Carbonia. 108 anni di carcere per le avventate accuse di un ex repubblichino: “Uscirono appaiati i nostri compagni. Giganti insieme con Silvio Lecca, Pirastru insieme a Suella e così via. Altri seguivano, tenuti insieme da una lunga catena”. Al cospetto della folla si fermarono un attimo, “poi a testa alta, sorridenti, intonarono Bandiera rossa”

16 Luglio 2023
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Gianna Lai

 

 

Ecco il post domenicale, dal 1° settembre 2019, sulla storia di Carbonia.

A Natale, 25 dicembre 1949, su L’Unità, pagina nazionale, “44 lavoratori condannati per lo sciopero del 14 luglio, 13 assolti. Giganti, Mistroni e Selliti condannati a quattro anni e sei mesi di reclusione e due di arresto, Piloni a quattro anni e un mese di arresto, Lecca a tre anni e tre mesi e due di arresto, Caddeo, Pazzaglia e le donne a due anni e tre mesi e a un anno di arresto. Ledda Luciana a dieci mesi e uno di arresto. Cardella a sei anni e cinque mesi”, Zanetti condannato, Fancello assolto, i due infiltrati che aizzavano la folla e che il servizio d’ordine allontanò dal corteo. Tredici gli imputati scarcerati. L’imputazione principale, devastazione e saccheggio, derubricata “a danneggiamenti aggravati”, per un ammontare complessivo di 600.000 lire. E poi altre condanne ci sarebbero state l’anno successivo, contro i lavoratori di Bacu Abis, sempre in seguito ai fatti del 14 luglio.
Ancora L’Unità il 27 dicembre, “108 anni di carcere per le avventate accuse di un ex repubblichino: C’era una folla di centinaia di persone, venerdì in piazza Eleonora d’Arborea, quando dal portone del Palazzo di Giustizia uscirono i lavoratori di Carbonia. Erano le 20, 45. Poco prima il Presidente Sanna, con voce afona, aveva letto la sentenza che distribuiva 108 anni di carcere ai 62 imputati… Uscirono appaiati i nostri compagni. Giganti insieme con Silvio Lecca, Pirastru insieme a Suella e così via. Altri seguivano, tenuti insieme da una lunga catena. Al cospetto della folla si fermarono un attimo, poi a testa alta, sorridenti, intonarono Bandiera rossa. La folla ammutolì e ammutolirono pure le compagne dei carcerati, fiere di quei loro uomini che sapevano con fermezza accogliere le durissime decisioni della Corte. Si chiude così, con un canto di battaglia, uno dei più oscuri capitoli della storia sarda. Su fragili basi Pirrone ha montato il Processone, -cani latranti, teppaglia-, egli ha definito nei verbali i lavoratori di Carbonia. Ha parlato di rivoluzioni, di repubbliche comuniste, di terrore, di odio. Ha sragionato, come al solito, ha sputato veleno. La Corte invece di ridere in faccia al questore republichino di Salò, ha accolto, confermandole, le sue tesi”.
E poi, vuole ancora riassumere il cronista, per Selliti fu riferita la parola “piombo”, per Lecca la parola “vendetta”. In via Lazio l’episodio che dette il via al processo, l’invasione della sede del Msi, dove volarono alcune casse “dall’attiguo negozio di proprietà del missino Multineddu”. E poi dinnazi alla sede delle Acli e dell’Azione cattolica e del Psli, per un totale di 600.000 lire di danni”, tali riconosciuti dalla Corte di Assise. I lavoratori della miniera e i loro dirigenti trattati come delinquenti comuni, prosegue l’articolo, azzerata la rappresentanza politica e sindacale in città come già in parte, era avvenuto dopo i “fatti Rostand”, nel gennaio del 1947. E’ Tonino Perria il giornalista che scrive del Sulcis, ancora su L’Unità del 29 dicembre : “Una montatura preparata da Pirrone, cacciato da Carbonia per iniziativa dello stesso ministro, cani latranti chiamava i comunisti, i dimostranti odiosa teppaglia, tutta tesa a commettere omicidi ed ogni altro delitto”. Così Pirrone al giornalista indipendente di un settimanale a rotocalco, “questa teppaglia deve scomparire”: Pirrone, conclude l’inviato, “convinse un certo numero di ex fascisti a sporgere denuncia”, contro lavoratori e dirigenti del movimento, attribuendo loro “i più nefandi delitti.
Dalla parte di Pirrone il questore, nella Relazione di dicembre, la condanna vero monito per il futuro a svolgere significativa azione educativa: “Il recente processo di Oristano, nel quale la Corte d’Assise infliggeva condanne da 6 mesi a 6 anni agli autori dei disordini del 14 luglio, deve essere motivo di remora per gli sconsigliati che, in determinate contingenze, si abbandonano a sfrenatezze, specie nell’ambiente minerario”; presso il quale, “sintomi di disordine, fanno tener desta l’attenzione della polizia, anche adesso che è in corso una agitazione contro i licenziamenti. E, come al solito, si minacciano scioperi se non si raggiungono gli obiettivi voluti dalla Camera del lavoro”. Intenzione particolarmente abietta, quella agitata alla luce del sole nei documenti del sindacato, ovvero la richiesta di regolare pagamento del salario mensile per i minatori, nei confronti della recalcitrante azienda SMCS, sempre in ritardo su questo fronte.
Ma certo il secondo processo di Oristano chiude una delle pagine più oscure della storia sarda di quegli anni, il movimento operaio privato di tanti fra i suoi quadri migliori, determinanti per lo stesso contesto isolano. Insieme alle manifestazioni di protesta contro le sentenze, nasce il Comitato di solidarietà, nell’ambito dello stesso Soccorso Rosso cittadino, per “le vittime della politica di Scelba”, e per le famiglie dei carcerati.
Così il sindaco Renato Mistroni, durante la sua intervista, già citata, del 22 giugno 1988, “in quei giorni alla macchia nella Penisola con Selliti, “eravamo partiti da Cagliari il 10 ottobre, trattenendoci ancora in Italia sotto falso nome, poi espatriammo dopo la sentenza del Tribunale di Oristano: il Pubblico ministero aveva chiesto per me 17 anni di carcere, mi diedero 6 anni e 6 mesi, 5 anni e mezzo a Selliti, sovversione dell’ordine pubblico e altri delitti comuni, il capo d’accusa. Ci trasferimmo in Cecoslovacchia, Oggi in Italia, settore emigrazione, la trasmissione curata da Selliti, giornalista a Radio Praga, lui di nuovo esule, antifascista che aveva fatto il lavoro clandestino in Francia negli anni Trenta, mentre io svolgevo, sempre a Praga, il lavoro di formazione dei quadri, presso la Scuola di Partito. Rientrai in Italia nel 1954, clandestino per 2 anni fino al 1956, quando fui arrestato e, grazie al condono, scontai solo un anno e mezzo di carcere. Partito di massa il Pci, conclude Mistroni, i quadri crescevano direttamente dentro il movimento e i dirigenti, formati nella lotta, erano esposti ai rischi della repressione esattamente come gli operai, subendo licenziamenti e galera: un vero processo di identificazione tra noi e i lavoratori, fiducia e fraterna intesa anche nei momenti più difficili”.

E sconta 4 anni di carcere Umberto Giganti, futuro sindaco di Carbonia, il Pm ne aveva chiesto 19, in quel contesto del 14 luglio che, come scrive Giovanni De Luna, vide “92.000 persone fermate, 70.000 rinviate in giudizio”, e Giorgio Candeloro, “15.429 comunisti condannati a pene varie”. Così Togliatti sulla durezza di De Gasperi, nei confronti di quei condannati, “De Gasperi… combattè contro di noi senza esclusione di colpi, rigettando qualsiasi senso di umanità. Dopo il 14 luglio, non ebbe né una parola né un gesto di umana comprensione per i lavoratori in cui spontaneamente era esplosa una giusta indignazione. Volle che fossero persino esclusi dalla scarna amnistia del 1953” in Paolo Spriano, Le passioni di un decenni.

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