Gramsci e la Rivoluzione d’ottobre

18 Agosto 2023
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Nel ripercorrere la vita di Gramsci, invitiamo alla lettura dei riflessi della Rivoluzione d’Ottobre in Italia. In particolare, l’iniziativa di Gramsci di creazione dell’Ordine nuovo.

Il Palazzo d’Inverno, 26 ottobre 1917

Affamata, con un esercito in sfacelo, ondate di scioperi, sommovimenti popolari spontanei o guidati dal protagonismo dei Soviet, mentre la sorte dei sovrani era tutt’altro che chiara si verificò una grave crisi istituzionale con due governi, quello vecchio e il Comitato Provvisorio in embrione, il lato istituzionale di quel più articolato squilibrio a cui Trockij, definendolo il “dualismo di poteri”, dedicò diverse pagine di riflessione.

Lenin nel 1920

Nei mesi che seguirono la Rivoluzione di febbraio e la nascita del Governo Provvisorio, le varie fazioni che avevano animato la rivoluzione entrarono in conflitto per indirizzare la politica della nuova entità statale; si ebbero scontri fra il Soviet di Pietroburgo e il Governo Provvisorio[64] e la lotta di potere non risparmiò i bolscevichi che furono però tenuti insieme dall’indiscusso prestigio di Lenin. Si giunse all’autunno in un clima di forte tensione fra le masse operaie e contadine e all’interno dell’esercito, con il Soviet di Pietroburgo che premeva per l’azione rivoluzionaria alla quale si pervenne nella notte fra 25 e 26 ottobre con l’occupazione di centri governativi, la presa del Palazzo d’Inverno e l’arresto dei membri del Governo Provvisorio.

A causa delle difficoltà di comunicazione accentuate dalle rovine della guerra, le notizie che filtravano dalla Russia erano generiche e poco approfondite, spesso oggetto di deformazioni e censure. La stampa italiana trattò i fatti avvenuti a Pietroburgo come una ribellione di ubriaconi, mentre Gramsci intuì subito che quelle giornate di lotta rappresentavano uno snodo determinante. Le riflessioni di Gramsci trovarono posto nel celebre articolo pubblicato sull’Avanti! del 24 novembre 1917 e intitolato La rivoluzione contro «Il Capitale». In questo scritto Gramsci opponeva a un’interpretazione meccanicistica del marxismo una sua lettura più aderente alla realtà storica, e spiegava che i bolscevichi avevano attuato la rivoluzione proletaria in un Paese arretrato, in aperta discordanza quindi con le previsioni di Marx, secondo cui l’evento rivoluzionario non poteva che prodursi in una realtà socio-economica caratterizzata da una sensibile affermazione del capitalismo. Questa opinione fu terreno di scontro ideale con la rigidità di Bordiga che, non volendo abbandonare l’ortodossia marxista, si limitò pertanto a guardare alla rivoluzione russa come a un accadimento che, nel dimostrare l’incompatibilità fra democrazia e socialismo, aveva affermato la superiorità del secondo sulla prima. Un altro punto di dissenso fra i due dirigenti era il pensiero di più ampio respiro di Gramsci che considerava la necessità di un processo rivoluzionario mondiale, taglio estraneo allo spirito bordighiano. Per la formazione politica e culturale che aveva maturato, Gramsci vide la nascita del nuovo Stato operaio come fattore propulsivo di cambiamento dell’ordine mondiale, condividendo questa impostazione con Lenin.

L’Ordine Nuovo
Il primo numero dell’Ordine Nuovo

Dopo aver fatto pratica come giornalista nella redazione dell’Avanti! e avere familiarizzato con giovani colleghi come Alfonso Leonetti, Mario Montagnana e Felice Platone, Gramsci si ritrovò con i vecchi compagni universitari Tasca, Terracini e Togliatti, e nel gruppo torinese emerse la necessità di allargare il dibattito su quanto accadeva in Russia e sulle prime opere di Lenin che cominciavano a filtrare in Italia. Quest’esigenza venne assolta da una nuova pubblicazione: “L’Ordine Nuovo”, che vide la luce il 1º maggio del 1919, e nella quale si sarebbero alternati articoli di natura genericamente culturale – secondo le idee di Tasca – ad altri più strettamente politici, contributi dottrinari e proposte operative, traduzioni di interventi di alti dirigenti comunisti europei e testimonianze della vita di fabbrica. L’articolo Democrazia operaia, scritto a quattro mani da Gramsci e Togliatti, lanciò il concetto di “dittatura del proletariato” con la conseguente instaurazione di uno Stato nuovo, ed ebbe larga eco suscitando grande interesse fra gli operai torinesi, tanto che la rivista divenne l’organo dei Consigli di fabbrica.

La rivista volle assumere un profilo innovativo estraneo al settarismo e alla rigidità di Bordiga, e prese invece atto della ricchezza di posizioni ideali e del pluralismo che caratterizzavano la società italiana. Divenuto quotidiano, ospitò fra le tante figure di spicco il liberale Piero Gobetti che ricoprì il ruolo di critico teatrale, e vide la presenza di molte figure femminili – Teresa Noce, Rita Montagnana, Camilla Ravera, Felicita Ferrero. Nell’impostazione antidogmatica, si rivolse perfino a chi apparteneva al movimento dannunziano, purché non avesse simpatie per Mussolini e per il fascismo, e non mancò di promuovere un confronto con fasce operaie che si rifacevano a posizioni anarco-sindacaliste. Attorno al periodico, oltre a Platone e Montagnana, si radunarono personalità di varia estrazione: fra gli altri Piero Sraffa, Teresa Recchia, Paolo Robotti, Teresa Noce, Rita Montagnana, Luigi Capriolo, Celeste Negarville, Camilla Ravera, Felicita Ferrero, Battista Santhià. L’originalità della pubblicazione nel panorama della stampa dell’epoca stava nella proposta forte rivolta alle Commissioni interne di fabbrica affinché si trasformassero nei Consigli di fabbrica, organismi di autogoverno ed embrioni di un futuro Stato dei Consigli che, secondo Gramsci, avrebbero dovuto preparare la dissoluzione dello stato borghese cominciando a creare gli ingranaggi di un nuovo Stato iniziando dal posto di lavoro. Il gruppo degli “ordinovisti”, le cui posizioni divenivano sempre più popolari, fu avversato dalle componenti riformiste del PSI, attirando le critiche di Turati, Serrati e Bordiga, e venne bollato di anarco-sindacalismo. Oltre alle posizioni polemiche provenienti dall’esterno, L’Ordine Nuovo fu terreno di scontro anche fra i fondatori. Le colonne del giornale ospitarono nel 1920 un’aspra disputa fra Gramsci e Tasca; quest’ultimo, formatosi politicamente con Bruno Buozzi nelle lotte dei lavoratori, tendeva a canalizzare il movimento operaio nell’alveo sindacale della Confederazione del lavoro, posizione che contrastava nettamente con quella del dirigente sardo.

Il numero dell’11 dicembre 1920

Comunque la pensassero i detrattori, L’Ordine Nuovo viveva in una temperie in ebollizione e interpretava il clima di battaglia del proletariato italiano; ma il respiro del giornale non si limitava ai confini italiani, va invece inquadrato nelle esperienze rivoluzionarie europee, in Paesi arretrati ma anche in nazioni avanzate. L’articolo Per un rinnovamento del Partito socialista, datato marzo 1920, sottolineò la necessità per il PSI di non rinchiudersi in una dimensione provinciale ma di rispettare i doveri di solidarietà internazionale, e vi si avvertivano le prime avvisaglie dello strappo con gli esponenti del riformismo italiano. L’orientamento espresso nel documento fu apprezzato da Lenin che stimò questo approccio la sola posizione giusta formulata dal Partito socialista. Osservazioni critiche emersero a posteriori anche dall’interno: Gramsci rimproverò l’incapacità di estendere al di fuori della realtà torinese le idee-forza e la complessità dell’elaborazione ideale svolta dal giornale; Togliatti, in una lettera indirizzata a Tasca, criticò l’eccedenza di argomenti sulla fabbrica che mettevano in secondo piano altri aspetti, a iniziare dalla questione contadina. E tuttavia, nonostante i limiti, alla realtà dell’Ordine Nuovo vanno ricondotti spunti di crescita e maturazione in figure come Piero Gobetti, Carlo Rosselli e Rodolfo Morandi.

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