Gianfranco Sabattini
Il Prof. G. Sabattini interviene nel dibattito sulla sinistra e sul socialismo.
Un articolo di Andrea Pubusa apparso sul blog il 16 di giugno dal titolo “La sinistra o è alternativa o non è (e crolla)” si inserisce nel dibattito sorto dopo che il “vento della crisi dell’economia mondiale” ha “spazzato via la sinistra europea”. Il dibattito in corso non aggiunge nulla a quanto già si sapeva dei motivi di crisi delle socialdemocrazie di governo; l’aspetto di esso, di gran lunga più interessante, è invece costituito dalla ripresa dei “motivi teorici” della crisi del socialismo riformista come filosofia sociale e politica. L’articolo di Pubusa, però, sembra cogliere il punto di vista di una sinistra radicale, la quale, pur configurandosi come una delle tante correnti all’interno del movimento socialista, si è estinta per implosione dopo la fine degli anni Ottanta, a seguito del crollo del sistema nel quale essa si era identificata. Con i “rifiuti della storia”, non vale la pena di perdere tempo, in quanto da essi è del tutto improbabile ricavare suggerimenti utili per ripensare l’orizzonte teorico e politico del socialismo riformista; compito questo reso indifferibile, non solo dalle sconfitte elettorali recenti, patite da tutti i partiti socialisti riformisti europei, ma anche e soprattutto dal fatto che, se il socialismo radicale è morto dopo settant’anni dalla sua affermazione, il socialismo riformista, invece, era morto dieci anni prima, con la fine degli anni Settanta, a seguito del pieno raggiungimento del suo disegno welfarista.
Non è casuale, quindi, che il socialismo riformista, completamente spiazzato dal raggiungimento del suo scopo, sia a livello internazionale, che nella cura dei problemi interni di ogni singolo paese, abbia aderito “quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli”. Perché è accaduto tutto questo? Innanzitutto, perché i partiti della destra hanno smesso di richiamarsi al “laissez-faire” liberista, per adottare posizioni garantiste delle identità nazionali contro gli esiti della globalizzazione; in secondo luogo, perché, a fronte del rallentamento dei processi di accumulazione interna, hanno adottato politiche del lavoro fondate su una precarizzazione generalizzata e politiche ridistributive finalizzate al contenimento dei livelli di povertà e non alla loro totale rimozione. I partiti socialisti riformisti (di ispirazione marxista, di ispirazione cristiana e di altra ispirazione), a fronte delle politiche attuate coerentemente dai partiti della destra, si sono presentati divisi, sulla difensiva, senza un progetto proprio e non in sintonia con i cambiamenti intervenuti nel funzionamento dei sistemi sociali moderni.
D’altra parte, quando hanno tentato di non restare immobili, i partiti socialisti riformisti hanno mostrato la propensione a leggere il presente con gli occhi rivolti al passato, mancando in tal modo di cogliere la complessità della crisi attuale, le cui cause datano dal momento in cui hanno perso ogni incisività nella soluzione dei problemi economici e sociali per aver “raggiunto il loro scopo”. Le cause della crisi attuale sono imputabili al consolidamento di una crescente disoccupazione strutturale irreversibile, alla generalizzazione delle sperequazioni sociali, all’aumento della povertà (che affligge non solo coloro che vivono al di sotto della cosiddetta “soglia di povertà”, ma anche tutti coloro che si trovano in uno stato di precarietà occupazionale e reddituale) ed all’affievolimento, a causa del processo di internazionalizzazione delle economie nazionali, dello strumento istituzionale, lo Stato, col quale alla fine degli anni Settanta del XIX secolo era stato possibile realizzare un “capitalismo socialdemocratico”. Un capitalismo cioè che “aveva interiorizzato elementi di una regolazione socialista dell’economia e della società”, destinato a “rassomigliare sempre più a una grande macchina burocratica e spersonalizzata, senza nemmeno l’eco dell’individualismo anarchico che l’aveva chiamato in vita”. Un capitalismo, in altre parole, la cui regolazione socialista tradiva il convincimento che con esso fosse stato possibile assicurare ad un tempo alti livelli di libertà, di eguaglianza e di solidarietà; ciò, perché l’invasività dello “Stato sociale”, sacrificando la libertà individuale e con essa anche l’efficienza economica, ha reso impossibile il perseguimento razionale di qualsiasi forma di giustizia sociale.
Si deve allora concludere che il socialismo riformista si è ormai svuotato di ogni significato e valenza politici? Si deve considerare residuale la sua espressione formale perché ormai divenuta del tutto inattuale? Al presente, considerate le difficoltà riscontrate nel funzionamento del “capitalismo socialdemocratico” la risposta non può che essere affermativa. Il socialismo riformista si è affermato quando il capitalismo si era imposto come forza egemone tra tutte le possibili forme alternative di produzione e di regolazione dei rapporti tra le forze di produzione. Ciononostante, il socialismo riformista, con la forza della sua ideologia e della sua strategia politica, era riuscito a “mutare la ratio” del capitalismo, “apportandone una correzione che lo civilizzava e lo adeguava al sistema sociale”, pur senza determinare un ribaltamento dei meccanismi economici dominanti. I partiti socialisti di allora avevano tutti creduto nella possibilità di realizzare un assetto del sistema sociale che non fosse affatto egemonizzato dal capitalismo, mentre il socialismo riformista dopo la fine degli anni Settanta del secolo scorso ha scelto di cessare ogni riferimento al socialismo riformista dell’origine per trovare nella rivitalizzazione del capitalismo internazionale, col rifiuto del paradigma keynesiano che aveva ispirato la politica riformatrice del passato, la sua nuova ragion d’essere. La “terza via” all’interno della quale il socialismo riformista ha inteso rivitalizzare il capitalismo si è sviluppata del tutto al di fuori del paradigma keynesiano, privilegiando il linguaggio dell’efficienza economica, a scapito della giustizia sociale e della libertà individuale che la piana realizzazione del welfare avrebbe dovuto consentire di consolidare e di generalizzare. E’ andata così sino a quando è stato possibile. Fino a quando, cioè, la crisi dei mercati finanziari ha rivelato la fragilità della tenuta di un “capitalismo socialdemocratico mondializzato”, con la scoperta di una società molto più ricca di aspirazioni individuali di quella in cui erano sorti gli istituti storici della socialdemocrazia; aspirazioni, queste, che hanno determinato l’istanza di una giustizia sociale che non fosse più demandata all’azione burocratica e centralizzata dello Stato, ma all’attuazione di una politica economica e sociale che fosse in grado di rilanciare il processo di accumulazione, di ridefinire le garanzie individuali e collettive e di rimuovere la povertà dal sistema sociale.
Che fare? Come è possibile ricuperare la forza dell’idea del socialismo riformista con cui rilanciare la crescita e lo sviluppo dei sistemi sociali con la guida dei vecchi partiti di “nobile lignaggio” trovatisi completamente spiazzati dal compimento del loro stesso scopo? La risposta alle due domande presuppone, l’elaborazione di una “nuova ideologia” che ponga al centro dell’azione politica: intanto, il perseguimento graduale di forme di governo sempre più estese della globalizzazione, per ridurre ed eliminare gli squilibri tra paesi poveri e paesi ricchi e per contenere gli esiti negativi del “caos sistemico” causato dal “turbocapitalismo” sull’ordine e la stabilità di funzionamento delle strutture organizzative degli stati-nazione e delle singole economie nazionali; in secondo luogo, la rinuncia a perseguire, come nel passato, il pieno impiego della forza lavoro, divenuto impossibile per via delle condizioni di operatività dei moderni sistemi economici; in terzo luogo, l’eliminazione della povertà, non attraverso politiche ridistributive, ma attraverso una radicale riforma dell’attuale struttura del welfare state centralizzato e burocratizzato, con l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza erogato a tutti i residenti attraverso il riorientamento delle risorse pubbliche oggi utilizzate per il finanziamento della previdenza e dell’assistenza pubbliche; in quarto luogo, la mobilitazione dell’iniziativa individuale e collettiva, resa possibile, da un lato, dal potenziamento di tutte le forme di partecipazione ai processi decisionali pubblici e, dall’altro, dall’orientamento dell’impegno dello Stato non più verso una politica ridistributiva, spesso all’origine di ineguaglianze, di ingiustizie e di comportamenti criminali, ma verso la predisposizione di tutto quanto è necessario perché i cittadini possano, mediante la realizzazione piena dei loro progetti di vita (in ciò facilitati dall’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza), contribuire alla rivitalizzazione dei sistemi economici moderni.
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