Riforme, le bugie di Meloni

10 Gennaio 2024
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Massimo Villone


Possiamo assegnare alla conferenza stampa di Meloni un
primato, perché mai con tante parole fu detto così poco. Una
platea - con limitate eccezioni - piuttosto docile di giornalisti ha
regalato alla presidente una passerella di 45 domande e tre ore,
abilmente sfruttate. L’abilità, peraltro, non sopperisce al vuoto di
contenuti. Ad esempio, Meloni ribadisce di non essere ricattabile
rifiutando però di specificare chi, come, quando: «Non ho altro da
dire su questo». Chiama in causa in vario modo quelli di prima,
come per il MES, il caso del consigliere Degni, le concessioni
balneari e altro ancora. Si rifugia, come per i migranti e il cd piano
Mattei, nella necessità di trattative -su scala europea e non solo -
ancora in mente dei. Non va meglio per le riforme. Ma come può
ancora dire - dopo le polemiche e i fiumi di parole già spesi sul
tema -che «abbiamo scientificamente scelto di non toccare i poteri
del Capo dello Stato»? Secondo la scienza di chi? Persino La Russa
ha avvertito la necessità di inventare la fantasiosa tesi per cui la
riforma taglierebbe poteri abnormemente e abusivamente
accresciutisi intorno al Quirinale al di là del disegno dei costituenti.
Assistiamo attoniti a una contesa tra La Russa e Meloni per la
palma di migliore costituzionalista della destra.
Il problema di Meloni è la visione semplicistica di un deficit di
stabilità e governabilità che si sana consentendo ai cittadini di
scegliere chi governa, e garantendo a chi è eletto di governare per
cinque anni. Dopo, chi ha governato si sottopone alla valutazione
del lavoro svolto. Una semplificazione forzosa che occulta la
pulsione autocratica di un’elezione diretta del capo del governo
assistita da meccanismi elettorali che a lui legano una
maggioranza parlamentare. Su questo ha ribadito nella conferenza
di essere pronta ad affrontare un referendum, che anzi sembra
ritenere probabile mancando i numeri parlamentari (due terzi dei
componenti) per evitarlo. Forse Meloni amerebbe consacrarsi
come madre costituente (di una nuova Carta). Non vede, però, che
in un paese già frammentato e diviso, in cui la coesione sociale e
territoriale cede, un simile modello può accrescere spaccature e
polarizzazioni invece di dare stabilità e governabilità. Né vede un
cittadino che dopo aver votato si tramuta in suddito per i
successivi cinque anni. Un pensiero analogamente elementare e
semplicistico lo troviamo sul!’Autonomia differenziata. Asuo dire,
sana lo sbilanciamento tra Stato e Regioni dato dal fatto che i
governatori sono eletti direttamente e durano cinque anni, e i
presidenti del Consiglio no. La forza dell’istituzione si misura con
la capacità di rimanere incollati alla poltrona per tempi certi. Ma
non vede il drenaggio di poteri, funzioni e risorse dal centro alla
periferia che fatalmente indebolisce le istituzioni nazionali a
partire proprio dal presidente del Consiglio. Eppure, a lei spetterà,
secondo l’AS 615 Calderoli in Aula in Senato dal 16 gennaio,
decidere se porre limiti al negoziato per l’intesa sulla maggiore
autonomia tra lo Stato e la Regione (art. 2.2). Lo sa? L’hanno
avvertita? Meloni invece rivendica il lavoro di maggioranza sui
livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Ne fa discendere che la
maggiore autonomia è riconoscimento della migliore capacità di
gestire, e responsabilizza la classe dirigente. Qui non siamo
soltanto ai più logori mantra cari ai fan del!’Autonomia
differenziata, ma giungiamo alla menzogna manifesta. Come si
può ancora fingere di ignorare che risorse per i Lep non ci sono e
non ci saranno per il futuro prevedibile? Eche non si può parlare
seriamente di responsabilizzazione se ci sono pluridecennali
ritardi strutturali e sottofinanziamenti sistematici? Aconfronto,
De Luca che protesta sulla sanità campana sembra uno statista.
Meloni non pensa alla salus reipublicae, ma alla competizione con i
partners di governo e al minuto guadagno nei prossimi turni
elettorali. Persino Occhiuto, governatore della Calabria, merita un
voto più dignitoso. Nella convention di Forza Italia del novembre
2023 chiarisce che l’attuazione concreta dei Lep deve
necessariamente precedere l’Autonomia differenziata. “No money,
no party”, è l’esplicito messaggio consegnato alla rete. Palazzo
Chigi in sostanza risponde “money” niente, ma intanto facciamo
comunque il “party”. Ovviamente con buona pace della riduzione
dei divari territoriali, delle diseguaglianze e in specie delle
speranze delle donne e degli uomini del Sud. Ce n’è abbastanza per
impedire almeno il brindisi di un buon esito elettorale.

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