I provvedimenti di novembre erano stati preceduti il 5 settembre dello stesso anno dai decreti sull’espulsione di studenti e insegnanti ebraici dalle scuole e università pubbliche. La guerra agli ebrei diventava cardine dell’assetto statuale. La svolta razzista era stata preparata con precise campagne culturali. Anche molti intellettuali cedettero al fascino della caccia all’ebreo. Le responsabilità politiche della Chiesa cattolica e gli episodi di solidarietà di preti e suore
Distilla veleno una fede feroce (Eugenio Montale)
Con i Provvedimenti per la difesa della razza italiana del 17 novembre 1938, preceduti il 5 settembre dello stesso anno dai decreti sull’espulsione di studenti e insegnanti ebraici dalle scuole e università pubbliche, l’antisemitismo veniva incluso tra i cardini dell’assetto statuale modellato dal fascismo tra il 1925 e il 1926.
Essi contenevano 17 articoli, divisi in 2 capi: il primo riguardava la legislazione matrimoniale, il secondo disciplinava lo status degli ebrei in Italia. Si disponeva il divieto di “matrimoni misti”, il licenziamento degli “israeliti” da tutte le pubbliche amministrazioni, dalle banche e dalle assicurazioni, l’interdizione dallo svolgimento di professioni come quelle di notaio e giornalista, si limitava il diritto di proprietà, si proibiva di avere domestici di razza ariana, si rendeva obbligatoria, nei registri dello stato civile, l’annotazione dell’appartenenza alla “razza ebraica”(1).
Già il censimento del 22 agosto 1938, condotto dalla Direzione generale per la demografia e la razza (2), aveva individuato e schedato gli “israeliti italiani”: 48.032 su circa 44 milioni di residenti a quella data nella Penisola. Esso servirà agli apparati della Repubblica sociale italiana (Rsi) per partecipare, dall’autunno del 1943, alla caccia e alla deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio approntati dal nazismo nell’Europa centrorientale. Attraverso questo strumento di rilevazione fu radiografata “l’infiltrazione” degli ebrei nei gangli della società italiana. Infiltrazione denunciata il 4 settembre 1938 – tanto per esemplificare a livello macrolocale – dal Mattino, il principale quotidiano di Napoli: su oltre 870.000 abitanti – si leggeva in prima pagina – erano presenti in città 62 impiegati privati, 43 commercianti, 41 rappresentanti e viaggiatori di commercio, 17 medici, 14 insegnanti, 12 ingegneri, 11 artigiani, 8 impiegati statali, 7 industriali, 76 studenti, per un totale di 828 ebrei che praticavano una professione o erano in procinto di farlo (3).
Le leggi razziste del 1938 colpirono più duramente gli ebrei che non avevano la cittadinanza italiana e quelli che la possedevano da meno di un ventennio. Ad ogni modo, per la maggioranza degli ebrei italiani, che si erano perfettamente integrati nella vita nazionale, esse furono “un fulmine a ciel sereno”, la fine della normalità. Senza diritti, privati della possibilità di svolgere un lavoro regolare, obbligati ad abbandonare attività e professioni, si ritrovarono all’improvviso in una condizione d’estrema precarietà. Gran parte di essi vivrà per anni cercando di adattarsi psicologicamente e materialmente alla nuova situazione. Alcuni non ce la faranno e arriveranno a mettere fine alla propria esistenza, come nel caso famoso dell’editore e scrittore Angelo Fortunato Formiggini, suicidatosi il 29 novembre 1938, gettandosi dalla Ghirlandina, la torre del duomo di Modena.
Secondo una chiave di lettura che ha finito con l’attenuare le gravi responsabilità del fascismo, la politica antisemita intrapresa dal regime mussoliniano è stata a lungo raffigurata come una scelta tardiva e accessoria, non particolarmente sentita dalla popolazione, capace di dar luogo sì ad una persecuzione sul terreno dei diritti, ma per nulla comparabile con quanto stava avvenendo nella Germania nazista e soprattutto con quanto accadrà nel “Nuovo ordine europeo” del Terzo Reich durante il secondo conflitto mondiale. Perciò, in base a quest’interpretazione, i provvedimenti antiebraici adottati nel 1938 sono stati inseriti – è questa la tesi riconducibile alla ricostruzione di Renzo De Felice (4) – fra gli effetti dell’avvicinamento tra il fascismo e il suo omologo tedesco, una conseguenza della sterzata impressa alla politica estera dal duce nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento.
Se nel 1934 Benito Mussolini – è bene ricordarlo a questo punto – aveva inviato quattro divisioni al Brennero per impedire l’annessione dell’Austria da parte di Adolf Hitler e ribadire così la propria egemonia su quello che era diventato un piccolo Paese alpino, considerato una sorta di protettorato dell’Italia (5), quattro anni dopo non frapporrà alcun ostacolo al führer, che nel marzo del 1938 poté realizzare l’Anschluss, cominciando a concretizzare il sogno da tempo accarezzato dai pangermanisti. Non si dimentichi, inoltre, che dal luglio 1936 l’asse italo-tedesco fiancheggiava il generale golpista, Francisco Franco, nella guerra civile in Spagna, presentata dal composito fronte controrivoluzionario europeo come uno scontro tra bolscevismo e antibolscevismo. Il duce, che era appoggiato anche dalla Chiesa e dalla cultura cattolica mobilitate nella crociata contro l’ateismo rosso, aveva fatto affluire in Spagna un folto contingente, complessivamente 70.000 militari tra volontari e non, tra cui molti meridionali e disoccupati, arruolatisi pur di avere una paga (6).
Per De Felice, ritenuto il maggiore biografo di Mussolini, la svolta antisemita del ’38 era attribuibile in parte alle critiche che alcuni ambienti ebraici avevano mosso verso la politica estera fascista, in parte alle critiche che taluni uomini d’affari ebrei avevano rivolto alla politica dirigista del fascismo, impegnato in quella fase a fronteggiare ancora le pesanti ripercussioni della Grande Depressione in Italia.
Rispetto a quanto emerge dall’opera di De Felice, “le leggi razziali” furono invece il frutto di una decisione maturata dal fascismo che teneva insieme tanto ragioni di natura interna quanto ragioni legate all’evolvere del contesto internazionale. Certo, l’intesa con la Germania hitleriana ebbe il suo peso, ma come ha dimostrato Michele Sarfatti non ci fu alcuna forma diretta di pressione da parte tedesca (7). Di altri fattori bisogna, dunque, tener conto, tra i quali da un lato il perseguimento dell’obiettivo di “rifare il carattere degli italiani”, mantenendo il Paese in uno stato di mobilitazione permanente (8), dall’altro l’estendersi della persecuzione antisemita in Europa. Compagini statali rette da regimi autoritari e fascisteggianti (Polonia e Romania nel 1937, l’Ungheria nell’aprile 1938 e l’Austria un mese dopo) avevano già preso misure discriminatorie (9). Anche per questo motivo il duce, che non intendeva essere secondo a nessuno, si mise sulla strada di un antisemitismo radicale. Per di più, rinsaldando i legami con il führer, si riprometteva di rompere l’isolamento in cui era stato ingabbiato in seguito alle sanzioni contro l’Italia per l’aggressione ai danni dell’Etiopia (10).
Dopo la Germania nazista – è opportuno sottolinearlo – fu l’Italia fascista il primo Paese nel Vecchio Continente a introdurre una normativa antiebraica su base razzistico-biologica. Neppure nell’Europa Orientale, benché l’antisemitismo fosse molto radicato, si era arrivati a tanto, limitandosi invece ad emanare divieti e restrizioni, per quanto molto pesanti. E su alcuni punti il fascismo superò persino il nazismo, dal momento che nella Germania hitleriana non c’era una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri paragonabile a quella italiana del 1938 e l’allontanamento degli ebrei dalle scuole ebbe un andamento più graduale (11).
Più che un omaggio al potente alleato tedesco, pur di accattivarselo, la codificazione giuridico-politica dell’antisemitismo nell’Italia fascista fu lo sbocco per certi versi coerente di una vicenda politico-culturale specifica.
Con l’adozione su larga scala dell’antisemitismo, il 1938 si configurò come anno cruciale per l’ebraismo europeo. Le varie legislazioni antisemite agevolarono, infatti, di lì a poco il compito della macchina di sterminio nazista, consentendo una rapida e precisa identificazione delle vittime. In Italia, proprio nel 1938, si ebbe il passaggio da un razzismo intermittente, coltivato da alcune componenti estremistiche del fascismo, ad un razzismo di Stato, le cui premesse furono da un lato la “demografia totalitaria”, volta a promuovere l’incremento della popolazione («il numero è potenza»: si ripeteva ossessivamente), dall’altro l’avvio di una politica di protezione della razza all’indomani della conquista coloniale dell’Etiopia. La normativa antiebraica del 1938 si innestò in una politica razzistica che conobbe una prima attuazione, nel 1936-37, nei possedimenti dell’Africa Orientale Italiana. Profondo è stato il nesso tra il razzismo di Stato introdotto nel 1938 e quanto il regime fascista stava sperimentando in Abissinia, dove batté la via dell’apartheid, imponendo misure fondate su una rigida separazione tra italiani e sudditi di colore. Proprio allora il nazionalismo imperialistico si combinò con il razzismo antiumanistico in una miscela velenosa.
Significativamente, il 18 settembre 1938, Mussolini proclamò a Trieste, in una gremita piazza dell’Unità: «Poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime».
La storiografia concorda ormai nel segnalare la centralità decisionale e operativa di Mussolini nella realizzazione di una politica razzista rivelatasi duramente discriminatoria e persecutoria. Nonostante l’atteggiamento e i giudizi a lungo ondivaghi del Duce sulla questione ebraica, i tentennamenti sull’antisemitismo svanirono, una volta imboccata la via della radicalizzazione ideologica, al fine di costruire e consolidare l’identità del “nuovo italiano” attraverso l’impiego a dosi massicce di miti e pregiudizi politici. Per la stesura del documento teorico ufficiale sul tema del razzismo, Mussolini si affidò a un giovane antropologo, Guido Landra, a cui diede, il 24 giugno 1938, l’incarico di costituire un Ufficio Studi sulla razza. Corretto dallo stesso duce, il decalogo, che – si badi – riguardava il razzismo nel suo complesso e puntualizzava la connotazione meramente biologica del concetto di razza, apparve anonimo, il 14 luglio, su Il Giornale d’Italia con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, conosciuto poi come il Manifesto degli scienziati razzisti. Ed era il razzismo biologico – val la pena rimarcarlo – il principio ispiratore del decalogo, in cui si affermava l’esistenza di una pura razza italica da mettere al riparo da incroci e contaminazioni. Si trattava di un’invenzione vera e propria come d’altronde ogni razzismo è un’invenzione senza nessuna legittimazione scientifica o culturale, se non la forza dei pregiudizi e degli stereotipi.
L’autore materiale del nefasto documento, Guido Landra, faceva parte di un pugno di intellettuali da tempo collocati su dichiarate posizioni razziste, tra cui spiccava il direttore del Tevere e del Quadrivio, Telesio Interlandi, che dopo qualche settimana, il 5 agosto, esordirà con il primo numero del quindicinale illustrato e graficamente ben curato, La Difesa della razza.
Segretario di redazione della rivista, che si accreditò come la punta di diamante dell’antisemitismo fascista, era il giovane Giorgio Almirante, che sarà capo di gabinetto al Ministero della cultura popolare nella Rsi e nel dopoguerra tra i fondatori, nel 1946, del Movimento Sociale Italiano, rimanendo per tutto il resto della sua vita leader di primissimo piano dell’estrema destra neofascista.
Finanziato dal mondo bancario, industriale e assicurativo, il periodico ebbe l’appoggio pieno del regime mussoliniano, come attesta peraltro l’eloquente circolare del 6 agosto 1938 del ministro Giuseppe Bottai, che intimava a «tutti i presidi, direttori, ispettori e insegnanti della scuola media ed elementare» di leggere, divulgare e commentare il quindicinale diretto da Interlandi. Con una grafica aggressiva e anticonvenzionale, La Difesa della razza fu il vettore di una vera e propria estetica dell’odio, anche se passò dalle centomila copie iniziali a tirature, dopo qualche anno, assai modeste.
Cercando di coniugare razzismo anti-africano e antisemitismo, la rivista mise l’accento in particolare sui pericoli della contaminazione, dell’ibridismo. È appena il caso di notare come la fobia dell’incrocio razziale, dell’imbastardimento sia ricorrente in tutti i razzismi, di qualsiasi segno essi siano: da De Gobineau a Alain De Benoist. Il meticcio era considerato il frutto degenere, deprecabile di una sciagurata mescolanza, che avrebbe portato al fatale decadimento della razza ritenuta superiore. Scongiurare “la catastrofica piaga del meticciato” era uno degli assilli principali della pubblicistica antiegualitaria del regime fascista.
Oltre ai firmatari del Manifesto della razza, docenti universitari, scienziati, scrittori, artisti, giornalisti, esponenti del clero cattolico diedero il loro contributo all’offensiva antiebraica. Si pensi al pamphlet del clerico-fascista Paolo Orano, Gli ebrei in Italia (1937), che prendeva le mosse dall’accusa rivolta agli ebrei di ostentare un’identità separata. Nello stesso anno, dopo la prima edizione del 1921, uscì la ristampa dei “Protocolli” dei “Savi anziani” di Sion con la prefazione del filosofo esoterico filonazista, Julius Evola (12). Era il condensato più fortunato del mito della cospirazione ebraica per impossessarsi del mondo.
Confezionato dalla polizia segreta zarista ai tempi dell’Affaire Dreyfus, era stato rilanciato in occasione della rivoluzione bolscevica, che la propaganda anticomunista e antisemita stigmatizzava come un esito esiziale delle trame del giudaismo internazionale. Tra coloro che denunciarono in maniera veemente il piano della guerra occulta, portata avanti in maniera subdola dagli ebrei, si distinse Giovanni Preziosi, «il prete di Avellino (come ebbe a ribattezzarlo Mussolini), intransigente fautore dell’antisemitismo che introdusse in Italia il famigerato falso storico dei “Protocolli”, mentre lo squadrismo stava insanguinando le campagne e le città delle regioni centro-settentrionali.
Non pochi furono gli intellettuali – da giovani universitari a scrittori già affermati – a prendere parte alla chiassosa, tambureggiante, volgare campagna di stampa antisemita, che suggerirà al poeta Eugenio Montale un amaro commento: «Distilla veleno una fede feroce» (13). Mentre ai più piccoli ci si rivolgeva sul Balilla con le modalità della tavoletta, nel 1939 era pronto per essere distribuito a bambini e ragazzi in età scolastica Il secondo libro del fascista: una sorta di catechismo, di bignami dell’ideologia e della legislazione razzistica del regime (14).
Non si può non richiamare tra le componenti dell’avversione antiebraica nell’Italia della fine degli anni Trenta quella di matrice cattolica. Anche se al suo interno esistevano posizioni molto differenziate, la Chiesa si proponeva soltanto di convertire gli ebrei. Tuttavia, sulla Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, si potevano leggere tra Ottocento e Novecento molti articoli che trasudavano di antigiudaismo. Macabre poi furono, nel 1924, le considerazioni su Vita e pensiero di padre Agostino Gemelli in occasione del suicidio dell’intellettuale ebreo, Felice Momigliano: «Se insieme con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore non è vero che il mondo starebbe meglio? Sarebbe una liberazione» (15).
L’espressione «Oremus pro perfidis judeis», con cui si iniziava le cerimonie per la Settimana santa, sarà tolta soltanto nel 1962 dal Concilio Vaticano II; solo nell’anno 2000 papa Wojtyla ha chiesto perdono agli ebrei per l’atteggiamento tenuto dalla Chiesa: un’implicita ammissione delle colpe dei cattolici nella vicenda dell’antisemitismo, senza giungere però a toccare il problema del coinvolgimento di molti di essi nella tragedia della Shoah.
Sulla base delle fonti già disponibili e di una nuova documentazione, la storiografia ha segnato negli ultimi anni notevoli passi avanti sui temi relativi alle reazioni del mondo cattolico, all’atteggiamento della Chiesa di fronte alla legislazione razziale, al ruolo controverso di Pio XII dinanzi al dispiegarsi della tragedia della Shoah.
Se non pochi ebrei beneficiarono dell’aiuto di suore, sacerdoti ed ecclesiastici, che in taluni casi crearono delle efficienti reti di solidarietà, è pur vero che Pio XII non pronunciò una pubblica condanna del genocidio in atto nell’Europa assoggettata dal nazismo, di cui egli, insieme agli alti dignitari ecclesiastici, era completamente al corrente. Né si può dimenticare la blanda reazione di gran parte del cattolicesimo europeo di fronte all’estendersi delle misure antisemite sul finire degli anni Trenta; né si può sottacere la scarsa, se non mancata, difesa delle vittime da parte della gerarchia cattolica in tutta l’Europa centro-orientale.
In particolare sono risaputi il ruolo di monsignor Tiso, ex arcivescovo di Bratislavia, e le benedizioni delle efferatezze degli ustaša da parte del clero croato, che invitava a sgozzare i serbi e a perseguitare gli ebrei. Era questa l’ennesima riprova degli orribili frutti dell’intolleranza e della giudeofobia, fenomeni estesi e radicati in Europa e che in Italia diedero luogo ad un innegabile coinvolgimento nelle pratiche di sterminio del Terzo Reich. La collaborazione assicurata dalle autorità e dai militi di Salò si giovò, oltre che degli elenchi stilati all’indomani delle leggi razziali, del ruolo svolto dai delatori, da coloro che denunciavano un ebreo in cambio di una lauta ricompensa (16).
A fronte dei tanti, a cui in tempo di guerra facevano gola le 5.000 lire promesse, vi erano i non pochi, tra cui molti sacerdoti, che prestavano soccorso e protezione agli ebrei. Così, mentre l’Italia si trovava divisa in due ed era sottoposta alla brutale occupazione del nazifascismo, si passò dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite, che si risolse nella deportazione e nell’uccisione di 6.291 ebrei, a cui vanno aggiunti i 1.641 delle isole del Dodecanneso.
Francesco Soverina, storico, tra i suoi libri ricordiamo “Olocausto/olocausti. Lo sterminio e la memoria”, Odradek, Roma 2003
NOTE
(1) Nel RDL 17 novembre 1938 – XVII, n. 1728, la definizione giuridica di «ebreo» poggiava su una concezione di tipo razzistico-biologico.
(2) Nota anche con l’acronimo di Demorazza, nacque il 17 luglio 1938 alle dipendenze del Ministero dell’interno, subentrando all’Ufficio centrale demografico, istituito appena un anno prima,
(3) I giudei a Napoli infiltrati in tutti i settori professionali (articolo non firmato), «Il Mattino», 4 settembre 1938.
(4) Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Oscar Mondadori, Milano 1977. Allo storico reatino si deve la prima, documentata, opera sull’ebraismo italiano durante il Ventennio.
(5) Il cancelliere clerico-fascista Engelbert Dollfuss, alleato subalterno dell’Italia mussoliniana e non intenzionato a farsi fagocitare dalla Germania a guida nazionalsocialista, nel febbraio 1934 aveva schiacciato nel sangue un’insurrezione socialdemocratica a Vienna. Morirà il 25 luglio 1934 in seguito a un attentato perpetrato da nazisti austriaci.
(6) Illuminante su questo aspetto il bellissimo racconto di Leonardo Sciascia, L’antimonio, ne Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino 1975, pp. 165-204.
(7) M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000.
(8) È quanto sostiene Marie-Anne Matard-Bonucci nella sua approfondita ricostruzione d’insieme L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, il Mulino, Bologna 2008.
(9) Cfr. A. Capelli – R. Broggini (a cura di), Antisemitismo in Europa negli anni Trenta. Legislazioni a confronto, Franco Angeli, Milano 2001.
(10) Enzo Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 59.
(11) Ciò è stato evidenziato da Valerio Di Porto, Le leggi della vergogna. Norme contro gli ebrei in Italia e in Germania. Prefazione di F. Margiotta Broglio e U. Caffaz, Le Monnier, Firenze 1999.
(12) Venne pubblicato da Baldini & Castoldi per conto de «La Vita italiana», la rivista di Giovanni Preziosi.
(13) È la seconda strofa di Dora Markus (1939), poesia dedicata da Eugenio Montale ad un personaggio di origini ebraiche. La citazione è ripresa da Alberto Cavaglion – Gian Paolo Romagnani, Le interdizioni del Duce. Le leggi razziali in Italia, Claudiana, Torino 2002, seconda edizione aggiornata e ampliata.
(14) Il secondo libro del fascista, Mondadori, Verona 1939.
(15) La frase è riportata da Roberto Finzi in L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio, Giunti, Firenze 1997, p. 99.
(16) Cfr. Giuseppe Mayda, Ebrei sotto Salò, Feltrinelli, Milano 1978 e Bruno Mayda, La Shoah in Italia, Einaudi, Torino 2009.
1 commento
1 Franco Meloni
24 Novembre 2023 - 10:58
Anche su aladinpensiero: https://www.democraziaoggi.it/?p=8408
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