Referendum: i paradossi del quorum

2 Luglio 2009
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Bruno Troisi

Con questo articolo inizia la collaborazione con Democraziaoggi il prof. Bruno Troisi, ordinario di Istituzioni di Diritto Privato nella Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, autorevole giurista, ma anche attento e acuto osservatore delle dinamiche politico-istituzionali.

Com’è noto, affinché sia approvata la proposta di abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge mediante referendum, è necessario non soltanto che quella proposta ottenga la maggioranza dei voti validamente espressi (ad esclusione, cioè, delle schede bianche e di quelle nulle), ma anche che alla votazione partecipi la maggioranza assoluta degli aventi diritto# (art. 75 Cost.). La ragione della previsione del quorum, come risulta dai lavori preparatori, risiede nel timore che una minoranza anche esigua di cittadini possa pervenire all’abrogazione di una legge, approfittando della possibile inerzia della maggioranza degli aventi diritto.
Sennonché, la progressiva crescita dell’astensionismo strutturale e, soprattutto, l’invito sistematico – da parte ora dell’uno ora dell’altro schieramento politico, secondo convenienza - a disertare le urne hanno profondamente alterato la funzione di quella previsione a tal punto da svuotare di contenuto lo stesso istituto del referendum, determinando una gravissima distorsione della logica democratica. Accade, infatti, che una minoranza, anche modesta, che inviti più o meno apertamente ad astenersi è in grado di imporsi matematicamente, sol che disponga di poco più del 20% di consensi, perché può sommarsi, nello stesso tempo che la fomenta, alla crescente disaffezione di molti cittadini alla res publica. E’ questo il paradosso del quorum: i cittadini che non votano contano di più di quelli che votano. In nessuna democrazia liberale esiste una norma corrispondente al 4° comma dell’art. 75 della Costituzione, che stabilisce che l’esito del referendum è valido se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto.
Invero, il costituente, proprio perché ha solennemente affermato che la sovranità appartiene al popolo (art.1 comma 2) sancendo il diritto di tutti i cittadini all’effettiva partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2), ha configurato il referendum come uno strumento di partecipazione, dando contestualmente un giudizio negativo sulla “non partecipazione”, posto che la partecipazione è il fondamento della democrazia. Ciò si evince anche dall’art. 48 Cost. che, com’è noto, stabilisce che “Il voto è personale ed uguale, libero e segreto” e che “Il suo esercizio è dovere civico”, perché connesso allo status di cittadino. Certo, nessuno può pensare di costringere i cittadini a recarsi alle urne sotto la minaccia di sanzioni: l’esercizio di quel diritto-dovere è affidato alla coscienza e all’impegno di ciascuno. Ma un conto è convenire sul fatto che la partecipazione al voto è rimessa alla sensibilità democratica dei cittadini, altro è consentire che autorevoli esponenti di partiti politici o addirittura persone investite di cariche istituzionali possano invitare a disertare le urne, intaccando così nella coscienza collettiva la fedeltà ai valori democratici.
L’invito a disertare le urne rappresenta, poi, una palese violazione della regola di correttezza costituzionale: il principio del quorum è stato inserito nella Costituzione per impedire che una piccola minoranza utilizzasse il referendum per aggirare la regola democratica della maggioranza, non per consentire a una minoranza di far prevalere le sue tesi sommando i suoi voti a quelli di coloro che, fisiologicamente, si astengono dal votare. Si tratta di un uso sleale, abusivo e dunque scorretto dell’istituto del quorum, utilizzato impropriamente come un’arma in più per far fallire il referendum e conservare la legge oggetto di richiesta abrogativa. Il fatto che la norma costituzionale preveda e disciplini il quorum non significa, come taluni pretendono, che sia legittimo l’invito ad astenersi dal voto per impedirne il raggiungimento, per la semplice considerazione che tale invito si pone, in concreto, in contrasto con i fini sostanziali che la norma stessa si prefigge e con gli stessi principi generali dell’ordinamento (segnatamente, con il principio di democraticità, che si specifica nel principio di partecipazione e in quello maggioritario). Si tratta, insomma di un comportamento che solo apparentemente si presenta come corrispondente al contenuto formale di una norma, ma al quale non si accompagna la congruità sostanziale con i fini che quella norma intendeva perseguire. Si tratta, insomma, come diceva Bobbio, di un “espediente” di “un trucco” che rischia di condurre alla distruzione del referendum, “gemma della nostra Costituzione”.
Né appare convincente l’affermazione secondo cui la propaganda per l’astensione, a differenza di quella per il “no”, avrebbe di mira non tanto il merito (per il quale soltanto sarebbero predicabili le ragioni del “sì” e quelle del “no”) della questione sottoposta alla consultazione referendaria, quanto piuttosto l’utilità, l’opportunità ovvero la ragionevolezza stessa del referendum. Infatti, le richieste referendarie sono sottoposte, istituzionalmente, a un duplice ordine di controlli: uno di legittimità da parte della Corte di Cassazione, e uno di ammissibilità da parte della Corte costituzionale (sia con riferimento al contenuto della richiesta sia con riferimento alla struttura formale dei quesiti referendari, che devono essere enunciati in maniera inequivocabilmente dilemmatica, in coerenza con la logica binaria del referendum). Orbene, se così stanno le cose, non si vede quali ulteriori valutazioni in termini di utilità, opportunità o altro debbano – e, soprattutto, possano – essere operate dalla classe politica, la quale non può certo “correggere” le decisioni prese dalla Corte di Cassazione e dalla Corte costituzionale.
Ma l’invito a disertare le urne, oltre che criticabile sul piano della correttezza costituzionale, viola gravemente il principio fondamentale della libertà e segretezza del voto (art. 48, comma 2 Cost.), introducendo una forma surrettizia di coazione e di controllo nella formazione della volontà popolare: chi non seguisse l’invito e si recasse alle urne verrebbe automaticamente identificato e ritenuto un sostenitore del “sì”, come favorevole all’abrogazione. Libertà e segretezza del voto sono il presupposto della democrazia; se venissero meno, le consultazioni popolari diventerebbero una farsa, come nei regimi autoritari.
Tanto più che il principio costituzionale di democraticità di cui all’art. 49 impone il dovere per i responsabili delle organizzazioni partitiche di osservare le regole di una corretta dialettica politica (la norma discorre di rispetto del “metodo democratico”). Ne consegue che, nel referendum popolare, i partiti politici non devono ostacolare l’esercizio del diritto di libera espressione del voto e il legittimo confronto delle posizioni che si esprimono nel processo di decisione popolare.
Anche in considerazione del fatto che il referendum, oltre che una importante funzione legislativa (esso è, infatti, annoverato tra le fonti primarie), svolge una fondamentale funzione di controllo, e perciò rappresenta una concreta possibilità di porre rimedio al grave scollamento, da più parti avvertito, tra volontà popolare e volontà dei rappresentanti. Invero, il popolo – sovrano - che si serve del referendum è anche “il potere costituente in azione”, giacché con il referendum, così come con gli altri istituti di democrazia diretta, “il principe” si riprende “lo scettro” affidato agli organi rappresentativi.
Alla luce di queste considerazioni e stante la perdurante, generalizzata strategia dell’astensione, l’unico rimedio è quello dell’abolizione del quorum strutturale e, parallelamente, della fissazione di una quota più elevata di elettori per la richiesta del referendum#, a garanzia della serietà della richiesta referendaria e della rilevanza sociale della questione, rendendo lo strumento referendario ancor più adeguato alla funzione di indirizzo. Dal punto di vista pratico, poi, tale riforma potrebbe sortire l’ulteriore effetto di costringere tutte le forze politiche ad abbandonare gli atteggiamenti di ambiguità: la consapevolezza che la consultazione popolare darebbe comunque un risultato utile indurrebbe i partiti a prendere posizione dinanzi all’elettorato e ad informarlo adeguatamente#, invitandolo a confrontarsi con l’alternativa. Ed ecco l’altro paradosso: l’abolizione del quorum consentirà agevolmente il raggiungimento di quello stesso quorum che l’auspicata riforma dovrebbe eliminare.

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