Massimo Marini
Dopo questa tornata elettorale il rischio di morire democristiani si fa più concreto che mai. Non c’è dubbio infatti che l’UDC, insieme con la Lega, ma più ancora della Lega, è il vero vincitore politico di queste amministrative. Ovunque, salvo che in pochi casi, è stato determinante per la vittoria della coalizione con la quale si è alleato: a Torino e Bari vittorioso con il PD, a Venezia con il PDL. Questa perfetta applicazione della cosiddetta politica dei due forni ha portato il Partito di Casini in una posizione ottimale grazie all’ottenimento di due massimi risultati con il minimo sforzo: da una parte la possibilità di proporsi quale ago della bilancia per i prossimi appuntamenti elettorali locali ma soprattutto per le prossime strategie politiche a livello nazionale; dall’altra l’assoluta libertà di manovra in vista di un assestamento di potere che ancora oggi non è ben chiaro dove porterà esattamente, visto il declino morale del Premier Berlusconi nei confronti di un Vaticano sempre più insofferente. E se è vero che il PD ha “tenuto botta” in modo addirittura inaspettato agli stessi vertici (il che riporta alla mente la fulminante battuta di Crozza, secondo la quale il PD non sa più nemmeno perdere secondo le proprie aspettative), lo deve in buona parte agli apparentamenti con l’UDC, è anche vero che auspicare un patto politico di medio-lungo termine con i centristi di Casini è un qualcosa di profondamente sbagliato, miope, affrettato e condizionato. Al netto degli entusiasmi dell’area più conservatrice degli ex DL - da Rutelli alla Binetti, da Repubblica a Famiglia Cristiana - è evidente come la base elettorale difficilmente tollererebbe questo ulteriore strappo centripeto del Partito Democratico. Non solo: se si analizza in modo più approfondito il voto, in modo freddo ed oggettivo, si può abbastanza agevolemente evincere come l’UDC sia in uno stato di grazia solamente per via delle vicissitudini moralmente imbarazzanti del Premier, che ha portato gran parte dell’elettorato moderato a non votare per il PDL e a sostenere le liste di Casini. Se a questo si aggiunge il fatto che ad esempio nelle zone in cui comunque il voto progressista è predominante, come per la Provincia di Torino, l’elettorato abbia preferito votare a sinistra “nonostante” l’apparentamento con l’UDC, come si rileva ad esempio dalle dichiarazioni di voto dei gruppi radicali o delle associazioni gay di zona, si può dedurre come le vittorie avvenute con l’unione PD-UDC siano frutto delle circostanze peculiari che si stanno attraversando in questo particolare momento storico, che non di una reale, per quanto embrionale, convergenza di azione politica. Quello che emerge insomma, anche dal risultato del Sud, è che con un PD non ancora in grado di vincere, a fare la partita siano un PDL in caduta (e condizionato dalla smisurata crescita della Lega alla sua destra) e un UDC in momentanea crescita di visibilità. Comprensibile dunque la fibrillazione interna al PD che si ritrova oggi intontito e abbagliato da questo riflesso inaspettato di mezza vittoria alla quale vorrebbe dare un seguito stabile e duraturo nel futuro prossimo, con la formalizzazione di una prospettiva di Governo di coalizione con l’UDC agevolata dalla conferma di Franceschini a segretario di Partito al Congresso di ottobre. Ma sarebbe un errore, l’ennesimo, il più grave forse, quello definitivo. Imbarcare l’UDC significa allearsi con il Partito a maggiore infiltrazione mafiosa di stampo politico: non dimentichiamo che se oggi l’UDC siede in Parlamento lo deve esclusivamente ai voti siciliani, di dubbia provenienza. Allearsi oggi con l’UDC significa dover definitivamente far decadere ogni velleità progressista e riformista del Partito Democratico, dato che lo stesso Casini nelle sue dichiarazioni post-voto ha dichiarato che non parteciperà a nessun Ulivo 2 allargato. Significa dover rinunciare per sempre ad un partito laico slegato dai dettami del Vaticano. Significa rendersi complici di quella politica inquinata e collusa, disponibile ai compromessi più beceri pur di incassare qualche amministrazione locale in più: modus operandi dal quale il PD sta cercando di ripulirsi faticosamente, almeno in immagine, dopo gli scandali campani e abruzzesi. Eppure quella che fino ad un anno fa sembrava una possibilità quasi da fantapolitica, un alleanza fra i nuovi progressisti italiani e il partito più restauratore che possa esistere, quello che si ispira alla DC più conservatrice e confessionale, oggi sembra quanto mai possibile, a giudicare anche da alcuni movimenti per le europee, ovvero l’invio della scomoda Borsellino a Strasburgo, e in vista del Congresso, con la bruciatura da manuale ai danni di Zingaretti e del ticket dei quarantenni rossi del Partito. Una responsabilità immane ricade sulle spalle dell’attuale dirigenza PD: ridare fiato, speranza e prospettiva ad un Paese in ginocchio dal punto di vista economico, di sviluppo, di credibilità, con un Partito rinnovato e realmente progressista e laico, oppure affossare per sempre ogni velleità di rinnovamento con un ritorno di fatto alla torbidità clientelare, clericale e mafiosa di democristiana memoria.
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