Carbonia. I 72 giorni. Dicono i testimoni Vincenzo Cutaia, Giuseppe Atzori, Vittorio Lai, Aldo Lai. Quel movimento aveva dimostrato importanti capacità organizzative e di resistenza e profondo senso di unità e solidarietà. Ma troppo forte la repressione, chiusi gli operai nel muro di poliziotti, manganellate, uso di idranti e bastonature, dopo lo scioglimento di comizi e manifestazioni “al terzo squillo di tromba”.

17 Luglio 2022
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Gianna Lai

Oggi, domenica, proseguiamo la storia di Carbonia dal 1° settembre 2019. 

Dicono dei 72 giorni Vincenzo Cutaia e Giuseppe Atzori, allora minatori a Schisorgiu, attivisti sindacali iscritti al Pci e membri di Commissione interna e, nel tempo dell’intervista, anno 1988, dirigenti dei pensionati Cgil presso la Camera del Lavoro di Carbonia: quel movimento aveva dimostrato importanti capacità organizzative e di resistenza. fin nella pratica delle nuove forme di lotta, possibili solo grazie a un profondo senso di unità e solidarietà. “Durante i 72 giorni noi non facevamo il cottimo e ci ridussero il salario base del 25% mentre, subito subito, un centinaia di licenziati si aggiunsero a quelli recenti, della precedente ‘ristrutturazione’. E quando anche noi fummo licenziati, continuammo a scendere in miniera. Lo sciopero bianco voleva dire ridurre la produzione e lavorare a ritmi ridotti; noi, come tanti altri, nel tempo che restava disarmavamo, per esempio, le coltivazioni abbandonate, consegnando il legname alle famiglie ormai prive di carbone, dopo l’aumento delle tariffe. E bisognava strappare i fogli del cottimo, d’accordo con il sorvegliante: ora, a differenza di prima, quando i capisquadra, in gara tra loro per contendersi i livelli produttivi più alti, venivano declassati se non si attenevano rigidamente alle direttive della direzione, ora parecchi di loro erano dalla nostra parte e così pure i sorveglianti. A Schisorgiu funzionava in questo modo, si faceva finta di assalirli per distruggerne le registrazioni, in realtà non effettuate, ed essi dichiaravano poi in direzione che nessuno aveva fatto il cottimo. La SMCS rispondeva minacciandoli di riduzione dello stipendio, e questo avvenne, se non di licenziamento e, per quanto riguarda gli operai, applicando una decurtazione sul salario che niente aveva a che fare con il rifiuto dei cottimi, retribuzione a parte, così prevista dal Contratto Collettivo Nazionale, per garantire una paga base sicura e definita, a prescindere, appunto, dal cottimo stesso. I siciliani, tra i minatori che continuano a praticarlo, non aderendo alla protesta e mettendo così in difficoltà il movimento per il carattere unitario e di massa, vera base della non collaborazione. E sempre così ubbidienti in miniera, proprio tra quelli fatti assumere a centinaia presso i cantieri di Serbariu sopratutto, dal siciliano Di Franco: appena giunto a Carbonia, iscritto al PCI, nel dopoguerra passato alla DC, per diventarne direttamente Segretario cittadino, trattandosi ovviamente di grande e fedele amico della direzione SMCS. Perciò fu faticosissmo in miniera organizzare quella lotta, dovevamo combattere tanta ignoranza e insegnare i modi della resistenza a chi voleva aderire. Sì, imparammo tante cose nuove ed entrammo in contatto con realtà di lavoro regionali e nazionali: a conclusione della vertenza ottenemmo il caro pane e la revoca dei licenziamenti relativi ai 72 giorni, ma abbiamo sempre pensato che non fosse abbastanza, dopo tante sofferenze. E restava grande la frustrazione, dovendo andare incontro a nuovi e massici licenziamenti che, come già avvenuto, ci avrebbero senz’altro privati dei compagni più validi e dei lavoratori più capaci, molti dei quali già propensi a trovare altrove un lavoro sicuro”.
E Vittorio Lai, allora membro di Commissione interna, anch’egli licenziato e poi riassunto, narrando della violenza di Pirrone nelle piazze, pensa che quella protesta così radicale non riuscì tuttavia a smuovere governo e parlamento sui problemi dell’occupazione nel Sulcis-Iglesiente. E, insieme a Cutaia e Atzori, ricorda come non si riuscì a respingere gli aumenti imposti dalla SMCS su affitti, luce e carbone

Un mondo perennemente esposto al conflitto, dice Aldo Lai, capostazione presso le Ferrovie Meridionali Sarde, ancora nella gestione dell’ACaI in quel tempo, poi a gestione governativa, e dirigente regionale Autoferrotranvieri CGIL, negli anni sessanta sindaco della città. Racconta i 72 giorni a partire dal funzionamento del Consiglio di gestione e dal ruolo che l’organismo vi ha svolto. “Ho partecipato alle trattative per l’istituzione del Consiglio, con Giardina e Vaccargiu, loro per la Camera del lavoro, io rapresentante CGIL dei lavoratori delle Ferrovie Meridionali Sarde: gli impiegati, al momento della formazione delle liste, furono scelti in buona parte dalla dirigenza SMCS e, una volta eletti, avrebbero spesso votato seguendo le direttive dell’azienda e mettendo in minoranza i rappresentanti dei lavoratori. Ne nacquero delibere contrarie agli operai e alle loro richieste. 3 liste, operai, impiegati e dirigenti, gli impiegati votavano con i dirigenti, facendo maggiornza, sconfitti gli operai pur essendo molto numerosi nel Consiglio. Condivisa nei fatti la linea della razionalizzazione, che avrebbe portato ai licenziamenti di quell’anno, in realtà, tutti contro i sindacalisti e i membri di Commissione interna trattandosi, decisamente, di vera persecuzione politica. Così li abbiamo lasciati cadere da sé i Consigli di gestione, alla scadenza non li abbiamo rinnovati essendo sfociata spesso, la pretesa collaborazione, nella solita opera di corruzione messa con naturalezza in atto dall’azienda, attraverso promozioni, passaggi di categoria, aumenti di stipendio per i consiglieri più fedeli. Al punto che quelli di loro, iscritti ai partiti della sinistra, vennero espulsi dalle sezioni di appartenenza: e pure gramo il destino per i consiglieri che non si sottoposero al ricatto, allontanati ben presto dalla miniera, nella massa dei licenziamenti collettivi per riduzione dell’attività produttiva. Il fatto è che la composizione sociale del nostro Consiglio non rispecchiava gli interessi della classe operaia, una rappresentanza così ferocemente colpita e da ricostituire immediatamente in circostanze, ancora una volta, veramente drammatiche”.
72 giorni di dura lotta, prosegue il dirigente sindacale, resa ancor più drammatica dall’azienda che, “trattando il conflitto sociale come mera questione di ordine pubblico, si appella fin da subito all’autorità del commissariato locale, onde contrastare gli operai e impedire l’esercizio delle libertà sindacali. Le prodezze di Pirrone le chiamavamo ed erano innumerevoli, se uno chiede quali fossero i suoi comportamenti e come avvenisse lo scioglimento di manifestazioni e comizi, a iniziare da quello di Velio Spano, si può rispondere così: nello schieramento massiccio di forza pubblica, a delimitare e a chiudere la piazza, l’intera massa di partecipanti risultava isolata dal resto della città, per la presenza di un vero e proprio muro invalicabile di poliziotti e carabinieri, le autoblindo nei punti strategici. E minacce ai militanti, prima di ogni manifestazione, interviene a questo punto ancora Vittorio Lai, noi, come tanti altri, più volte convocati da Pirrone a dichiarare che non avremmo partecipato alla manifestazione annunciata. E dovevamo arrivare molto presto, la sera, perché il muro dei poliziotti ad un certo punto impediva l’accesso alla piazza o al luogo pubblico in cui si doveva svolgere la manifestazione”. A scopo puramente intimidatorio le autoblindo sempre in movimento, con le sirene spiegate l’intera notte e durante tutta la giornata, in occasioni di lotte e di scadenze importanti della politica. “E schedature a centinaia, a Carbonia durante i 72 giorni e per tutto il tempo del ministero Scelba, e carabinieri nei piazzali della miniera e perquisizioni alla pretesa ricerca di armi, ma era pura provocazione, proseguono i due testimoni, Pirrone sapeva bene che non ce n’erano, si sapeva che i minatori di Carbonia, pur così denigrati e considerati così rivoluzionari, agivano solo politicamente, facevano solo sciopero e non altro, nonostante la dinamite che avevano a disposizione, l’organizzazione del movimento a prevalere, e la sua capacità di controllo, su tutto”.

Lo scenario è la piazza di Carbonia dominata dal commissario Pirrone col megafono saldamente in mano, quasi ad assicurarsi il contradditorio immediato. Che diffida l’oratore non appena si tocchino temi sul governo o sull’ordine pubblico e, se quegli prosegue, la minaccia segue immediata. Pirrone annuncia l’intervento della forza pubblica e l’immediato scioglimento del comizio al terzo squillo di tromba, quindi manganellate e idranti e calci di fucile contro gli operai, senza alcuna possibilità di scampare, prima di poter rompere con la pressione di massa il muro dei poliziotti, che inseguono i manifestanti oltre la piazza, nei luoghi del centro intorno: “vere ribalderie, aggiungono i due testimoni, che cesseranno, insieme alle bastonature, solo con l’uscita di Pirrone dal commissariato cittadino, l’anno successivo”.

E conclude Aldo Lai, “fu forte il disorientamento dopo i 72 giorni, lo sbandamento simile al periodo successivo ai fatti Rostand del 1947 e ai fatti del 14 luglio, dopo l’attentato a Togliatti, per il numero altissimo di arresti, e per non essere riusciti a creare ancor più saldi legami con l’Iglesiente, quando la compattezza operaia, il senso di solidarietà e la capacità organizzativa si espressero al massimo, sia nella rappresentanza politica che sindacale: vera avanguardia della lotta in Sardegna, il movimento, ma tutto si è svolto così velocemente da impedire lo sviluppo di un processo che aveva bisogno di tempi più lunghi”.

 

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