesa di tutela delle differenze sembrano entrare in contraddizione, come ha scritto un raffinato giurista come Bruno Troisi l’altro giorno in questo sito…
R. Certo, dai fattori precedenti nasce la questione della “differenza” e del suo rispetto, come problema apparentemente contrapposto a quello tradizionale dell’uguaglianza. Ma in realtà la volontà di salvare le differenze coesiste col bisogno di uguaglianza, che continua a rispondere a un’antica aspirazione e quella che corrisponde al nuovo bisogno è la differenza entro una fondamentale uguaglianza.
D. Certo, ma questa prospettiva è largamente disattesa. Sembrano prevalere umori di segno opposto…
R. Sì, sorge la tentazione di sacrificare l’uguaglianza alla differenza, rilegittimando anche le disparità economiche e ponendo un problema sia ai rapporti tra le singole società che si confrontano nell’arena mondiale, che interno a ciascuna di esse. Un elemento tradizionale del moderno costituzionalismo quale il principio di uguaglianza è dunque sottoposto a una tensione che lo mette in dubbio, andando al di là degli sviluppi che esso aveva già conosciuto con l’ampliamento dalla sfera formale alla dimensione sostanziale.
D. Le differenze economiche, culturali e di potere ripropongono crudamente il problema della guerra, la quale d’altronde ha disposizione le potenzialità enormi delle nuove tecnologie…
R. La guerra si ripresenta più endemica che mai e si rivelano impari gli strumenti che etica e diritto erano venuti accumulando a sostegno della creazione di condizioni di pace.
D. Manca un governo globale, non ti pare? Gli stati sembrano obsoleti. O no?
R. Di fronte alle nuove frontiere, il sistema di potere atto a governarle non può restare quello concentrato sullo stato, sulla sua tendenziale esclusività, sulle sue relazioni sovrane con gli altri stati. Non era forse lo stato la creazione tipica delle condizioni del mondo precedente?
D. C’è poi da chiedersi in questo quadro quale sorte avranno le autonomie locali, cavallo di battaglia dei democratici contro le tendenze accentratrici…
R. Certamente, può mancare nelle nuove condizioni la generalizzazione di quei livelli di decentramento interno e di delocalizzazione esterna che si era venuta annunciando nel pluralismo territoriale e nell’apertura internazionale già entrati nel costituzionalismo recente…
D. E lo stato?
R. Inevitabilmente lo stato tende a cedere il passo, pur senza scomparire, a un’organizzazione multilivello che lo ridimensiona fortemente.
D. Di fronte all’insorgenza di tutto questo sono le riforme della Costituzione limitabili a una semplice sua “manutenzione”, a revisioni puntuali di questo o quell’istituto, senza toccarne l’impianto generale e i principi fondamentali?
R. La risposta a interrogativi di questo peso non è facile, e tuttavia la risoluzione di essi nell’affermazione della radicale inadattabilità delle costituzioni dell’epoca contemporanea alle nuove questioni, con la conseguenza della dichiarazione della loro caducità e l’immaginazione di un quadro totalmente diverso (quale, poi?) sembrano cose troppo avventate per essere accolte.
D. I caratteri del nuovo mondo che va profilandosi sono incompatibili o presentano importanti comunanze e continuità col passato?
R. Per rispondere, vale la pena di riepilogare meglio che con pochi accenni. Ruolo della tecnica, mondi virtuali, tentativi, se non realizzazioni, di dominio dei problemi della vita mediante tecnologie anche invasive sono sempre esistiti, se è vero che l’uomo si rivela come tale anche in quanto capace di sviluppare tecniche che padroneggiano aspetti della natura. L’invenzione della scrittura, ad esempio, è stata avvertita come un’importante modificazione dell’espressività dell’uomo e delle relazioni tra gli uomini. Le modificazioni delle piante e degli animali sono coeve allo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento. Il modellamento tecnico del corpo e della psiche umana è un’antica esperienza e la creazione, addirittura, dell’uomo da parte dell’uomo è stata un’aspirazione risalente molto al di là dell’immaginazione dell’opera faustiana da parte di Goethe.
D. Se per questo, le relazioni fra i popoli son vecchie quanto il mondo…
R. Certo, certo. Contatti tra civiltà e culture diverse e in potenziale contrasto tra loro sono noti, per stare alla storia che maggiormente conosciamo, da quando i Fenici hanno navigato su tutto il Mediterraneo, i Germani si sono affacciati sul mondo romano, Marco Polo ha dialogato col Gran Khan non solo nella fantasia di Italo Calvino. La differenza è stata addirittura alla base della struttura degli ordinamenti medievali e la sua persistenza lungo la storia dell’uguaglianza è scomparsa solo nella semplificazione della teoria. La guerra, malgrado la continua, quasi unanime, aspirazione alla pace, è sempre rimasta radicata nel mondo. Strumenti di potere extrastatuale, sottostatuale, soprastatuale sono sempre esistiti e sono venuti crescendo da tempo.
D. Ma ci sono state anche le rotture…
R. Beh, sì. Nella storia di lungo periodo dell’umanità si sono date non di rado rotture dolorose, ma in definitiva, magari dopo un momento di collasso, robuste continuità con il passato sono state ritrovate o si sono inconsapevolmente e quasi deterministicamente imposte a gettare un ponte tra nuovo e vecchio mondo, nuovi e vecchi assetti vitali. Come ritiene la scienza contemporanea, anche la scomparsa dei dinosauri non ha determinato la fine della vita animale, ma questa è stata salvata da esseri più deboli.
D. La continuità si può intravedere anche nei fatti di più radicale rottura della storia…
R. Quando si è cercato di prescindere dall’equilibrio con la vita precedente, come è avvenuto nella storia delle rivoluzioni moderne (la francese, la sovietica), a parte il costo in termini di nude vite umane, il legame di continuità tra passato e futuro, tra mutamento ed eredità ha finito con l’emergere. La violenza stessa, che è certo drammatica rottura e appare la massima forza di discontinuità, finisce addirittura, come ha segnalato Paulo Freire, col riprodurre le forme di oppressione preesistenti.
D. Capisco. E dunque quale continuità di fondo vedi nella realtà odierna?
R. Principi solidamente accreditati come quelli del costituzionalismo contemporaneo, a sua volta in continuità con il costituzionalismo moderno delle origini, sembrano essere fondamentalmente in grado di veicolare le nuove relazioni di cui va intessendosi la storia dell’uomo. Un ricalibramento di esso può essere ritenuto più o meno necessario, ma il suo impianto è suscettibile quanto meno di una verifica attenta piuttosto che di un rischioso abbandono.
D. Il rapporto di complementarità, la ricerca di armonia tra individualismo e legame sociale è capace di sviluppo anche nella situazione inedita in cui ci troviamo?
R. Direi di sì. In essa possono trovare cittadinanza i più elementari tra i diritti, la cui evidenza costituzionale deve esser massima di fronte alle nuove sfide, e non solo (benché più acutamente) nel Sud del mondo: basta pensare al diritto all’acqua, o a quello all’alimentazione, che vanno presentandosi come diritti problematici; da ciò la loro previsione già nelle carte internazionali. Lo stesso può esser detto per i diritti che si pongono di fronte alle tecniche incidenti direttamente sulla vita, come mostrano i primi tentativi di approccio, anche qui maggiormente nelle carte internazionali. Nuove libertà sono assentibili e già vanno imponendosi.
D. Del resto le Costituzioni contengono un catalogo aperto dei diritti…
R. Il principio personalista codificato da noi nell’art. 2 della Costituzione, un testo già ritenuto dall’opinione migliore fondamento di estensioni interpretative e applicative non puntualmente espresse, appare all’altezza delle nuove sfide.
D. E il difficile rapporto eguaglianza/diversità?
R. Il rispetto delle culture diverse da quella finora egemone e l’accoglimento delle diversità sono leggibili nel principio di uguaglianza con le determinazioni che trova nell’art. 3 e alla luce del rispetto della dignità umana.
D. Sono d‘accordo. Ma la delicatissima questione del mescolarsi di comunità con religioni diverse può trovare soluzione nella nostra Carta?
R. Il sistema degli articoli sui rapporti religiosi consente il pieno ingresso del rispetto positivo delle religioni diverse dalla cristiana.
D. Non mi sembra facile, siamo in presenza di tanti integralismi…
R. E’ possibile, a patto che si superi lo scontro tra gli opposti fondamentalismi, tentazione attuale delle confessioni religiose e perfino di una parte del pensiero laico, e si accetti il principio del “mutuo apprendimento” evocato da J. Habermas,
D. Un altro tema difficile è quello della guerra…
R. La pace può essere perseguita rimovendo le contraddizioni e proseguendo lo sviluppo delle istituzioni che il mondo si è dato dall’indomani della seconda guerra mondiale, in particolare con l‘ONU.
D. Stiamo dimenticando le questioni della forma di governo…
R. Sul piano dell’organizzazione del potere, la forma di governo parlamentare ha già mostrato la sua plasticità e non vi sono ragioni perché un equilibrato rapporto tra governo e parlamento, tra efficienza e garanzia, non sappia confrontarsi coi nuovi problemi.
D. E’ in crisi anche il rapporto fra giudiziario e governo e più in generale con la politica…
R. L’indipendenza del giudiziario – di tutti i giudici – e l’autonomia (relativa) dell’amministrazione dal governo e dalla politica sono idonee a fornire la garanzia più appropriata dell’interpretazione e applicazione imparziale delle leggi.
D. E sulle nuove forme partecipative? Tu che ne sei un autorevole studioso, cosa ci dici?
R. A complemento delle forme tradizionali, si potrebbe puntare sulle novità di modalità minori ma diffuse di democrazia, riposte in esperienze ricche di speranza che provengono da altri continenti, come le pratiche di “democrazia partecipativa” sviluppatesi in America Latina, che già sono sbarcate in Europa attraverso una sorta di “ritorno delle caravelle. Forse esse sono in grado di salvarci dalle forme più eccessive di “modernità liquida”, da quella pericolosa miscela di “caso e necessità” che ha fatto irruzione nel nostro tempo, e possono portare avanti quel pluralismo nell’esercizio del potere che solo può democratizzare la democrazia.
D. Ma tutto questo non richiede rotture?
R. Queste nuove applicazioni della democrazia non necessitano di alcuna sovversione del testo costituzionale. Si tratta di applicare i principi esistenti a nuove condizioni, oppure di dedurre nuovi strumenti dagli stessi principi. L’elasticità della Costituzione è garanzia di questa possibilità. Se di fronte alla novità di certe situazioni o semplicemente alla forza con cui si presentano alcune posizioni di obiettori si voglia guadagnare maggiore certezza o un rafforzamento della sua operatività, la possibilità di revisione costituzionale e, una volta essa praticata, la garanzia che si otterrebbe dalla rigidità delle nuove disposizioni consentono di raggiungere più sicuramente il risultato.
D. Il quadro che delinei mi sembra ottimistico. Non c‘è il rischio di indulgere in qualche modo ad una nuova forma di determinismo?
R. Certo. Tutte queste speranze di progresso non sono affidate a una mera base oggettiva ma richiedono un’adesione e un impegno soggettivi. E’ per questo che bisogna fare appello al patriottismo della Costituzione. Esso non risponde solo a un’etica predicata da alcuni pensatori, ma è profilato con chiarezza nell’art. 54 della Costituzione e in principi analoghi delle altre costituzioni. La fedeltà costituzionale e l’osservanza della legge sono richieste a tutti i “titolari di funzioni pubbliche” – dunque, in modo particolare agli uomini di governo e ai politici in genere - che devono praticarle “con disciplina e onore”.
D. E noi comuni cittadini?
R. L’osservanza delle leggi e il patriottismo costituzionale riguardano anche “tutti i cittadini”, che hanno anch’essi molteplici possibilità di attenervisi o di trasgredirle e dai quali quindi sono ugualmente attese.
D. Ma è un rimedio all’altezza della crisi?
R. Sono la medicina migliore, per quanto può il diritto, della vita sociale. E’ forse questo patriottismo – anche e particolarmente da esigere da quei pretesi maestri di scienza e di vita che sono i cultori di ricerca universitaria - a rappresentare l’ancora di salvezza di una repubblica in maniera più elevata di altre esposta alla tentazione di buttar via un passato valido di fronte a un futuro più che mai incerto.
Il colloquio può fermarsi qui. Grazie Umberto per la tua disponibilità. Ci hai ancora una volta dato una bella lezione di democrazia e ci hai confortato nell’idea che battersi per la difesa della Costituzione fa tutt’uno con la lotta per dare risposte alle sfide che il futuro ci pone. Insomma, occorre un impegno di difesa attiva della Costituzione per salvaguardarla e adeguarla insieme alle nuove esigenze. Non è facile, ma ci proveremo. Cercheremo di dare anche noi il nostro piccolo contributo nella convinzione che tutti insieme possiamo farcela.
3 commenti
1 Piero Atzori
21 Luglio 2009 - 08:58
La questione mi pare sia se la Carta Costituzionale italiana sia in grado di condurre alla liberazione dei sardi dai loro complessi d’inferirità e sudditanza mentale acquisiti negli ultimi secoli.
Il dato degli oltre sessant’anni passati sta lì ad indicare che la Carta rappresenta semmai un ostacolo a detta liberazione. Non la si spacci per favore come il Vangelo. E’ solo un laccio che impedisce ai sardi di ruotare di 360° il loro sguardo. Un paraocchi per un cavallo come quello descritto da Orwell nella fattoria degli animali, intrisa com’è di togliattismo, versione italica dello stalinismo. Dalla Sardegna si può guardare solo a Roma, o tutt’al più a Milano. Il “gatto” di Lussu si è dimostrato persino rognoso. Non voglio dissacrare il sangue versato dai miei conterranei per un Italia che vedesse la Sardegna progredire e che invece la vede in condizioni più che critiche. Queste parole le scrivo da Parigi. Parigi, Madrid, Barcellona, Berlino, Londra distano dalla Sardegna quanto Roma e Milano grazie a Ryanair non alla vecchia Carta.
2 Cristian Ribichesu
21 Luglio 2009 - 09:03
da Separati in Patria
di Giovanni Floris, Rizzoli, 2009
La Costituzione delle Italie
“Tra i simboli che ancora reggono, c’è, nonostante le frequenti spallate che è costretta a subire, la Costituzione italiana. Ogni volta che se ne parla sembra di dover rendere omaggio a qualcosa di intangibile e sacro, un reperto millenario cui si deve portare il rispetto dovuto agli anziani. Non è così: la forza della Costituzione italiana non è (o almeno non è solo) nella sua tradizione, ma anche, e forse soprattutto, nella sua fresca modernità. “Allla fine della Seconda guerra mondiale” racconta Carla Bassu, giovane costituzionalista dell’Università di Sassari “l’Italia è un Paese molto, molto giovane, e inoltre frammentato, diviso, indebolito e reso povero dal conflitto. La Costituzione viene siglata quando l’Italia è un Paese ancora non unito, ma che all’unità aspira. La precedente carta fondamentale, lo Statuto Albertino, era un codice concesso dal re al popolo, rispecchiava un’unità solo formale, era la cornice di un Paese a diverse velocità, aggregazione forzata di diverse realtà. Nella Costituzione invece c’è una forza nuova: la Carta ci dice che l’Italia è una e indivisibile, ma che allo stesso tempo riconosce le autonomie locali. L’Italia dei costituenti insomma è una, ma è fatta della somma delle diferenze.” Facciamo il punto, allora: durante il periodo fascista il concetto di patria si era basato sulla cancellazione delle diversità. Tutta l’Italia era Roma, tutta l’Italia era fascista, di fatto era stata negata qualunque diversità locale. La Carta costituzionale ribalta il ragionamento: ribadisce il concetto di patria, ma garantisce che il cittadino possa esprimere la propria individualità e la propria identità territoriale. Un solo Paese, ma tante differenze. Dall’essere italiani e romani si passa all’essere italiani e sardi, italiani e siciliani, italiani e lombardi. Come dall’essere fascisti si passa a essere demoscristiani, socialisti, comunisti, liberali. L’assemblea costituente fu un momento di alto compromesso tra diversi, che riuscirono a concordare punti comuni per cui ognuno, per quanto differente dagli altri, potesse, in Italia, sentirsi un po’ a casa sua. Ci riuscirono rinunciando ognuno alla parte più radicale di se stesso. Le diverse Italie, insomma, nella Costituzione sono presenti e non vengono negate, anzi: tutte insieme diventano lo spirito di nazionalità.”
P.s. Un piccolo inciso, in tutto il libro Giovanni Floris spiega come l’Italia sia divisa, sotto differenti punti di vista..
3 Piero Atzori
21 Luglio 2009 - 11:16
A Cristian Ribichesu, stimabile e impegnato collega insegnante, direi che Il compromesso cattocomunista che è l’anima della nostra Costituzione ha fatto il suo tempo. Non credo proprio che la nostra isola possa migliorare le sue sorti con una Costituzione che impone centralismo e non è liberale. Noi vogliamo essere padroni, non ospiti, in casa nostra. Primo punto: conquistare la sovranità sarda. Anche contro la Costituzione italiana, se necessario.
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