Alessandro Volpi — Altraeconomia 9 Agosto 2023
La vicenda della norma che colpisce gli extra-profitti delle banche, inserita nel calderone del cosiddetto “Decreto Asset” (Disposizioni urgenti a tutela degli utenti e in materia di attività economiche e investimenti strategici), varato dal governo prima di chiudere per ferie, è una prova tangibile della natura speculativa del cosiddetto mercato finanziario.
Di fronte a una misura scritta decisamente male per la sua eccessiva genericità, che la espone a ricorsi di varia natura, è partita una colossale ondata di vendite, moltissime delle quali è prevedibile allo scoperto, che hanno fatto perdere alle principali banche italiane quasi dieci miliardi di euro di capitalizzazione. Per essere ancora più chiari, la misura in questione, che intende applicare un’aliquota del 40% agli introiti bancari derivanti da una differenza tra i tassi praticati sui prestiti e quelli pagati alla clientela superiore al 6% nel periodo 2021-2023, ha un evidente carattere propagandistico. Mira infatti a colpire quelle banche che avrebbero approfittato dei tassi della Banca centrale europea per lucrare sulla propria clientela.
In altre parole, non è l’entità del profitto il dato rilevante, quanto appunto la differenza tra i tassi attivi e quelli passivi, in una sorta di “risarcimento degli italiani”, vessati dall’Europa (“Così ripariamo agli errori della Banca centrale europea”, ha dichiarato infatti il ministro degli Esteri Antonio Tajani). Il Governo Meloni riscopre così una vocazione sociale e tassa le banche ma lo fa con un provvedimento che non specifica ancora i termini di applicazione e che dovrà passare per un’ulteriore definizione parlamentare, in grado di stravolgerla, soprattutto di fronte alle inevitabili lamentele degli istituti dei credito e dei fan del turboliberismo.
In maniera paradossale, peraltro, il governo, nel momento in cui specifica solo la natura una tantum della norma, sostiene di voler utilizzare una parte del suo gettito per coprire le minori entrate generate dalla riforma fiscale che hanno inevitabilmente carattere strutturale.
Mettendo in fila tutti questi elementi, dall’inserimento della misura in un decreto assai confuso, all’assenza di una reale definizione dei criteri della sua applicazione, e dunque dei necessari passaggi parlamentari, fino alla destinazione a una improbabile copertura fiscale, avrebbe dovuto essere palese che la pomposa imposta contro gli extra-profitti ha i tratti della retorica proclamazione d’intenti.
Nonostante tutto questo, come accennato, la Borsa di Milano e non solo, ha mostrato di credere ciecamente alla natura punitiva del provvedimento e ha scommesso contro le banche. In termini più appropriati, bisogna mettere in luce che la speculazione più aggressiva ha puntato forte sul crollo dei titoli degli istituti di credito e, sfruttando i peggiori arnesi della finanza “short”, ha inflitto alle banche italiane un danno assai maggiore di qualsiasi futuribile imposta sugli extra-profitti. La finanziarizzazione selvaggia non mostra più alcun interesse per i dati della realtà, non prova neppure a valutare i contenuti dei provvedimenti normativi, ma costruisce in pochi istanti scosse telluriche enormi che hanno effetti decisamente più rilevanti di qualsiasi intervento della politica.
Forse il Governo Meloni, che manifesta costantemente la propria fedeltà ai dogmi del mercato, a cominciare dal fisco, avrebbe dovuto immaginare che cedere alle antiche origini della destra sociale poteva scatenare quegli “spiriti animali” a cui è difficile opporre resistenza. Adesso, dopo la tempesta subita dagli istituti di credito, è molto probabile che intervenga il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, finora silente sulla questione, per gettare acqua sul fuoco e far capire alle banche che era solo uno scherzo. Si trattava di una norma manifesto, appunto, che purtroppo per l’esecutivo di Giorgia Meloni, gli speculatori hanno gioiosamente cavalcato.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.
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