Autonomia differenziata: la trattativa privatistica di Calderoli tra ministero e le regioni capofila

9 Novembre 2022
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Massimo Villone

Dai primi passi del nuovo governo sembra dissolversi, sulle riforme istituzionali, lo scambio FdI/Lega tra presidenzialismo e autonomia differenziata. Il presidenzialismo, più vicino al sentire di FdI, è scomparso dal dibattito politico, mentre l’autonomia differenziata, cui tiene fortemente una Lega tornata al suo originale feeling separatista, è partita subito, e accelera.  La chiamata del leghista Calderoli al ministero per le autonomie rende più attuale e pericolosa questa prospettiva. Ecco sulla questione una riflessione di Massimo Villone.

I primi passi del governo Meloni hanno avuto una connotazione fortemente identitaria e securitaria. Il richiamo alla narrazione di campagna elettorale è evidente. Al momento, Giorgia Meloni sembra soffrire, e non poco, l’iniziativa leghista e lo straripante vicepresidente Salvini, e le prime mosse hanno generato malesseri nella maggioranza. Ma qui interessa rilevare la mancanza di qualche tassello del mosaico pre- elettorale.
Si dissolve il nesso che sulle riforme istituzionali reggeva lo scambio tra presidenzialismo e autonomia differenziata. Anche qui pesa l’iniziativa leghista. Il presidenzialismo, più vicino al sentire di FdI, è scomparso dal dibattito politico, mentre l’autonomia differenziata, cui tiene fortemente una Lega tornata al suo originale feeling separatista, è partita subito, e accelera. Forse era prevedibile, fin dalla chiamata del leghista Calderoli al ministero per le autonomie.
La notizia è che ha condiviso con i presidenti di Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna (regioni firmatarie dei pre-accordi nel febbraio 2018), la bozza di una “legge di attuazione” dell’art. 116.3 della Costituzione. È una nuova etichetta, con cui riprende, con limature e integrazioni, le leggi-quadro Boccia/Gelmini. Potrebbe arrivare, entro qualche settimana, in Consiglio dei ministri. La stampa locale (Corriere del Veneto, 3 e 4 novembre), ne ampie anticipazioni. I tempi annunciati smentiscono clamorosamente il parallelismo con la riforma presidenzialista.
In punto di metodo, Calderoli conferma la trattativa riservata e di stampo privatistico tra il ministero e le tre regioni capofila. Come la legge-quadro dei suoi predecessori, la legge serve a poco. E una legge ordinaria, non in grado di vincolare alla propria osservanza una legge successiva, come quella che poi dovrà approvare con maggioranza qualificata ogni singola intesa. Leggiamo nell’art. 1 che la legge sarebbe volta a fissare i “principi generali per l’assegnazione in forma congiunta o alternata delle competenze legislative o delle funzioni amministrative connesse con il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Burocratese a parte, la legge sembrerebbe così porsi in parallelo con i principi fondamentali della legge statale di cui all’art. 117 della Costituzione per la potestà legislativa concorrente. Ma non funziona. I principi fondamentali ex art. 117 vincolano la legge regionale perché la Costituzione così dispone, e dunque la loro violazione si traduce in una violazione dello stesso art. 117. Mentre i principi della legge Calderoli non hanno nessun fondamento costituzionale cui fare capo per vincolare le successive leggi statali, che rimangono di pari grado nella gerarchia delle fonti.
Ma allora a che serve la legge di attuazione? È anzitutto una legge-manifesto volta a tranquillizzare i militanti leghisti, in specie dopo lo scossone dato dal bossiano comitato del Nord. Inoltre, specifica il procedimento di formazione e approvazione delle intese. Il punto eclatante è che le aule parlamentari non entrano mai nel merito delle intese, potendo solo approvarle conclusivamente in via di ratifica. Si vota o no, senza poter emendare. La partita si gioca tra il governo e le singole regioni. L’autonomia potrebbe poi essere operativamente dettagliata anche in commissioni paritetiche governo-regione, e quindi fuori del circuito parlamento-governo. Se ci fosse una regione particolarmente cara al governo possiamo bene immaginare come finirebbe. Come ciliegina sulla torta, per il profilo finanziario rimane la spesa storica, che si declina in danno del Sud. Solo in alcune materie e per tempo limitato si condiziona l’autonomia all’adozione di livelli essenziali di prestazioni (Lep).
Vedremo poi il dettaglio. Intanto cogliamo l’emarginazione del parlamento. Cosa comporta? Ovviamente, essendo le forze politiche della
maggioranza vincolate all’indirizzo di governo e all’accordo di coalizione, limitare il confronto parlamentare di fatto imbavaglia l’opposizione, o le forze di maggioranza in dissenso. Ad esempio, quelle che rappresentano il Sud. Profili di incostituzionalità ci sono, e si potranno eventualmente far valere. Ma intanto la battaglia è politica, e va fatta fin d’ora, sulla legge di attuazione.
Chi - governatori, sindaci, parlamentari, partiti, di maggioranza o di opposizione - vede a rischio gli interessi di oltre venti milioni di donne e di uomini del Sud, deve parlare, qui e ora. Evitiamo l’ipocrisia delle lacrime postume per chi rimane figlio di un dio minore. Che tutti siano avvertiti.

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