2 Giugno. Quella parata contro la Repubblica 

5 Giugno 2023
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Nell’imminenza del 2 giugno, festa della Repubblica, è stato scritto l’articolo di Domenico Gallo, che riassume il senso dell’involuzione in atto, confermata poi dalle celebrazioni ufficiali. Molti anni prima Lellio Basso, autorevole, costituente aveva inviato al Ministro della difesa una riflessione sulla deformazione della Festa della Repubblica ancora attuale. 

Ecco i due scritti.

Domenico Gallo

Povera patria/ Schiacciata dagli abusi del potere/di gente infame, che non sa cos’è il pudore. Tra i governanti/ Quanti perfetti e inutili buffoni…

I versi struggenti di Franco Battiato sono la colonna sonora che ci restituisce la migliore rappresentazione del tempo in cui siamo immersi. Anche quest’anno verrà il 2 giugno, anche quest’anno ci sarà la tradizionale parata, i reparti con la bandiera italiana sfileranno dinanzi al palco della autorità, mentre le frecce tricolori sfrecceranno sul cielo della capitale. Mai come questa volta la festa della Repubblica sarà l’occasione di una celebrazione solo apparente. Nei suoi settantasette anni di vita la Repubblica ha attraversato vicende tempestose, è stata esposta alle minacce del tintinnar di sciabole, si è presentata ferita, con il volto insanguinato per le stragi del terrorismo e delle mafie, è stata rappresentata da ceti dirigenti mediocri, ma non era mai accaduto che la Repubblica venisse celebrata da un ceto politico che trae origine da una cultura che ha vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come il frutto di una sua sconfitta storica. Una sconfitta che adesso ha la possibilità di rovesciare, recuperando dalla pattumiera della Storia, gli spiriti selvaggi che avevano agitato la prima metà del secolo scorso. Un  ceto politico che, mettendo mano agli strumenti della comunicazione pubblica, ha lasciato intravedere l’ambizione di cambiare la narrazione del popolo italiano e di sostituire i valori che sorreggono l’edificio della Repubblica con i disvalori che hanno informato la vita pubblica prima della nascita della Repubblica, a cominciare dallo slogan Dio, Patria e Famiglia, coniato nel 1930 dal Segretario del PNF, Giovanni Giurati, per nascondere, dietro un velo ideologico la realtà concreta del fascismo. Da qui il recupero del concetto di nazione, declinato come sangue e suolo “Blut und Boden”, per marcare una linea di frattura rispetto all’universalità dei diritti dell’uomo, come scolpita nell’art. 2 della Costituzione e nella Dichiarazione universale del 48, una linea di frattura che consente misure discriminatorie nei confronti della popolazione degli immigrati e di tutti i soggetti identificati come “altri” rispetto alla nazione, intesa come “etnia”.
Passando dalla nazione all’etnia, viene corrotto anche il concetto di Patria: la Patria come arroccamento sovranista di Patrie l’un contro l’altra armate. Tutto ciò rende sempre attuale la lezione di Don Milani che nel 1965 (L’obbedienza non è più una virtù) scriveva: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se però voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri.”
Occorrerà spiegare a questo nuovo ceto politico ignorante che, con l’avvento della Costituzione, il concetto di Patria è cambiato radicalmente. La Patria non si può più identificare in un “etnia”, fondata su suolo e sangue. La Patria è il patrimonio dei padri. Nella Repubblica democratica la Patria si identifica con il patrimonio che ci hanno lasciato i padri costituenti. La Patria del popolo italiano sono le istituzioni democratiche, non separabili dai valori fondamentali dell’ordinamento: l’eguaglianza, la libertà, la Pace e la giustizia. Nella Patria italiana c’è il ripudio della guerra, il pluralismo, la laicità e l’universalità dei diritti umani. I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco alle zattere dei migranti, ma sono coloro che nelle istituzioni e nella società civile, con ruoli diversi, ogni giorno testimoniano la cura per gli altri, l’impegno per il bene pubblico, il rifiuto della discriminazione e del linguaggio d’odio.
Sotto il profilo politico, i Patrioti sono tutti coloro che si impegnano nella resistenza costituzionale per sviluppare e dare attuazione ai beni pubblici repubblicani che la Costituzione ha consegnato al popolo italiano e per impedire lo sfascio dell’unità della Repubblica attraverso l’autonomia differenziata o la concentrazione autoritaria dei poteri attraverso le riforme della forma di governo.
Bisogna riscoprire il significato profondo della festa della Repubblica per evitare che qualcuno possa fare la festa alla Repubblica.

 [Questa è la lettera che Lelio Basso – uno dei padri della Costituzione italiana - scrisse all’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani che decise di sospendere la parata militare del 2 giugno 1976 dopo il terremoto che sconvolse il Friuli.]

Sono personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.

Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare. Che lo si facesse per la festa nazionale del 4 novembre aveva ancora un senso: il 4 novembre era la data di una battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima guerra mondiale. Ma il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?

C’era in quella parata una sopravvivenza del passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2 giugno riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era comunque cercato nel passato l’inno nazionale di una repubblica che avrebbe dovuto essere tutta tesa verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere l’annuncio di un nuovo giorno, di una nuova era della storia nazionale. Io non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i sentimenti patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che, essendo nato un secolo prima, in circostanze del tutto diverse, non aveva e non poteva avere nulla che esprimesse lo spirito di profondo rinnovamento democratico che animava il popolo italiano e che aveva dato vita alla Repubblica.

La Costituzione repubblicana, figlia precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.

Una repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che, all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.

Repubblica democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?

Infine, non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze armate, ha gettato nel precipizio?

Vorrei che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.

Lelio Basso

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