Gianfranco Sabattini
Nel 2005, la regione Sardegna è passata da 4 a 8 province; le quattro nuove province sarde si sono presentate da subito con un record particolare: sono risultate le province più piccole d’Italia e ciò in deroga al vincolo (non assoluto) previsto dal DL n. 267/2000, il quale stabilisce che, di norma, la popolazione delle province risultanti dalle modificazioni territoriali non sia inferiore a 200.000 abitanti. Contrariamente a questo disposto, la Provincia del Medio Campidano è risultata dotata di una popolazione di 105.400 abitanti, quella di Carbonia-Iglesias di 131.890 abitanti, quella di Olbia-Tempio di 138.334 abitanti e quella di Ogliastra di 58.389 abitanti. Di queste, le prime due sono nate per “secessione” dalla vecchia Provincia di Cagliari, la terza ha “secessionato” dalla vecchia Provincia di Sassari, mentre l’ultima ha “secessionato” dalla vecchia Provincia di Nuoro. Sia prima che dopo la loro costituzione si è molto discusso sull’inutile spreco di risorse (ma non solo) che il loro funzionamento avrebbe concorso a determinare, nonostante che l’allora Governatore dell’isola, Renato Soru, dichiarasse che non vi sarebbe stato alcuno spreco, nel senso che le risorse spettanti alle vecchie quattro province sarebbero state ripartite tenendo conto delle nuove in rapporto al loro territorio ed alla loro popolazione. Tuttavia, l’opinione pubblica regionale ritenne allora, non a torto, che l’operazione fosse esclusivamente finalizzata alla “moltiplicazione delle poltrone”; in altri termini, fosse finalizzata, da parte dei promotori, ad una pura e semplice “ricerca di rendite”.
Oggi, con riferimento a quanto è accaduto a livello nazionale (in presenza di disposti legislativi precedenti quelli adottati nel 2000) ed a quanto è accaduto all’interno dell’isola dopo il 2005, si dispone di una letteratura e di un apparato informativo che rendono possibile stabilire se l’intuizione di allora dell’opinione pubblica regionale fosse fondata o meno. Gli studi condotti in generale sull’argomento mostrano come, a livello nazionale, le nuove province, ovunque siano sorte, si siano ridotte sin dal loro nascere ad enti di dimensioni e ruolo marginali, con bilanci inferiori a quelli delle vecchie province dalle quali provenivano ed abbiano conosciuto un’ “epoca di proliferazione” solo grazie a “particolari” ragioni politiche, senza ricadute significative sul benessere dei cittadini, ma solo su quello di specifiche élite locali, che hanno potuto godere del beneplacito di tutte le forze politiche in campo. Di tutto ciò ne è prova il fatto che la costituzione delle nuove province non ha provocato alcuno “scontro politico”, essendo stata avallata da tutti gli schieramenti presenti sul territorio. Con le ricerche sul campo, inoltre, sempre a livello nazionale, si è potuto constatare che le nuove province sono risultate, di norma, tutte meno popolate, meno ampie e con meno comuni rispetto alle province d’origine; mentre, rispetto ad alcune variabili economiche strategiche, quali il PIL-pro capite, il tasso di occupazione e gli indici di produttività, sia pure in modo contrastante, sono risultate caratterizzate da trend sempre peggiori rispetto a quelli delle province d’origine. Sulla base di tutto ciò, perciò, si deve escludere che la “secessione” abbia avuto come scopo la fuga dei “territori ricchi” da quelli poveri.
Inoltre, gli studi e le ricerche sul campo, di cui ora si dispone, evidenziano anche che se la “secessione” è stata determinata da motivazioni politiche, queste non sono dipese da uno “scontro” tra gli schieramenti esistenti tendenti a massimizzare il loro consenso politico. Al riguardo, si deve tener presente che la “voglia di secessione” è, in linea di principio, solitamente spiegata sulle base di differenze esistenti nelle circoscrizioni locali che fanno parte di giurisdizioni più ampie. Ciò significa che, con riferimento alle regioni italiane, ad esempio, la “secessione” poteva essere giustificata o dalla propensione di alcune circoscrizioni locali a sottrarsi agli esiti penalizzanti della vigenza di imposte centrali uniformi su tutto il territorio delle province d’origine; oppure dall’esistenza, nelle diverse circoscrizioni di una data provincia, di differenze nelle preferenze dei cittadini riguardo alle politiche fiscali e ridistributive praticate. Poiché, sinora, nessuna delle ragioni indicate può essere assunta per spiegare la proliferazione delle province in Italia, è gioco forza fare riferimento ad altre motivazioni. Si deve, quindi, ipotizzare come suggerisce la letteratura economica sull’argomento, che ad essere interessato alla nascita di una nuova provincia sia sempre un gruppo di interesse, che, costituitosi come “comitato per la promozione” e composto da “trombati” politici o da nuovi aspiranti non disinteressati ad entrare nel mondo della politica, punta a trarre dalla “secessione” vantaggi in termini di rendite economiche, dovute soprattutto alle nuove cariche ed alle posizioni lavorative attese: quali, ad esempio, quelle di presidenti di provincia, assessori, consiglieri, dirigenti, presidenti e consiglieri di consigli di amministrazione di enti ed aziende provinciali.
Aspirazioni, dunque, del tutto estranee a migliorare le condizioni di crescita e sviluppo della popolazione delle nuove province. Con riferimento alla Sardegna, i dati recentemente resi disponibili dall’Istat consentono di dare fondamento a questa affermazione; da tali dati, riferiti al periodo 2001-2006, risulta che tutte le province (vecchie e nuove) sono coinvolte nel processo di crisi dell’economia regionale. Tuttavia, rispetto all’andamento del valore aggiunto ai prezzi base, del valore aggiunto per abitante e degli occupati, con la sola eccezione della Provincia di Olbia-Tempio rispetto alla Provincia di Sassari, le province di Nuoro e quella di Cagliari hanno sperimentato un miglioramento relativo delle loro condizioni economiche rispetto alle province che hanno da esse “secessionato” (la Provincia di Ogliastra dalla vecchia Provincia di Nuoro e le Province del Medio-Campidano e di Carbonia-Iglesias dalla vecchia Provincia di Cagliari). Le disomogeneità riscontrate, tuttavia, non fanno velo, come viene detto nel Rapporto Crenos sull’economia delle Sardegna per il 2009, su uno “sfilacciamento territoriale”, che è plausibile presumere peggiore di quello che si sarebbe avuto nel caso di mancata proliferazione delle province regionali; tale “sfilacciamento” non può essere certo assunto ad indice di un’economia dotata dei presupposti per la ripresa della sua crescita e del suo sviluppo non appena i motivi della crisi economica a livello nazionale ed internazionale si saranno dissolti.
Quale conclusione può essere tratta dalle considerazioni sin qui svolte? Aveva ragione l’opinione pubblica regionale di sospettare a suo tempo che la costituzione delle nuove province fosse esclusivamente finalizzata ad una “moltiplicazione delle poltrone”; e l’esperienza sin qui vissuta su questo problema conferma che la Sardegna da tempo dispone di una classe politica, che, anziché valutare gli esiti futuri delle riforme che ricorrentemente adotta in funzione dei loro effetti positivi sulle condizioni di vita dei cittadini, li valuta solo ed unicamente in funzione del tornaconto della “casta” cui appartengono.
4 commenti
1 erasmus
19 Giugno 2009 - 18:11
Questo si era già capito da quasi tutti i Sardi, sulla ba
se del semplice buon senso di cui sono dotati.
Volevo sottolineare che la politica regionale è la più vo
race d’Italia e riesce a dissipare somme incredibili, die
tro alla sola Sicilia come cifra totale, riesce però a su
perarla come bottino individuale.
2 M.P.
19 Giugno 2009 - 23:00
Il popolo-bue prima o poi mangerà la foglia (ha già iniziato). L’ABOLIZIONE delle Province e di alcune inossidabili e incancrenite Comunità Montane DOVREBBE COSTITUIRE il primo passo di qualunque rinnovamento.
3 Efis Pilleri
20 Giugno 2009 - 10:54
A mio parere otto enti territoriali sovra-comunali in Sardegna sono assolutamente necessari per gestire correttamente e democraticamente il territorio dal punto di vista ambientale, urbanistico e dello sviluppo economico. L’ente intermedio è ancor più necessario laddove il territorio è scarsamente popolato (come in Ogliastra). Bisogna dotare le province (io le chiamerei “giudicati”) di poteri reali sopprimendo invece tutti quegli organismi, essi si anacronistici, che sono causa di grandissimi sperperi e che servono a mantenere il centralismo italiano. Parlo di prefetture, questure, soprintendenze ed uffici tributari, le cui funzioni se si vuole un sistema federalista vanno trasferite alla Regione ed alle province.
4 M.P.
21 Giugno 2009 - 14:10
sono convinto che libere associazioni di Comuni su precisi temi, come già da tanto tempo si fa, potrebbero più democraticamente e concretamente programmare e realizzare, d’intesa con la Regione. Tante “Coronas de Logu” darebbero dal basso gli imput all’Ente sovracomunale (Regione) che, verificata la validità delle proposte, darebbe il via libera agli interventi. Senza l’istituzione di nuove poltrone e codazzi di impiegati e manager vari, sperpero di denaro e di energie nonchè fonte di impedimenti burocratici inutili e dannosi.
D’accordo su prefetture, questure, soprintendenze e quant’altro ancora. Avevamo ragione nei nostri poveri paesini: tutto quel che è statale, perfino i doni, sono da temere.
Non parliamo di legalità. Quand’è che impareremo a guardare, con occhio libero dai pregiudizi, al nostro passato? Non impareremo mai!
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