Cinismo e sofisticherie

4 Aprile 2023
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Andrea Ermano - ADL

È falso quel che l’attuale premier Meloni ha scritto sulle Fosse Ardeatine. Testualmente: «335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani».
È falso che si trattasse solo di italiani. Falso che siano stati uccisi perché italiani. E dunque sfrontatamente falso anche quanto l’attuale premier ha poi aggiunto ribattendo a chi la contestava: «Le vittime delle Fosse Ardeatine? Li ho definiti italiani, mi sembra storicamente omnicomprensivo: gli antifascisti non erano italiani?»
La risposta a questa domanda, alquanto spudorata, è un doppio No. Un No in generale perché l’antifascismo è stato (ed è tuttora) un fenomeno europeo e mondiale. E un No anche nel caso in questione, perché tra le vittime delle Fosse Ardeatine si contano nove “non italiani”: Boris Landesman, nato a Odessa, commerciante ebreo; Giorgio Leone Blumstein, nato a Leopoli, allora Polonia, oggi Ucraina, banchiere ebreo; Salomone Drucker, nato a Leopoli, commerciante ebreo, membro del Partito socialista polacco; Eric Heinz Tuchman (biografia ignota), Bernard Soike (biografia ignota); Sandor Kereszti, nato a Budapest, giornalista cattolico; Paul Pesach Wald e Schra Wald, nati a Berlino, rifugiati ebrei; Marian Reicher (biografia ignota).
Costoro morirono non per un sussunto “storicamente omnicomprensivo”. Gli spararono un colpo di arma da fuoco alla nuca: questo vale per i “non italiani” come per gli “italiani”. Tutti furono messi sulla lista di morte dai fascisti e uccisi dai nazisti. Almeno 65 furono assassinati per motivi razziali. Oltre a questi si contano 71 comunisti, 65 socialisti o riformisti e 47 appartenenti al Fronte Militare Clandestino o all’Arma dei Carabinieri. Qui sotto abbiamo riportato una lista, terribilmente lunga eppure incompleta, delle vittime. Vi invitiamo a guardarla bene (e a visitare il sito del Mausoleo Fosse Ardeatine).
Tutti quanti avevano un nome, un nome proprio, anche se non di tutti ci è stato tramandato. Ma quanto poco importi alla nostra premier sia delle vittime sia della verità storica emerge in modo evidente sulla base di quel che costei ha dichiarato. Saprà governare il nostro Paese una signora che parla in quel modo lì? Perché a colpi di sofismi cinici si può anche cavalcare un partito postfascista, eventualmente saltare in groppa a una coalizione salvinian-berlusconiana un po’ senescente, e financo arrembare la guida di un esecutivo. Ma possedere capacità intellettuali e morali per governare bene e a lungo è, secondo noi, tutta un’altra sfida. (Al netto, ovviamente, delle allegre “miliardate” per lavori pubblici in deregulation).

Riflettendo agli eccidi perpetratisi in Italia e nelle “colonie” non stupisce che il fondatore del PNF, e poi dell’Impero, sia finito com’è finito a Piazzale Loreto.
Il 27 aprile viene arrestato a Dongo sulle rive del Lago di Como, a cinque chilometri dal confine di Stato, insieme a Clara Petacci (l’amante fascistissima) e a tre gerarchi in fuga come lui. Questi ultimi vengono giustiziati ipso facto. Invece, l’esecuzione del duce e della sua amante ha luogo a Giulino di Mezzegra. È il 28 aprile 1945. Dopodiché i corpi di Mussolini, Petacci, Bombacci, Pavolini e Starace sono trasportati a Milano ed esposti a piazzale Loreto.
Subito accorre una folla inferocita. Qualcuno con il calcio del fucile sfonda il cranio del grande dittatore. Altri gli orinano addosso. A questo punto i partigiani decidono di appenderlo legandolo alle gambe a testa in giù. Decisione che deve, non da ultimo, discendere dalla necessità di sottrarre i cadaveri a quello scempio che segna orribilmente la fine di una guerra sanguinosissima. Non si contano gli strascichi traumatici delle torture subite da molti, degli eventi luttuosi accaduti, delle paure e dei patimenti che hanno colpito tutti – chi più chi meno – durante l’occupazione nazifascista iniziata nell’estate del 1943.
Com’è remota, ormai, quell’estate di due anni prima! Avevano arrestato Mussolini per ordine del generale Badoglio e del re. Condotto all’isola di Ponza, dove lui aveva per altro mandato in confino Pietro Nenni, suo ex amico ai tempi della gioventù socialista, questi ha modo di osservare l’ex duce da lontano:
«Ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un’amicizia che pareva sfidare le tempeste della vita», annota Nenni nel suo diario: «Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di corte, militari e finanziarie, che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi di lui si disfano nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo».
Dopo Ponza il duce viene trasferito sul Gran Sasso. Si sente finito, tenta debolmente di tagliarsi le vene ai polsi. Poi arrivano gli amici tedeschi a liberarlo, su ordine di Hitler. La Wehrmacht ha occupato gran parte della penisola. Mussolini vi fonda allora la Repubblica di Salò e nasce il Partito Fascista Repubblicano che succede al PNF.
Giunti sin qui si capisce, però, perché l’attuale premier desideri così tanto stendere un velo di oblio su una storia così vergognosa. Oggi i meloniani al governo sostengono di non doversi più sottoporre a esami di antifascismo. Bello sarebbe. Ma il Movimento Sociale Italiano (MSI) – dal quale discendono i “Fratelli d’Italia” – nasce direttamente da quella Repubblica di Salò e da quel Partito Fascista Repubblicano.
E fu proprio in territorio fascista che accadde l’eccidio delle Fosse Ardeatine. E furono proprio gli uomini di Mussolini a fornire a Kappler la lunga lista delle vittime designate. Ed è proprio a quella tradizione politico-organizzativa che si richiamava esplicitamente il “defunto” partito missino cui aderì la premier Meloni da ragazzina e nel cui solco è sempre rimasta.
Ché poi così tanto “defunta”, questa tradizione politico-organizzativa non può essere, data la voce ventriloqua che dalle viscere di Fratelli d’Italia (ora a Palazzo Chigi) proclama la nuova alba che albeggia. Sempreché non regredisca in un’oscurità oscurantista che oscureggia.

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