Tratto da Nonmollare quindicinale post azionista | 134 | 04 settembre 2023
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Antonio Pileggi
L’11 agosto 2023 a Palazzo Chigi, sede del
Potere Esecutivo, la Presidente del Consiglio dei ministri ha incontrato quasi tutti gli esponenti delle forze parlamentari di opposizione per discutere su uxna questione inerente alla legislazione ordinaria in materia di “lavoro”. Per la precisione, la questione
rdiguarda proposte miranti alla definizione, per legge, del salario minimo dei lavoratori dipendenti.
L’incontro si è concluso in modo interlocutorio. La
Presidente del Consiglio, dopo la fine dell’evento,
ha rilasciato dichiarazioni usando più volte la
locuzione “lavoro povero”.
Occuperebbe molte pagine la descrizione delle
differenti opinioni dei decisori politici diffuse con
grande clamore dai media. E poiché parecchi dei
decisori politici presenti nell’attuale scena politica si
sono avvicendati in ruoli governativi, anche più
volte negli anni decorsi, ci sarebbero da fare
numerose considerazioni incentrate sul perché e sul
percome dell’esistenza del “lavoro povero”.
Mi limito a dire che risulta paradossale l’esistenza
del fenomeno del “lavoro povero” nella Repubblica
che ha scelto di essere «fondata sul lavoro». Infatti, il
primo articolo della Costituzione italiana, entrata in
vigore il 1° gennaio 1948, cioè più di 75 anni fa, così
recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul
lavoro». Inoltre, sono numerose e tutte coerenti col
pilastro fondativo del lavoro di cui all’articolo 1 le
norme di rilevanza costituzionale in materia di
diritto del lavoro, di diritto al lavoro e di “rapporti
economici” [1].
Il lavoro povero, il lavoro servile e la schiavitù
appartengono ad epoche storiche e a culture
politiche, economiche e sociali antecedenti alla
Costituzione repubblicana.
Quindi, il fenomeno del lavoro povero desta
preoccupazione perché non è stato generato dal
destino cinico e baro; perché in Italia le retribuzioni
del lavoro dipendente sono ai livelli più bassi in
Europa nel mentre l’inflazione è in paurosa crescita;
perché viene reso di solare evidenza il crescente
impoverimento del sistema Paese; perché è una
mina piazzata ai principi e ai valori fondanti
dell’ordinamento costituzionale.
Da molti anni l’Italia è finita in una lunga notte
nella quale viene sistematicamente tolta la luce della
Costituzione. Anche la semplice lettura della
Costituzione ci svela che la nostra Carta fa luce ed
ha, nelle sue parti precettive e programmatiche, il
miglior programma politico, economico e sociale
immaginabile per il nostro Paese.
Purtroppo, scelte di maggioranze governative
sono state effettuate in difformità, se non in
dispregio della Costituzione. Non sono di poco
conto le politiche che, in buona sostanza, riducono
il pensiero politico alla mera occupazione dei
palazzi del potere. Basta ricordare che sono state
architettate normative elettorali riconosciute
incostituzionali dalla Consulta grazie ai ricorsi
effettuati in via giudiziaria da parte di semplici
cittadini. Inoltre, sono ricorrenti “progetti
governativi” rivolti a cambiare in modo radicale la
Costituzione. Uso la locuzione “progetti
governativi” per sottolineare la loro “anomalia”
rispetto agli insegnamenti di Calamandrei, che
aveva spiegato il perché, in materia di normative
costituzionali, i banchi del governo in Parlamento
debbano restare vuoti. I compiti dei governi e dei
governanti, che nell’insediarsi giurano fedeltà alla
Costituzione, non sono quelli di cambiare la
Costituzione sulla quale hanno giurato, ma di
attuarla. Purtroppo, sono stati molti (di sinistra e di
destra) i governi impegnati a cambiare o a tentare di
cambiare la Costituzione piuttosto che applicarla
rigorosamente nelle parti precettive e attuarla
puntualmente nelle parti programmatiche.
Torniamo al lavoro caduto in povertà
nonostante sia stato elevato a “fondamento” della
Repubblica. La puntuale osservanza della
Costituzione, in tutte le sue parti, avrebbe impedito
e impedirebbe certamente il formarsi del lavoro
povero. Si tenga presente, per fare un solo esempio,
che l’art. 36, compreso nel Titolo III, Parte prima
(intitolato “Rapporti Economici”), stabilisce in
modo chiaro ed inequivocabile che: «Il lavoratore ha
diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e
qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare
a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Queste
parole dell’art. 36 non sono solo chiare ed
inequivocabili, sono pietre. E sono pietre anche i
principi fondamentali degli articoli 2 e 3 che, per
come sono stati formulati, ben riguardano questioni
attinenti al “lavoro”: art. 2, per il riferimento ai
«doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale»; art. 3, per il riferimento ai principi attinenti
alla «pari dignità sociale», nonché al principio del
rispetto dell’eguaglianza dei punti di partenza:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Al riguardo, c’è da ricordare che la Costituzione,
dopo la sua entrata in vigore, è stata attuata (e
osservata, nel senso dell’osservanza) per circa tre
decenni coincidenti col miracolo economico e col
fenomeno denominato, negli anni ‘70, “espansione
scolastica”. Tre decenni coincidenti con la
“crescita” dell’Italia diventata una delle più avanzate
economie del Pianeta. Tutto ciò a pochi anni dalla
disastrosa conclusione della Seconda guerra
mondiale.
Quanto alle questioni più specifiche del
“lavoro”, non bisogna abbandonare all’oblio il fatto
che nel 1970 venne alla luce lo storico Statuto dei
lavoratori [2]. Lo Statuto che fece scrivere, alla
stampa dell’epoca, una considerazione rimasta nella
memoria di molti e che qui voglio ricordare. Mi
riferisco all’annotazione secondo cui mai, fin dai
tempi degli schiavi che costruirono le piramidi,
fosse stata varata una legge tanto avanzata a tutela
dei lavoratori. Per quanto le considerazioni riportate
sui giornali, nelle varie epoche storiche, possano
essere “eccessive” o “enfatiche”, sta di fatto che, lo
Statuto fu una delle felici e importanti occasioni
attuative della Costituzione. Basta leggerlo per avere
cognizione del fatto che il legislatore del ‘70 aveva
ben presenti i principi e i valori dettati dalla
Costituzione repubblicana. Nei decenni successivi
lo Statuto del ’70 è stato via via demolito. Ed è
subentrata una fase storica caratterizzata dal lavoro
precario e dal così detto “lavoro povero” dei tempi
attuali.
La precarietà è stata estesa anche al lavoro
pubblico attraverso lo spoil system all’italiana
introdotto alla fine del secolo scorso prima dal
centro-sinistra (Bassanini) e successivamente, con
ampliamenti significativi, dal centro-destra. Lo spoil
system all’italiana è stato voluto e gradito da entrambi
gli schieramenti perché vogliosi di relegare il
pubblico impiego in un ruolo ancillare della politica
degenerata in mera occupazione dei palazzi del
potere. Tutto a detrimento del rispetto dei principi
costituzionali inerenti al «buon andamento» e alla
«imparzialità dell’amministrazione», nonché a
detrimento dei principi posti a presidio del «servizio
esclusivo della Nazione» da parte dei «pubblici impiegati»
(artt. 97 e 98).
E c’è di più. La Carta è diventata oggetto di
desiderio di stravolgimenti. Mi riferisco alla “scuola
di pensiero” del così detto “decisionismo”
rivendicato a favore dell’ampliamento dei poteri in
capo al potere esecutivo. Questa “scuola di
pensiero”, benché bocciata per due volte in due
storici referendum (tentata riforma Berlusconi del
2006 e tentata riforma Renzi del 2016), è ancora
sostenuta con denominazioni diverse e con il
medesimo scopo: “presidenzialismo”,
“premierato”, “sindaco d’Italia”, etc.
Sono decenni che in Italia, attraverso il
leaderismo e i partiti personali, vengono alimentate
tendenze populiste e derive plebiscitarie con
l’obiettivo di indebolire il ruolo e la centralità del
Parlamento, vero pilastro di ogni ordinamento
democratico. Le tendenze plebiscitarie vanno via
via collocandosi nella dottrina internazionale rivolta
all’indebolimento del Parlamento per favorire
processi di “autocratizzazione” e di “arretramento
democratico” (autocratization, democratic backsliding).
L’Italia ha un campionario eloquente del fenomeno
demolitore della centralità del Parlamento e dei
principi posti a presidio dell’equilibrio (divisione)
dei poteri e dei principi a presidio del pluralismo
istituzionale. In siffatto contesto, la “scuola di
pensiero” del “decisionismo” viene definita,
ineffabilmente, “democrazia decidente”. La
“democrazia decidente” che vorrebbe ridurre la
partecipazione democratica ad un solo giorno ogni
5 anni: il giorno del voto per scegliere
plebiscitariamente l’uomo solo al comando. Sta di
fatto che da molti anni l’azione del potere esecutivo
continua ad essere svolta a detrimento del ruolo
centrale del Parlamento con prevaricazioni di vario
genere (decreti-legge e voti di fiducia a raffica,
deleghe legislative di varia natura, etc.).
È il caso di sottolineare che la prima parola (e la
prima istituzione) della Parte seconda della
Costituzione, intitolata “Ordinamento della
Repubblica”, è il Parlamento. Il luogo dove si parla
e si decide in trasparenza e col rispetto delle regole
della democrazia rappresentativa, che è anche
rispetto delle minoranze. Per usare un vecchio
adagio di Einaudi (conoscere, discutere e
deliberare), il Parlamento è il luogo dove si conosce,
si discute e si decide.
Sulla base dei brevi cenni su situazioni che hanno
poco o niente a che fare con la civiltà giuridica
introdotta dalla Costituzione, sono necessarie scelte
“ri-generative” di pensiero politico e ispirate ad un
alto senso dell’etica pubblica e dell’etica della
responsabilità. E sono, altresì, necessarie soluzioni
serie in merito alla “questione morale”, che non può
essere continuamente snobbata con superficiali e
furbesche accuse di “moralismo” allo scopo di
giustificare la spregiudicatezza e l’irresponsabilità
dell’agire politico.
La presenza di “lavoro povero”, a distanza di 75
anni dall’entrata in vigore della Costituzione,
costituisce motivo per riflettere sulle parole chiave
della Carta in materia di lavoro. In proposito,
ripropongo qui di seguito un mio scritto del 2021
intitolato Le parole chiave della Costituzione. [3]
Le parole chiave della Costituzione
«Ciampi, il decimo Presidente della Repubblica
italiana e il secondo, dopo Einaudi, con esperienza
di lavoro nella Banca d’Italia, dichiarò che la
Costituzione era la sua Bibbia laica». … «La parola,
specialmente nella comunicazione politico-
istituzionale, svolge una grande funzione
pedagogica. Specialmente in Italia, dove la
Costituzione non si studia affatto o non si studia
abbastanza.
Nel richiamare l’importanza della parola, ad
imitazione dello stile comunicativo di Ciampi, viene
in mente il prologo del Vangelo di Giovanni: «In
principio c’era la parola» … «la parola è la luce che
splende nelle tenebre».
In effetti, le parole scritte nella Costituzione dai
Padri e dalle Madri costituenti contengono l’essenza
e il fondamento della Repubblica italiana, che è nata
dopo la lunga notte della dittatura fascista. Una
dittatura preparata e “introdotta” attraverso la fase
politica del pre-fascismo, una fase in cui le parole
della democrazia liberale perdevano valore e
venivano sostituite da illiberali idiomi. In quel
periodo il luogo della parola libera e in piena luce,
cioè il Parlamento (dove si parla), veniva
considerato un bivacco per i manipoli del duce del
fascismo.
Ogni parola della Costituzione è di facile
comprensione. Fin dal primo comma dell’articolo 1
che così recita: «L’Italia è una Repubblica
democratica fondata sul lavoro». Una frase
brevissima che contiene cinque parole chiave: Italia,
Repubblica, democratica, fondata, lavoro. Sono le
parole (cinque quanto le dita di una mano) di una
“formula” essenziale per comprendere la natura e il
contenuto della Costituzione e per disegnare
l’essenza dello Stato e il suo fondamento. Si tratta di una “formula” sulla quale si è realizzata la
convergenza delle tre culture politiche ampiamente
rappresentate nell’Assemblea costituente: quella
liberale, quella cattolica e quella socialista. Ciò è
rilevabile in modo incontrovertibile, tra l’altro, dal dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente. [4]
Significativi sono, tra gli altri, l’intervento e la proposta del liberale Guido Cortese e la proposta
del cattolico Fanfani. Quest’ultima proposta
prevalse, ma accoglieva, nella sostanza, il contenuto delle proposte di gran parte degli altri costituenti.
Poche parole, ma ognuna ricca di
importantissimi e molteplici significati. La locuzione “Repubblica democratica” stabilisce due
principi costitutivi dello Stato. Primo: uno Stato che
è “cosa pubblica” (dal latino “res publĭca”). Quindi
niente Re o imperatori. Niente duce, o führer, o
sultano e relativo sultanato, o leader supremo.
Secondo: uno Stato che è improntato al “metodo
democratico”, cioè alle scelte del popolo. La parola
“democrazia” discende dal greco Dēmokratía,
composta da dêmos (popolo) e da kratéō (comando).
Repubblica fondata sul “lavoro”. La parola
“lavoro” ha un significato di basilare rilievo ed è stata
scelta dai costituenti che hanno condiviso l’idea
della nobiltà del lavoro. Infatti la parola “lavoro” ha
subito, nel tempo, una “evoluzione” rispetto a
quella originaria coniata nella lingua latina. In latino,
la parola “labor” aveva il significato di fatica e
sofferenza, come quella patita dagli schiavi.
In proposito, giova ricordare le parole di Fanfani
che, nel citato dibattito sull’articolo 1
nell’Assemblea costituente, illustrò in modo
convincente il significato e il valore dell’articolo 1:
«Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude
che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria,
sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul
dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di
trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di
contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente
pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente
si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma
affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che
ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la
massima espansione di questa comunità popolare potrà essere
raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella
pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità
comune. L’espressione «fondata sul lavoro» segna quindi
l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione».
Sta di fatto che la parola “lavoro” è presente in
numerosi articoli della Costituzione.
“Principi Fondamentali”
Art. 1: “Repubblica democratica fondata sul “lavoro”;
Art. 3: parla dei “lavoratori” a proposito di libertà,
eguaglianza e partecipazione;
Art. 4: parla di “diritto al lavoro”;
PARTE I - DIRITTI E DOVERI DEI
CITTADINI
Titolo III – Rapporti Economici
Art. 35: “La Repubblica tutela il “lavoro” in tutte
le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e
l’elevazione professionale dei “lavoratori”. Promuove
e favorisce gli accordi e le organizzazioni
internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti
del “lavoro”. Riconosce la libertà di emigrazione,
salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse
generale, e tutela il “lavoro” italiano all’estero”
Art. 36: parla dei “lavoratori” a proposito di
retribuzione, di quantità e qualità del “lavoro”, di
ferie retribuite e riposo settimanale;
Art. 37: parla di parità di “lavoro” e di diritti per la
donna lavoratrice; di condizione di “lavoro” per
assicurare alla madre e al bambino una speciale
adeguata protezione; di età minima per il “lavoro”
salariato e di tutela del “lavoro” dei minori;
Art. 38: parla dei diritti del cittadino inabile al
“lavoro” e dei diritti e delle esigenze di vita dei
“lavoratori” in caso di infortunio, malattia, invalidità
e vecchiaia, disoccupazione volontaria;
Art. 39: parla di contratti collettivi di “lavoro” e di
sindacati;
Art. 43: parla di comunità di “lavoratori” per
particolari interventi pubblici che abbiano
preminente interesse generale;
Art. 46: parla di elevazione economica e sociale
del “lavoro” … in armonia con le esigenze della
produzione e del diritto dei “lavoratori” a
collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi,
alla gestione delle aziende;
Titolo IV – Rapporti politici
Art. 51: parla di conservazione del posto di
“lavoro” per chi sia chiamato a svolgere funzioni
pubbliche elettive;
Parte II – Ordinamento della Repubblica
Art. 99: parla della composizione e dei compiti
del Consiglio nazionale dell’economia e del “lavoro”.
Discutere “del tutto e della parte” e delle parole
chiave in materia di norme costituzionali aiuta a
comprendere la natura, il contenuto e la portata
della Costituzione, che è la Legge delle leggi. Ma
nella semplice elencazione delle norme non si può
non tenere conto che gran parte della normativa
costituzionale ha natura programmatica. Molte delle
norme costituzionali sono inattuate e sono rimaste
scritte sulla carta. Per alcune decine di anni, dopo
l’entrata in vigore della Costituzione, c’è stata una
volontà politica rivolta ad attuarla e a ricostruire il
Paese. Poi si è fatta strada l’idea di cambiare la
Costituzione e il pensiero politico prevalente (e
dominante) si è concentrato sul come conquistare e
sul come appropriarsi dei palazzi del potere.
La conoscenza della Costituzione, a partire dalla
scuola, costituisce il presupposto necessario per
mobilitare le coscienze, per favorire la cittadinanza
attiva e per riscoprire il valore dello spirito
costituente che fu la stella polare nelle decisioni e
nelle scelte dei Padri e delle Madri costituenti….”
Considerazioni conclusive
Le riflessioni, che prendono come principali
punti di riferimento le parole chiave della
Costituzione e che richiamano questioni riferibili
all’etica pubblica, all’etica della responsabilità e alla
“questione morale”, consentono di concludere
questo scritto riportando, testualmente, l’art. 54 e le
ultime righe della Carta.
Art. 54: Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli
alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I
cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere
di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento
nei casi stabiliti dalla legge.
Ultime parole della Costituzione: “La Costituzione
dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale
della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello
Stato”.
Specialmente i giovani devono tenere ben
presente che alle ultime righe della Costituzione
seguono le firme di Enrico De Nicola, Capo
provvisorio dello Stato, Umberto Terracini,
Presidente dell’Assemblea costituente, De Gasperi
Alcide, Presidente del Consiglio dei ministri,
Giuseppe Grassi, Guardasigilli. È appena il caso di
ricordare l’area culturale e politica di riferimento
delle personalità che hanno firmato la Carta: De
Nicola e Grassi di area liberale, Terracini di area
socialista e De Gasperi di area cattolica. Oso
mettere in evidenza questi soggetti e la loro area
politica di appartenenza per significare che la loro
storia personale e i loro comportamenti, peraltro
“consacrati” anche nei verbali dell’Assemblea
costituente, sono esemplari. Specialmente quando
ci siano da affrontare i temi dell’etica pubblica e
della “questione morale”. Sono, questi ultimi, i temi
che richiedono: a) credibilità e senso dello Stato da
parte dei “chiamati” a svolgere funzioni pubbliche;
b) netta distinzione tra funzioni pubbliche, da
svolgere nell’interesse generale del Paese, e funzioni
di militanza o guida del partito politico di
appartenenza (partito che è un’organizzazione di
parte) [5].
Le riflessioni fin qui svolte prendono le mosse
dalla questione del lavoro e non possono non avere,
tra passato, presente e futuro, lo sguardo rivolto allo
sviluppo tecnologico e alla così detta intelligenza
artificiale che certamente avranno come risultato la
consistente riduzione di posti di lavoro umano. La
riduzione di posti di lavoro apre scenari nuovi che
attengono, principalmente, alla qualità e alla
quantità del lavoro. La Costituzione del 1948, che è
umano centrica, contiene principi e valori idonei ad
orientare le giovani generazioni presenti e future
nella soluzione delle problematiche riguardanti il
lavoro umano.
Al riguardo, è da ricordare uno dei più
importanti articoli della Costituzione: l’articolo 2,
che non statuisce ex novo diritti, ma “riconosce”, in
quanto preesistenti a qualsiasi normativa generata
dai legislatori di ogni tempo, i diritti inviolabili
dell’uomo:
«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
1 commento
1 Aladin
8 Settembre 2023 - 13:22
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=147159
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