Lorella Villa – CIDI Cagliari
Mi accade sempre, quando parlo e ascolto pedagogisti e colleghi parlare di valutazione degli apprendimenti che si cerchi di dissodare da anni la stessa dura zolla di terra senza capire perché non riesca a dare frutto.
Quello della valutazione è un tema centrale che innerva molto del pensiero pedagogico e dell’agire didattico da sempre e certamente non solo in Italia.
L’ultima frontiera del dibattito si è incentrata sull’introduzione del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 6 giugno 2020, n. 41 che prevede la valutazione periodica e finale degli apprendimenti delle alunne e degli alunni delle classi della scuola primaria espressa attraverso un giudizio descrittivo, riportato nel Documento di valutazione e riferito a differenti livelli di apprendimento. Molte le incertezze, le perplessità e i problemi che questo cambio di passo ha sollevato. Non ultimo il problema della diversità delle valutazioni negli istituti comprensivi di scuola primaria e scuola secondaria di primo grado. Nel frattempo la valutazione “descrittiva” si sta facendo strada in molte scuole, sostenuta da pedagogisti e docenti che le riconoscono su basi scientifiche una maggiore valenza formativa. Ma il fronte dei sostenitori del voto numerico è molto tenace.
Guardando da un’altra prospettiva - diciamo da una prospettiva teleologica se non etica - mi chiedo se il problema non stia nella sproporzionata importanza data alla valutazione. Dirò provocatoriamente di più: il problema è forse aver dato troppa enfasi all’apprendimento del quale la valutazione è l’espressione più evidente per tutti gli attori in ballo: insegnanti, discenti, famiglie, istituzioni scolastiche fino agli istituti nazionali preposti al suo monitoraggio.
Un’enfasi che spesso ha fatto volgere lo sguardo di chi insegna da quella che dovrebbe essere la vera domanda-guida del suo agire: che senso ha per me l’insegnamento e quindi la valutazione che ne costituisce una parte tanto importante? Questa domanda se elevata alla potenza delle politiche scolastiche potrebbe tradursi così: che senso ha l’educazione? Che tipo di scuola vogliamo per il presente e il futuro del Paese?
La risposta a questa domanda per me (non ho dati né evidenze scientifiche da portare a supporto del mio ragionamento) negli ultimi anni è stata ottenere dalla scuola pubblica, a fronte degli investimenti, risultati da misurare su una scala di valore (voti, rubriche di valutazione, descrizioni, schemi, narrazioni non sono molto dissimili se usati con lo stesso intento: misurare). La logica del controllo dei risultati tipica di una scuola che ha sussunto dai modelli economici neoliberisti - per i quali niente ha valore se non si può misurare - ha prodotto quest’enfasi eccessiva sull’apprendimento e sulla sua valutazione.
A tutto discapito dell’insegnamento.
Non a caso tutto il lessico (e le parole, lo sappiamo, non sono un dettaglio) utilizzato nella scuola è stato veicolato da quello dell’azienda: a cominciare proprio dalle parole usate per la valutazione: competenza e valutazione formativa, solo per fare un esempio.
Non c’è stata mi pare la necessaria ridefinizione di questo lessico (e quindi delle prassi didattiche delle quali queste parole sono lo specchio) secondo direzioni coerenti con la specificità della scuola, il cui senso ultimo è lontano da quello del mondo produttivo.
Il timore che già nel 2010 veniva espresso da Baldacci1 che attraverso questo paradigma si eserciti una pressione di tipo utilitaristico che impone all’istruzione il compito “di sviluppare il capitale intellettuale necessario per i paesi produttivi tecnologicamente avanzati” si è tragicamente realizzato. I curricoli disciplinari sono stati così nel tempo integrati con percorsi formativi atti a sviluppare competenze trasversali, oggi comunemente chiamate soft skills, anche attraverso i PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento).
Ogni aspetto della didattica si è adeguato a questa nuova pedagogia economico-sociale: strumenti, strategie, discipline (il tempo per queste ultime intese in senso tradizionale come saperi, si è, tra l’altro, drasticamente ridotto nella scuola secondaria di secondo grado).
La logica del controllo è diversa da quella della scuola degli Anni Cinquanta (in tutto simile a quella fascista dalla quale ha ereditato la filosofia classista) ma è pur sempre una logica del controllo. Adesso quello che si vuole monitorare, misurare e quindi controllare è il profitto.
È l’arida scuola descritta da Gramsci nel 1916, “incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere” 2, oggi divenuta scuola di massa pensata per la matrice economicista del mercato, del ‘realismo capitalista”3.
Le competenze richieste ai nostri studenti fin dalla primaria sono sempre più centrate su un saper fare tecnicistico, tutto volto all’immediatezza del problem solving da sviluppare con “compiti di realtà”. A discapito di qualità specifiche dell’umano come l’astrazione, la speculazione, la logica le sole a poter “umanizzare la vita” (Francoise Dolto).
Un’altra scuola è possibile?
Un’amica e collega con la quale avevo condiviso qualche tempo fa queste considerazioni mi ha fatto dono di un libro che si è rivelato un’epifania. In fondo, siamo tutti un po’ inclini a recepire di buon grado delle idee che già soggiornano nel nostro pensiero sia pure in forma latente e confusa.
In questo saggio del 2022, il filosofo dell’educazione Gert Biesta4, capovolge il paradigma imperante e provocatoriamente ci invita a liberare l’insegnamento dall’apprendimento.
Le sue riflessioni sono politicamente e pedagogicamente importanti.
L’obiettivo del filosofo è rivalutare l’insegnamento e gli insegnanti, per una decisa correzione di quella che chiama «learnification dell’istruzione». Arriva addirittura a esprimere un paradosso che può sembrare eretico: «l’insegnamento non deve necessariamente mirare all’apprendimento»5. A ben vedere però se quest’idea ci appare sovversiva – a me a tutta prima a fatto fare un salto sulla sedia - forse dipende proprio dal fatto che la “svolta verso l’apprendimento a scapito dell’educazione”, è ormai diventata senso comune.
È certo che la politica globale dell’istruzione (Banca mondiale, Ocse-Pisa, Unione europea, Ofsted, Invalsi, …) cammina ormai su due sole gambe – dati e governance – e ha un solo obiettivo: migliorare i risultati di apprendimento degli studenti, intervenendo sulla qualità dei sistemi scolastici. Siamo ormai tutti long life learners.
Naturalmente non si nega che l’insegnante debba anche preparare lo studente. Ma il linguaggio dell’apprendimento opera come un’ideologia, rendendo visibili soltanto alcune dimensioni dell’educazione e nascondendone altre: la qualità dei sistemi di istruzione e i risultati degli apprendimenti sono intesi esclusivamente in termini di efficacia. E lo scopo centrale dell’educazione è diventata una sbiadita quinta sullo sfondo.
Non so se Biesta abbia ragione, ma mentre leggevo il suo libro ho provato un profondo senso di sollievo, anzi di liberazione: come aver sollevato lo sguardo dalla punta dei piedi verso l’orizzonte.
Intanto perché posso pensare il mio agire a scuola non finalizzato al raggiungimento di standard di apprendimento prefissati. Devo progettare certo e anche valutare ma devo arrendermi anche alle logiche del caso, inteso nel senso greco di kairòs, occasione: non tutto nel processo di insegnamento e apprendimento si può prevedere e quindi misurare perché quando si “maneggia” l’umano, ci deve essere una zona “lasca” ove la soggettività si possa esprimere. E forse non è neanche giusto che sia io a decidere per lo studente quali dei suoi desideri siano desiderabili perché fintanto che lo farò, questi rimarranno oggetti solo delle mie intenzioni o delle mie attività d’insegnante.
Il compito dell’insegnante per Biesta dovrebbe tendere a suscitare il desiderio di essere “adulti”, di vivere nel mondo e con il mondo in modo adulto, non puerile (dove per puerile non si intende denigrare il mondo interiore dei bambini ma quello di qualsiasi essere umano che abbia un approccio al mondo volto al solo soddisfacimento dei propri impulsi e dei propri desideri).
Non abbiamo bisogno di pedagogie ritagliate sul singolo studente, pedagogie egotiche, ma di pedagogie che mettano in contatto lo studente con il mondo.
Un mondo che dovrà affrontare sfide a livello globale come la crisi climatica, la crescita e quindi l’invecchiamento e l’impoverimento della popolazione mondiale, la pace. Un’educazione democratica del futuro dovrebbe raccogliere queste sfide a partire dal riconoscimento del ruolo fondamentale che la scuola e quindi l’educazione riveste nel cercare le soluzioni migliori per tutti. Non per un solo individuo, non per un solo Paese e neanche per un solo continente.
1 commento
1 Aladinpensiero
14 Marzo 2023 - 04:31
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=141614
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