Dove sono finiti i comunisti?

28 Giugno 2009
3 Commenti


Gianluca Scroccu

Roma, 19 novembre 1989. Sin dalla mattina iniziano a formarsi capannelli di militanti sotto la sede del Pci, in via delle Botteghe Oscure. Arrivano da diverse parti d’Italia a gridare ai massimi dirigenti del loro Partito, quello con la P maiuscola, che loro quel nome non lo vogliono cambiare, nemmeno dopo il crollo del Muro di Berlino.
Per i massimi esponenti del PCI che arrivano al mitico “Bottegone” ci sono contumelie o applausi a seconda delle loro dichiarazioni circa il cambiamento appena annunciato da Occhetto. Colpisce in particolare l’accoglienza non proprio tenera riservata da un iscritto a Nilde Jotti: “A Nildeee! T’ha fatto magnà questo partito comunista, e mo je volti le spalle???? T’ha fatto magnàààààà!”
È uno degli episodi della storia della fine del Pci nel biennio 1989-91 ricostruiti da Luca Telese, notista politico de “Il Giornale” e conduttore del programma “Tetris” su La7, nel suo bel libro Qualcuno era comunista. Dalla caduta del Muro alla fine del PCI: come i comunisti italiani sono diventati ex e post (Sperling&Kupfer, pp.743, € 22,00). A metà tra un saggio e un romanzo, il volume ricostruisce accuratamente le vicende che portarono allo scioglimento del più grande partito della sinistra italiana attraverso una svolta confusa e carica di contraddizioni i cui risultati continuano a trascinarsi ancora oggi. Un intrecciarsi continuo di grande e piccola storia, casualità ed opportunismo, cinismo e commozione.
Con un protagonista quasi tragico come Achille Occhetto che, nel novembre del 1989, annunciò alla Bolognina un evento epocale come il cambio del nome davanti ad una piccola platea composta da partigiani, un solo fotografo, che poi avrebbe aderito, ironia della storia, al fronte del No, e da due soli giornalisti arrivati lì per caso; un bel paradosso per una svolta, scrive Telese, che da allora si sarebbe sviluppata sempre sotto il potente riflettore dei media. E in questo continuo rincorrersi di macro e microstoria il libro scorre veloce nonostante la mole: ecco allora la vicenda di un ritratto di Stalin sparito inspiegabilmente dalla storica sezione di Ponte Milvio dopo il congresso o la bellissima figura di Mario, il meccanico di Berlinguer assunto da Mattei; o quella di Bruno Magno, colui che avrebbe disegnato il nuovo simbolo della Quercia nella più assoluta segretezza e su mandato di pochi dirigenti tra cui Veltroni e Occhetto, sino ad arrivare al libro di Gorbaciov, intitolato naturalmente Perestroijka, che nell’89 scalò le classifiche ma che oggi non si trova se non nelle librerie dell’usato. E ancora le feste dei settimanali satirici “Tango” e “Cuore”, guidate da Michele Serra e Staino dove, tra un dibattito e l’altro, poteva capitare che molti militanti si immergessero affascinati nella meditazione kundalini, per poi magari ritrovarsi poco dopo nella “Sinistra dei Club” ideata da Flores D’Arcais in vista della nascita di un grande partito azionista. Non manca poi il richiamo alla figura di Enrico Berlinguer, che non a caso apre il libro ma che è richiamata esplicitamente in un capitolo dedicato anche ad Allende, entrambi accomunati da un anno, il 1973, durante il quale il presidente cileno morì eroicamente difendendosi dal golpe di Pinochet, mentre il politico sardo rischiò di far la stessa fine in un misterioso incidente automobilistico in Bulgaria, che secondo lo stesso segretario del Pci era stato un tentativo di omicidio orchestrato dai bulgari con lo zampino sovietico per metterlo a tacere.
In mezzo le lotte del gruppo dirigente, tra congressi e mozioni contrapposte, che vedono emergere la diarchia nascente tra Occhetto e D’Alema, secondo uno schema, quello della contrapposizione tra leader destinato a svolgersi sotto traccia e a non manifestarsi mai apertamente, che sarebbe continuato sino ai nostri giorni. Per non parlare dello scontro tra la generazione dei vecchi come Ingrao, Natta e Napolitano e la nuova dei vari trenta-quarantenni tra cui già spiccavano Veltroni e Fassino, ansiosa di guidare il partito senza esser però riuscita a completare il proprio rendiconto con la storia preferendo crogiolarsi in tatticismi e posizionamenti, e questo mentre nelle sezioni militanti e simpatizzanti si accaloravano discutendo con passione per intere giornate tanto da indurre Nanni Moretti ad immortalarli in un bellissimo documentario. Alla fine da quel partito sarebbero nati tanti altri soggetti politici dal nome diverso, da DS a Partito Democratico, da Sinistra e Libertà alla Lista comunista, ma sempre con gli stessi dirigenti di allora; una vera anomalia rispetto al resto d’Europa, dove nessuno dei politici dell’89 è ancora in carica.

3 commenti

  • 1 francesco cocco
    28 Giugno 2009 - 07:33

    Ero fuori Cagliari e questo mi ha impedito di essere presente alla presentazione del libro di Luca Telese. Dico questo perchè chi allora era iscritto al PCI può portare la prpria testimonianza di come un gruppo politicamente irresponsabile può distruggere una grande organizzazione partitica. Di che pasta politica fosse fatto quel gruppo dirigente, a cominciare dal segretario generale, l’abbiamo visto negli anni successivi: una smisurata libido del proprio io, una grande incoerenza nel mantenere le posizioni, una smania di potere smisurata, etc……- Non si dimentichi che Occhetto nei suoi progetti voleva sciogliere il PCI per “decreto” e fu battaglia politica per imporgli il congresso……Poi negli anni successivi la figura di Berlinguer svilita da qualcuno di quei dirigenti per esaltare Craxi. Cioè la moralità politica ridicolizzata per esaltare l’iniziatore dei degradati i modelli politici presenti, il sostanziale fondatore del berlusconsmo dominante. Bene ha fatto Gianluca a ricordare una pagina di storia sulla quale riflettere anche perchè può aiutarci a capire che quel che il PCI ha seminato nella socità italiana può ancora germogliare e dare i suoi frutti positivi.

  • 2 andrea
    28 Giugno 2009 - 11:40

    “Poveri comunisti turisti della democrazia”, diceve qualche giorno fa sb ad un gruppo di giovani contestatori. Sul “poveri” nessuna offesa, visto che tocca quasi sempre a noi, per predeterminazione generazionale e capriccio ancestrale.
    Ci sarebbero invece delle cose da dire sulla presunte “disfunzioni” democratiche del PCI visto che, ancora oggi, l’appartenenza ideologica e convinta al Parito che fu pare precludere qualunque via alla candidatura del governo del paese: Prodi-Rutelli-Prodi-Veltroni, se si escludono quelle tormentate e opache vicende che portarono D’Alema a Palazzo Chigi.

    Mi risulta, e risulta comunque agli studiosi di scienza politica, che il PCI abbia contribuito in modo non marginale alla costruzione e al mantenimento dell’ordinamento democratico dello Stato, ponendosi come pilastro di garanzia molto più e ben oltre le posizioni di facciata degli altri partiti.
    Mi sembra sia un piccolo merito oramai consacrato dalla storia e mi sembra opera sana e giusta ricordarlo: buttiamo via i leader a vuoto e teniamoci questo passato.
    In Sardegna, ovviamente.

  • 3 andrea raggio
    28 Giugno 2009 - 13:15

    In quelli anni ero deputato europeo. Quando è arrivata la notizia della Bolognina noi a Bruxelles abbiamo fatto festa. Di quell’evento ci sentivamo protagonisti a pieno titolo: ogni volta che Occhetto veniva in Parlamento erano discussioni appassionate e incitamenti a compiere il gran passo. Il fatto è che nel nostro lavoro eravamo immersi in un orizzonte più ampio di quello nazionale e avvertivamo più acutamente i cambiamenti epocali che la fine della guerra fredda stava innestando. Si passava dalla «piccola Europa» all’interno di un mondo bipolare – due grandi schieramenti contrapposti e al centro l’Europa occidentale con confini definiti e protetti ad est dalla Nato e con una Comunità solo economica e limitata a pochi Stati membri - alla «grande Europa» in un mondo globalizzato. Cambiava tutto, anche per il nostro Paese. La stessa scossa impressa dalla magistratura con l’operazione Mani pulite era figlia di quel cambiamento ché metteva il luce l’insostenibilità del sistema economico italiano viziato dalla corruzione rispetto alla nuova dimensione dei mercati e al loro dinamismo. Era perciò indispensabile un adeguamento della strategia della sinistra in Europa e in Italia alla nuova realtà. Liberare il PCI dai condizionamenti del passato, anche col cambiamento del nome, avrebbe certamente favorito la svolta. Non si trattava, dunque, di un mero espediente tattico, di un cedimento all’anticomunismo, come purtroppo poi è apparso, ma di un aspetto di una ben più ampia visione. Ricordo che quanto a fine settimana tornai a casa trovai Giovanna e Luca, mio figlio, infuriati contro Occhetto e dovetti faticare a spiegare, senza riuscirci del tutto. Così reagirono molti compagne e compagni. In effetti la gestione della svolta della Bolognina è stata motivata non come un rinnovamento di strategia nella continuità di una grande esperienza storica, ma come una rottura rispetto a un passato da rinnegare (“il nuovo inizio”, la “discontinuità” etc .). Questo è stato il limite di Occhetto il quale lasciava sempre poco spazio alla politica per privilegiare i tagli ideologici. Ricordo che Pompeo Colajanni, l’eroico Barbato della lotta partigiana, simpaticissimo conversatore, una volta in una pausa di riunione del Comitato centrale del PCI, mi disse “ Vedi Occhetto, ha i baffi intrisi di ideologia”.
    Voglio dire, in conclusione, che le persone e i personalismi pesano, ma la vicenda storica è un tantino più complessa. E lo dico anche per suggerire, se mi è concesso, che il dibattito congressuale nel PD non si limiti alla competizione tra persone.

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