Totti Mannuzzu
Cristian Ribichesu ci segnala questo interessante brano tratto dal libro Cenere e ghiaccio di Salvatore Mannuzzu, Undici prove di resistenza, Edizioni dell’Asino, 2009.
… “Il secondo tema gramsciano cui guardo è quello del “blocco storico”, con le sue interazioni fra struttura e sovrastruttura. E so bene che tocca una materia diversa da quella delle alleanze; ma poi alla fine a me non sembra così diversa: giacché contiene una forte pregiudiziale proprio sulle alleanze.
Capisco pure che si tratta d’una storia finita: anzi che correntemente si vive come se ogni possibilità di storia – della storia umana tout court - sia per sempre estinta.
Mentre parlare di blocchi può far sorridere in un mondo dove tutto pare frantumato, deflagrato, ridotto a pezzettini. Però io credo che l’unica impresa cui valga la pena di guardare sia la ricostruzione d’una dimensione non disgregata ma solidale – solidale quanto si può - del mondo: con la rivendicazione, anche per l’oggi e per il futuro, della possibilità della storia umana, e delle responsabilità d’ognuno in questa storia. Nei tempi cupi in cui viviamo la lezione dell’esploratore norvegese Nansen e del nostro Prigioniero non è solo morale: è lezione di pazienza e di intelligenza politica.
Ma proviamo a concludere. Leggo alcuni dati: è qui che voglio arrivare fin dall’inizio. Poi mi si dirà se questi dati postulano un discorso di blocco storico o solo di alleanze - magari nelle vulgate tutt’altro che irrilevanti di Togliatti o di Enrico Berlinguer.
Secondo un’organizzazione attendibile come la Banca dei regolamenti internazionali (BRI o BIS: la banca delle maggiori banche centrali, fra cui la nostra), in Italia nel 1983 andava ai profitti d’impresa il 23,12% del Pil (prodotto interno lordo nazionale) e al lavoro (compreso quello degli autonomi) il 76%: oltre ¾ del Pil. Più o meno come nel 1960. Ma dal 1984 la quota dei profitti ha cominciato a crescere e quella dei compensi del lavoro a diminuire: finché nel 2005 i profitti hanno toccato il 31,34% del Pil (con un aumento di oltre otto punti), scendendo il lavoro al 68%.
I compensi dei lavoratori sono quindi diminuiti degli stessi otto punti del Pil: 8 punti pari oggi a più di 120 miliardi di euro l’anno; che divisi per i 23 milioni di lavoratori, autonomi compresi, fanno oltre 5200 euro l’anno in meno a testa: 430 euro e rotti in meno al mese. (Il quoziente negativo invece è oltre 7000 euro l’anno a testa, quasi 600euro al mese, se si considerano solo i lavoratori dipendenti.) Intanto tra il maggio 2007 e il maggio 2008 il prezzo del pane è lievitato (termine congruo) del 13%, quello della pasta oltre il 20%, quello del latte oltre l’11%, quello della frutta quasi del 7%; e quello della benzina quasi dell’11%, quello del gasolio oltre il 26%… Che vuol dire se i consumi dei generi di prima necessità si stanno pericolosamente abbassando? Se da un po’ di tempo si mangia meno pane: siamo passati alle brioche?
Bisognerebbe considerare questi dati – con la corrispondenza fra il cospicuo aumento dei profitti (certo non di tutti gli imprenditori) e la drastica riduzione di peso degli stipendi, dei salari e di ogni altra retribuzione – quando s’intona la solita improduttiva litania delle famiglie che non arrivano più alla quarta (o alla terza?) settimana. Vana e improduttiva come litania: per il resto fondata sulla realtà.
Questa realtà è la perdita di non poca forza contrattuale, e di non poco potere politico, dei lavoratori italiani. Col degrado della condizione sociale di grandi fasce della popolazione del nostro paese. Il numero dei cosiddetti garantiti tende a dimezzarsi: la società dei due terzi rischia di diventare la società d’un terzo solo. E io credo che così si sia modificata la prospettiva di quelli che Gramsci chiamava blocchi storici; ma non è il caso di farne una questione nominale. Basta osservare che diventa prioritaria l’esigenza della redistribuzione. Esigenza sempre più negletta (e ritenuta non discriminante, un tempo, dai rivoluzionari).
È vero che pesano molto anche i problemi della produzione, nell’intero pianeta e, con grande specificità, in Italia: dove fra il 1996 e il 2005 l’economia ha avuto una crescita inferiore di più di due terzi a quella dell’economia europea; e dove l’istruzione e la ricerca subiscono arretramenti paurosi. Ed è vero che adesso una feroce crisi finanziaria ed economica minaccia di travolgere tutto il mondo (o almeno il nostro mondo: l’altro è già travolto per conto suo). Ma - anche per questo- nella politica italiana può risultare vincente solo una vertenza laburista, con l’ingrediente di un po’ di classismo nuovo (almeno un poco, mica tanto): una vertenza che non ritenga secondarie le domande di redistribuzione. Non avere proposto queste domande con la giusta forza, con la giusta capacità di distinguere e con le giuste alleanze, credo stia all’origine della sconfitta (non episodica) del centro-sinistra e della sinistra.
Basta fare quella ch un tempo chiamavamo analisi del voto: la destra ha la maggioranza anche fra i lavoratori dipendenti privati. E dovunque il consenso democratico viene dai quartieri c.d. signorili, mentre la destra occupa i quartieri e le borgate che un tempo sceglievano la sinistra. Hic sunt leones? Si tratta di trasformazioni profonde, culturali. Trasformazioni che dipendono anche dall’assenza della politica e d’una guida politica (Gramsci insegna); che possono essere contenute dentro canali politici adeguati.
Come concludere? Per parte mia, senza consolazione.
Dio sa quanto vorrei sbagliarmi, ma non mi pare che oggi ci sia un progetto, una lingua che parli di tutto questo, dentro l’intero panorama politico italiano –parlamentare ed extra. Nessuno che si rivolga ai due terzi non garantiti; e nessuno che esca dal recinto minoritario del suo ceto, vero o immaginario, con una proposta davvero capace della vasta aggregazione necessaria: e quindi di successo di governo.
Ma soffocare dentro questa conclusione dipende da una mediocre e corta prospettiva. Perché la conclusione vera è un’altra. Ne ho già accennato: “Se il chicco di grano non muore” (Si le grain ne meurt)… Se il chicco di grano non muore, non si propaga la vita. E fortunatamente tanti, innumerevoli chicchi di grano continuano a morire, nel “mondo grande e terribile” (dispersi, confusi, invecchiati, disorientati, delusi, vanamente accaniti, sempre più ottusi: quasi arresi alla “cattività dei ghiacci e delle tenebre”); mentre la vita seguita impensabilmente a propagarsi, a prevalere – un po’ forse anche grazie a quel loro (nostro) anonimo morire. La vita che s’infila in più strade di quante volta per volta riusciamo a immaginare; ch sempre ha più ragione di noi.”
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