Andrea Catone
Continuiamo la riflessione sulla fase attuale….
[…] Dopo le dimissioni definitive di Draghi (sulle ragioni profonde delle quali dovremo collettivamente indagare più a fondo, utilizzando la cassetta degli attrezzi di Marx, con la relativa analisi dei movimenti e delle contraddizioni delle classi e delle frazioni di classe) sembra profilarsi – fatte salve tutte le parti in commedia del ceto politico italiano con le sue subculture – uno scontro pseudo bipolare tra il polo a guida Pd di Enrico Letta e il polo trainato da FdI di Giorgia Meloni. Questa polarizzazione è stata esplicitamente invocata da Letta che vede in essa la chance di contrastare l’affermazione, pronosticata dai sondaggi, del polo di destra. Potrebbe così esercitare il ricatto del “voto utile”: o il Pd o i fascisti.
Ma il bipolarismo Letta/Meloni è un falso bipolarismo. Se tra i due non vi è certamente identità di storia e cultura politica, vi è però comunanza dichiarata su una questione di fondo, anzi sulla questione di fondo oggi: entrambi, nei principali consessi politici, negli atti parlamentari, nelle dichiarazioni pubbliche, si sono posti saldamente e più che saldamente all’interno del campo Usa/Nato, hanno anzi fatto a gara su chi fosse più oltranzista nel sostegno militare a Kiev. FdI si è anche vantato di aver proposto una mozione di sostegno militare e politico all’Ucraina più netta e determinata di quella del governo Draghi (Atti parlamentari del 20 e 21 giugno).
Entrambi i contendenti accettano in merito alla guerra “l’agenda Draghi”. Sono due frazioni del partito unico dell’atlantismo.
A questo partito unico dell’atlantismo va contrapposto il “partito della pace”, un fronte ampio che ponga oggi, senza fughe in avanti, la questione dell’uscita dalla guerra, della neutralità italiana, di un’Italia vocata a un ruolo di tessitrice di relazioni di amicizia e cooperazione con tutti i paesi del mondo su base paritaria e di reciproco vantaggio. Come fu – anche nella guerra fredda – la politica di Enrico Mattei con i paesi del “terzo mondo” e con l’URSS.
È proprio così utopistico pensare alla possibile costruzione, già per le elezioni politiche di settembre, di una coalizione di forze politiche, sociali, associative, culturali, che faccia dell’uscita del nostro Paese dalla guerra ucraina il perno unificante del programma elettorale?
Non ci troviamo in una fase “ordinaria”, “normale” della lotta di classe. Siamo entrati in una fase acuta di quella “guerra mondiale a pezzi” di cui da anni parla papa Francesco. La guerra ucraina in corso non è un pezzo periferico di questa guerra, ne è il centro. Essa è oggi la questione principale, la contraddizione principale, rispetto alla quale le altre contraddizioni che interagiscono nel mondo si subordinano. Tutte le altre questioni – pane, lavoro, disoccupazione, salari, pensioni, povertà crescente, salute, crisi ambientale – non si possono né affrontare né tantomeno incominciare a risolvere se non si affronta oggi la questione principale della guerra.
Nella campagna elettorale già avviata, le principali forze politiche di destra e di “sinistra” si comportano come se la guerra non ci fosse, o come se, in ogni caso, quelle coordinate di guerra di lunga durata fino alla “vittoria delle democrazie e la sconfitta delle autocrazie” definite da Biden, Stoltenberg e, nella Ue, principalmente da Draghi, fossero ormai date una volta per tutte, immutabili, pienamente introiettate dal corpo del Paese. I principali media e le forze politiche si muovono all’interno del recinto definito della guerra per procura di Usa/Nato contro la Federazione russa.
Le principali forze politiche escludono dal loro orizzonte la rottura di questo recinto di guerra e si battono tra loro sul come dividersi gli spazi interni al recinto. Si potrebbe dire che è una lotta interna a frazioni di borghesia compradora, asservita agli interessi dell’oltranzismo atlantico, ad onta della difesa dell’interesse nazionale sbandierata da Fratelli d’Italia.
Porre la questione della guerra ucraina al centro della campagna elettorale consentirebbe di parlare di cose molto concrete e comprensibili a livello di massa.
Rispetto alla guerra attuale il movimento per la pace non è riuscito a decollare, incontra notevoli difficoltà, sia per l’attacco forsennato cui ogni voce critica è stata sottoposta (“putiniano”, in “intelligenza con il nemico”…), sia anche per limiti soggettivi. Uno dei quali può essere individuato nell’aver insistito sulla questione della trattativa necessaria, piuttosto che su quella del porre l’Italia fuori della guerra, di recuperare il nostro Paese a quel ruolo di coesistenza e cooperazione pacifica con tutti i paesi del mondo che ha caratterizzato le fasi migliori della politica estera italiana della “prima repubblica”. Allora la catena della Nato non impedì alla Fiat di istallare impianti automobilistici in Unione Sovietica a città Togliatti. A differenza della richiesta di trattative, che deve fare i conti con la volontà di trattare di entrambe le parti in conflitto, la fuoriuscita dalla guerra – non solo rispetto all’invio di armi, che è una vera e propria incostituzionale cobelligeranza, ma anche rispetto alla guerra economica, alle sanzioni, o alla guerra culturale di accanimento russofobico – dipende formalmente dalla volontà politica della sola Italia.
È un obiettivo certamente difficilissimo, per il clima politico-culturale sempre più pesante che ci ammorba, ma è obiettivo ben definito, preciso, determinato. Quanto meglio definiti e precisi sono gli obiettivi, tanto più un movimento che li persegua con determinazione ha speranza di ampliarsi e divenire un movimento di massa in grado di ottenere risultati. Irretito nella ragnatela di richiesta di trattative, il movimento pacifista si è fermato e infine zittito quando si è manifestata con chiarezza – in particolare dopo la riunione alla base americana di Ramstein di fine aprile, riunione convocata formalmente non dalla Nato, ma direttamente dal presidente Usa ed esplicitamente finalizzata al supporto militare al regime di Kiev – la strategia della guerra prolungata fino a rendere la Russia incapace di combattere. Non è nelle nostre mani il potere di fermare la guerra, ma è nelle nostre mani la possibilità di richiedere e ottenere che l’Italia stia fuori dalla guerra.
È un obiettivo capace di parlare non solo a cerchie ristrette del circuito della sinistra (quella reale, senza virgolette) se lo si collega alle questioni economiche, ai prezzi delle materie prime e dell’energia, ai vantaggi di una ripresa di rapporti delle imprese italiane con la Federazione russa.
Se aspiriamo alla rinascita di una sinistra – pace, lavoro e pane (e anche le rose…) – che non sia puramente residuale e incapace di influire sui processi storici, non è forse questo il momento più opportuno e, al contempo, più necessario?
1 commento
1 Aladinpensiero
5 Agosto 2022 - 08:31
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=135840
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