Andrea Pubusa
Per Nino la vita è iniziata quasi subito in salita. E’ nato normalmente. Era un bel maschietto, con occhi azzurri, le complicazioni sono venute dopo, intormo ai due anni. Improvvisamente nella sua schiena compare una specie di noce. La madre Peppina cerca di fargliela sparire con continui massaggi. Ma la noce non scompare, anzi ne spunta una anche davanti. E cosi’ la mamma lo porta da un medico a Oristano e da uno specialista a Caserta. Ma il morbo e’ sconosciuto e non c’e’ un rimedio con farmaci. Il consiglio e’ di fargli preparare degli anelli ed appenderlo ad una trave per stirargli la spina dorsale. Ma anche questo marchingegno empirico non funziona, non da’ risultati, e cosi Nino cresce con due gobbe, una nel petto e una sulla schiena. E rimane piccoletto. Da grande non9⁹ superera’ il metro e mezzo.
Fu colpito dal morbo di di Pott, una particolare osteomelite (ossia un’infezione) dei dischi vertebrali e delle vertebre, provocata da batterio detto Mycobacterium tuberculosis. Oggi sarebbe stato agevolmente curato. Ma allora non si poteva. Anche Leopardi ne fu colpito. E anche lui ebbe molte difficoltà.
Il piccolo Nino, tuttavia, fu salvato dalla comunità in cui viveva, Ghilarza. In un piccolo paese per un bambino ci sono tante distrazioni. Intanto gli altri bambini. Tanti! In casa Gramsci i figli erano sette, ma il numero standard di figli nelle famiglie d’allora era di almeno cinque, quindi in un vicinato di dieci famiglie cinquanta bambini, che fanno chiasso coi loro giochi e fanno scorribande per il paese e per i campi, specie nei giorni delle vacanze sco€⁹lastiche e nelle lunghe giornate d’estate. Nino non poteva fare qualche gioco pesante (come lunamonta), ma poteva farne altri. E poteva - come ai usava allora - costruirli i giochi. Su quaddu ‘e canna (cavallo di canna) era il più elementare, una canna grossa a cui si applicava in una estremità una sagoma della testa di cavallo, e poi lunghe sgroppate con la canna fra le gambe! Il carro a buoi o per il cavallo, fatto con il lungo tronco di ferula, sponde di legno e ruote piene di sughero, è un altro classico. E poi su barralliccu, una sorta di trottola per giocare a su pipiriponi. E qui più sono i partecipanti maggiore è il divertimento. E lì i bambini non mancavano! Oppure sa rannedda (raganella) o sa matracca, fatta con una tavola e dei battacchi per la liturgia della settimana santa. Gramsci nelle lettere ai familiari e ai figli ricorda ls sua mestria nel fsre navi e vascelli, una vera flotta, con cui fare battaglie navali.
Costruire giochi è un divertimento in sé, sviluppa la manualità e struttura la mente. Ci vuole osservazione, precisione e applicazione.
Poi le lughe scorribande nei campi. Gli animali. Ne volete una conferma? Prendete la lettera a Tatiana del 2 giugno 1930, in cui parla de su scurzone. “Da bambino ero un infaticabile cacciatore di lucertole e serpi, che davo da mangiare a un bellissimo falco che avevo addomesticato. Durante queste caccie nelle campagne del mio paese (Ghilarza), mi capitò tre o quattro volte di trovare un animale simile al serpe comune (biscia), solo che aveva quattro zampette, due vicino alla testa e due molto lontane dalle prime, vicino alla coda (se si può chiamare cosí); l’animale era lungo sessanta-settanta centimetri, molto grosso in confronto della lunghezza, la sua grossezza corrisponde a quella di una biscia di un metro e venti o un metro e cinquanta. Le gambette non gli sono molto utili, perché scappava strisciando molto lentamente.
Al mio paese questo rettile si chiama scurzone, che vorrebbe dire scorciato (curzo vuole dire corto), e il nome si riferisce certamente al fatto4 che sembra una biscia scorciata (bada che c’è anche l’orbettino, che alla poca lunghezza unisce la proporzionata sottigliezza del corpo⁹⁹). E poi ai figli parla della volpe, della sua furbizia e dei puledrini protetti dalla madre alla nascita contro la volpe che le attacca.
E quante nozioni di botanica! I nomi in sardo dei fiori e delle erbe campestri, le loro caratteristiche, le loro attitudini e le loro negatività.
E poi l’anatomia. I pastori conoscono alla perfezione quella degli animali che è simile a quella dell’uomo. E sono pure astrologi. Nelle lunghe notti col gregge scrutano il cielo e conoscono gli astri, le fasi lunari, il cambio delle stagioni. E quindi a Nino si apriva un orizzonte stimolante. Come nell’antica Grecia i pastori poetavano in continuazione, in campagna e nelle bettole. E non c’era festa importante nel paese che non fosse accompagnata dalle gare poetiche in sardo. Col fratello Mario a casa facevano scherzosamente gare in rima sarda, e ne ha nostalgia. Scrive alla mamma nella lettera su Fra’ Antiogu, di cui diremo “se ci trovassimo con Mario potremmo rifare una gara poetica!“. Nasce li’ la passione per la letteratura e la poesia.
La infanzia di Nino - come si vede - la ricaviamo dai suoi scritti da grande alla madre e ai fratelli e dalle favole per i figli. I riferimenti alla vita di paese sono costanti e specifici. E siccome una persona non ama ricordare agli altri fatti tristi, quelli che Nino racconta sono divertenti e inducono al sorriso, il mondo che viene descritto è fantastico e allegro. Non a caso Gramsci ha elogiato lo “umorismo fresco e paesano” de sa scomuniga de Predi Antiogu arrettori de Masuddas, come abbe a scrivere alla madre, sollecitando l’invio del poemetto in carcere, con una lettera del 27 giugno 1927.
Nonostante il successo e le varie edizioni, fin dal suo apparire a metà Ottocento, lo scritto è rimasto rigorosamento anonimo, senza padre o padri. Anche se si è sempre pensato ad una persona colta, ben a conoscenza dei fatti e della psiche del popolo sardo. E tuttavia la declamazione, anzitutto nel travestimento da prete e poi negli incisi in latino maccheronico, ricorda i riti e le prediche del “pontefice massimo” della gogliardia cagliaritana, che ho conosciuto al suo epilogo, alla metà degli anni sessanta. Un sermone di uno della corte del Pontifex, un suo sottordinato, un’arrettori appunto, vittima di un colpo basso, ad opera di irriverenti buontemponi, che per darsi alle gozzoviglie e ai divertimenti avevano ideato la più trasgressiva delle “brullas” (burle): far banchetto con le bestie, is pegus, crabas e brebeis, de su vicariu. L’occasione per fare una carrelata giocosa degli uomini e delle donne in vista del paese. Ora Gramsci vuole parlare degli uomini e delle donne di Ghilarza sul modello de “sa scomuniga“, segno che conosceva bene la comunita’ del paese, ne conosceva pregi e vizi più che difetti e ne voleva parlare scherzosamnte e con ironia. Vuole tornare ad immergersi nella sua comunità, dove ha avuto i primi contati col mondo, segno che in quella comunità, è vissuto bene.
“Poiché ho tanto tempo da perdere, - scrive Nino alla madre - voglio comporre sullo stesso stile un poema dove farò entrare tutti gli illustri personaggi che ho conosciuto da bambino: tiu Remundu Gana con Ganosu e Ganolla, maistru Andriolu e tiu Millanu, tiu Micheli Bobboi Scorza alluttu, Pippetto, Corroncu, Santu Jacu zilighertari ecc. ecc. Mi divertirò molto e poi reciterò il poema ai bambini, fra qualche anno. Penso che adesso il mondo si è incivilito e le scene che abbiamo visto noi da bambini ora non si vedono piú. Ti ricordi quella mendicante di Mogoro che ci ha promesso di venirci a prendere con due cavalli bianchi e due cavalli neri per andare a scoprire il tesoro difeso dalla musca maghedda. Adesso i bambini non credono piú a queste storie e perciò è bene cantarle; se ci trovassimo con Mario potremmo rifare una gara poetica! Mi sono ricordato di tiu Iscorza alluttu, come pudicamente diceva zia Grazia: vive ancora? ti ricordi quanto ci faceva ridere col suo cavallo che aveva la coda solo la domenica? Hai visto quante cose ricordo? Scommetto che sono riuscito a farti ridere”. Certo, ha fatto sorridere la mamma, ed anche noi.
Nelle lettere ai figli racconta favole di passeri, di struzzi e di pappagalli. Quei racconti parlano del mondo paesano di Nino bambino, e sono uno spaccato della sua vita libera e felice.
Parla degli animali, Nino. Narra del riccio in una lettera al figlio Delio del 22 febbraio 1922; racconta un episodio cui assistette durante una scorribanda in campagna con un amichetto, e che ha per protagonista una famiglia di ricci. Nino ci vuole far sapere quanto ingegno hanno i piccoli porcospini a conoscerli da vicino. Ecco il brano, intriso di delicatezza e tenerezza.
“Una sera d’autunno, quando era già buio ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutto, specialmente di meli.
Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due più e grossi e tre piccolini.
In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva il staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben vicine una all’altra.
Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio più grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie.
Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre più spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra.
Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono, con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno”.
Certo il fisico di Nino era debole e deforme, ma la fantasia e la mente si aprivano ad un mondo pieno di significati e di fascino. E siccome lui amava lo studio delle materie insegnate nella scuola, la sua testa era ben più colta di quella dei coetanei “cittadini”. Il corpo era piccolo, ma la testa molto grande. Una dimostrazione? Il tema che scrisse all’esame di licenza nelle elementari. Fra l’altro nella commissione c’era il prof. Raffa Garzia, che poi fu, di lì a qualche anno, un docente importante per Gramsci nel liceo Dettori di Cagliari. L’argomento proposto era questo:
”Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?”
Ghilarza, addì 15 luglio 1903
Carissimo amico,
Poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stia bene di salute.
Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi?
Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna.
Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi.
Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale.
Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per camparti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi.”
Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillantissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare.
Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito.
Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili.
Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.
Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal
Tuo aff.mo amico Antonio
Gramsci aveva bevuto fino in fondo nel dolce calice della lingua materna, il sardo, e ne esaltava tutta la ricchezza. Chi conosce e parla più lingue non solo ha strumenti di comunicazione e di conoscenza più ampi, ma sviluppa una personalità più ricca, chi pensa in sardo enuclea pensieri differente da chi lo fa in italiano. E Gramsci di questa ricchezza era ben consapevole. In una lettera alla sorella Teresina del 26 marzo 1927,si preoccupa della lingua del nipote. “… Franco …in che lingua parla?”, chiede.”Spero che lo lascerete parlare in sardo….il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé…”
Per questo invita la sorella Teresina a lasciar parlare in sardo il figlio Franco, senza dargli dispiaceri a questo proposito. “È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea [nipote, figlia del fratelo Gennaro, Nannaro, ndr], da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini”. Ma perchè questo convincimento? “Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino piú lingue, se è possibile”.
“Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile”; manca tutta la parte riferita al contesto agropastorale in cui vive: botanica, biologia, astrologia e ogni altra evidenza del modo contadino e pastorale. “Egli non avrà osserva Gramsci - contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.
…”Vedi, per esempio, Delio: ha incominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’altra lingua.
Io volevo insegnargli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone» (”lascia i fichi, uccello”), ma specialmente le zie si sono opposte energicamente. Mi sono divertito molto con Delio nell’agosto scorso: siamo stati insieme una settimana al Trafoi, nell’Alto Adige, in una casetta di contadini tedeschi. Delio compiva proprio allora due anni, ma era già molto sviluppato intellettualmente. Cantava con molto vigore una canzone: «Abbasso i frati, abbasso i preti», poi cantava in italiano: «Il sole mio sta in fronte a te» e una canzoncina francese, dove c’entrava un mulino. Era diventato appassionato per la ricerca delle fragole nei boschi e voleva andar sempre dietro agli animali.
Il suo amore per gli animali veniva sfruttato in due modi: per la musica, in quanto si ingegnava a riprodurre sul pianoforte la gamma musicale secondo le voci degli animali, dall’orso baritonale all’acuto del pulcino e per il disegno. Ogni giorno, quando andavo da lui, a Roma, bisognava ripetere tutta la serie: primo bisognava mettere l’orologio a muro sul tavolo e fargli fare tutti i movimenti possibili; poi bisognava scrivere una lettera alla nonna materna con la figura degli animali che lo avevano colpito nella giornata; poi si andava al piano e si faceva la sua musica animalesca, poi si giocava in vario modo”.
Come si vede, Gramsci vuole che il figlio viva in un ambiente simile al suo da bambino, seppure in un contesto diverso. Una conferma che da bambino in paese, non se la passava male. La malattia e poi la carcerazione del padre nel 1900, quando Nino aveva 9 anni, non mutanno questa sensazione, ancorche’ la detenzione del padre avesse lasciato la famiglia senza reddito e tzia Peppina dovette con lavori di cucito e con l’aiuto delle figlie piu’ grandi provvedere alla famiglia. I Gramsci, sotto la guida amorosa e tenace di mamma Peppina, fu molto unita. Il piu’ grande dei fratelli, Gennaro, Nannaro, trovo’ un impiego al catasto, ed anche Nino diede una mano sempre al catasto manovrando registri piu’ grandi di lui. Gli provocavamo anche dolori, ma gli consentivano di portare a casa un chilo di pane al giorno. Dovette interrompere gli studi regolari, ma continuo’ a studiare perche’ a tutto pensava fuorche’ ad abbandonare definitivamente la scuola. E cosi’ quando il padre, scontata la pena, torno’ a casa, Nino fece l’esame di ammissipne e si iscrisse al ginnasio di Santu Lussurgiu, scuola molto scalcinata perche’ priva di docenti all’altezza, ma che consenti’ a Nino di fare e superare l’esame di ammissione al liceo. Si spalancano cosi’ al giovane le porte del liceo Dettori di Cagliari, dove Nannaro gia’ risiedeva.
1 commento
1 Aladin
9 Agosto 2023 - 12:34
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=146407
Lascia un commento