Carbonia. C’è un contesto politico e sindacale a definire le difficoltà del movimento nel Sulcis-Iglesiente. Combattere contro l’autonomia intesa quasi semplice “strumento di decentramento amministrativo” e, insieme, difendersi dall’anticomunismo: la risposta nell’art.13, una politica per la rinascita della Sardegna

10 Dicembre 2023
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Gianna Lai

Il professor Girolamo Sotgiu definisce il programma presentato dalla Giunta regionale Crespellani, in occasione del suo insediamento, “una dichiarazione di buoni propositi e un elenco di problemi da affrontare per portare a normalità una situazione assai grave”. E così prosegue: “Per il settore agrario le proposte dell’assessore Gian Giorgio Casu prevedevano iniziative per consentire l’accesso alla terra dei contadini senza terra,… per il settore industriale l’assessore Piero Soggiu confermava la sua volontà di risolvere il problema del carbone Sulcis con l’approvazione del Piano Levi e di affrontare il problema del controllo della produzione di energia elettrica, questione per la soluzione della quale - la regione vede uno dei suoi compiti fondamentali-”. Senonché, prosegue lo storico, il quadro risultava alquanto ristretto, essendo l’autonomia considerata quasi solo uno strumento di decentramento amministrativo, “le funzioni secondo i modelli tradizionali seguiti dallo Stato”, secondo le posizioni cui “era ormai approdata la Dc”. Mentre il dibattito risultava “caratterizzato anche da un forte anticomunismo, anticipazione di un orientamento che ha condizionato poi gran parte dell’attività della regione, in conformità degli indirizzi, delle scelte, delle decisioni che la guerra fredda aveva esaltato e che animavano oramai la politica nazionale”. Ed inoltre, intese come molto limitate le competenze della regione sul problema di Carbonia, “se non del tutto inesistenti”, il governo a dover decidere su tutto, secondo la convinzione della giunta e del suo presidente. Perciò dice Sotgiu che “a ripercorrere quegli anni si ha l’impressione di un dibattito più povero ed arretrato di quello nazionale, di una Dc schierata su posizioni più di destra della Dc nazionale,… di un Pci ancora incerto su come affrontare i problemi aperti dall’avvento della Regione”. In aggiunta, infine, “la necessità di difendersi dall’anticomunismo crescente,… costruendo una politica per la Sardegna”: è infatti “il Partito comunista che propone “una iniziativa intorno a cui ha ruotato poi per decenni l’impegno di tutta la politica isolana. Furono i comunisti, infatti, che scoprirono la portata rinnovatrice che poteva avere l’Articolo 13 dello Statuto regionale”, riuscendo a realizzare “una mobilitazione di popolo senza precedenti”. Affrontare i problemi dello sviluppo economico e “dare uno sbocco positivo al grande movimento per la terra e per le miniere, che era in atto, e proporsi… come forza di governo per uscire dall’isolamento”, ritrovando infine l’unità all’interno del gruppo dirigente. E se l’iniziativa per l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto partì dai sindacati, “naturalmente, come allora accadeva”, la sollecitazione, ricorda il professor Sotgiu, sarebbe venuta direttamente dalla “corrente comunista”, interna alla Confederazione, in grado di aggregare e creare consenso ampio nell’intera isola.
Perché i tempi sono molto difficili per il partito, in provincia e in Sardegna, come si apprende leggendo il professor Giorgio Caredda sulla Storia della Camera del lavoro di Cagliari: “Nella primavera del 1950 un funzionario, inviato dalla Direzione nazionale del Pci, descriverà un ambiente sociale e politico ancora tramortito dall’esito degli scioperi minerari dell’anno precedente, con una classe operaia divisa e - completamente isolata sopratutto nel bacino metallifero – sottoposta, da parte delle società minerarie, - ad uno sfruttamento veramente impressionante, feudale, - contro il quale il partito e il sindacato non riescono a fare nulla: - i licenziamenti per rappresaglia politica sono all’ordine del giorno. Si licenziano membri di commissione interna, si commettono le più infami ingiustizie e noi siamo impotenti a reagire -. A Monteponi, su 2.200 minatori, 96 compagni e solo tre aderenti alla CGIl, prosegue la nota del funzionario nella citazione del professoro Caredda, “a Buggerru su 300 minatori, i liberini ne organizzano 267 e noi non abbiamo né un tesserato al partito, né un aderente alla Cgil; estremamente deboli siamo nelle miniere di Ingurtosu, San Giovanni, Campo Pisano, Montevecchio -. E conclude quindi il professor Caredda citando, ancora da L’Archivio del Partito comunista italiano 1945-52, (Comitato regionale della Sardegna, Commissione centrale d’organizzazione), il Rapporto di M. Mazzetti risalente al 17 maggio e all’8 giugno 1950: in un anno gli aderenti al sindacato dei minatori sono calati da 9.000 a 6.500, su un totale di 20.000 lavoratori. Nel bacino carbonifero il Partito comunista è il partito dei minatori, visto che il 90 - 95 per cento dei suoi iscritti sono appunto minatori, occupati, disoccupati o pensionati, e loro familiari. Da questi dati, secondo il professor Caredda, la riprova “di un certo isolamento dei comunisti e di una storica mancanza di integrazione fra il mondo della miniera e il resto della società isolana. La sconfitta degli scioperi del 1949 ha del resto comportato una contrazione del peso della CGIL in tutto il territorio provinciale, non soltanto tra i minatori”, ma anche tra “le due grandi categorie operaie della Sardegna meridionale, i lavoratori della terra e gli edili”. Si assiste perciò al “quasi dimezzamento degli associati alla Camera del lavoro provinciale, passata dai 36.000 organizzati, del 1949, ai 20.500 dell’anno successivo”, mentre ammontano a 32.000 i “tesserati ai partiti comunista e socialista”. In aggiunta lo storico Sandro Ruju, ne I mondi minerari della Sardegna, ricorda che tra i 10.500 dipendenti della Carbosarda, la Camera del lavoro contava nel Sulcis, complessivamente, 4.500 aderenti.

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