Amica Ucraina, sed magis amica veritas

9 Aprile 2022
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Mario Dogliani

 

 

 

Articolo pubblicato su “Costituzionalismo.it” il 17.03.2022.

Data la situazione tragica che spegne o violenta migliaia di vite in Ucraina, e che invade le nostre coscienze, sembrerebbe – di fronte alle sofferenze e alle morti – che non si debba far altro che contemplare la tragedia stessa, in un moto di empatia. Ma non è così. Sarebbe un tradimento perché è più che mai urgente cercare di chiarire quali comportamenti politici potrebbero al più presto arrestarla. Occorre cercare di mantenere la mente lucida per contribuire alla ricerca di soluzioni.

Mantenere la mente lucida è però difficile. Per due motivi. Il primo è che la montagna di immagini e il coacervo di commenti d’ogni genere – militari, geopolitici, storici, morali, religiosi, economici – che ogni giorno viene prodotta non aiuta affatto questa ricerca. Bene ha scritto Nadia Urbinati: i media spettacolarizzano facili dualismi e poco informano: «L’approccio monotematico tende ad estremizzare. Crea un ambiente retorico che non lascia (non deve lasciare) spazio al dubbio; che non favorisce un’analisi degli eventi, ma solo reazioni emotive a quegli eventi che trangugiamo come fossero vino buono; che scoraggia la formazione di opinioni interlocutorie e capaci di presentarsi per quel che sono, ovvero punti di vista aperti alla contestazione e alla revisione. Le opinioni che sono confezionate dal rullo compressore del paradigma binario si impongono a noi come fatti granitici e oggettivi, impermeabili al giudizio critico. In questo clima si promuove non la conoscenza degli eventi, ma una religiosa adesione. Non si facilita la simpatetica disposizione verso le sofferenze umane, ma si alimenta l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia».

Il secondo motivo che rende difficile questa ricerca è che il paradigma binario è costruito su un aut-aut morale inappellabile, in forza del quale il nemico che ha stracciato i principi costitutivi del diritto internazionale, che ha fatto ricorso ad una guerra offensiva con ambizioni di potenza, non viene giudicato come «un nemico che va combattuto con mezzi militari, economici e politici, ma piuttosto come un semplice criminale/pazzo che è sprovvisto di ogni valenza etico-politica». La Russia va combattuta per aver violato la sovranità dell’Ucraina e per aver sconvolto l’equilibrio geopolitico che essa stessa aveva pur contribuito a edificare. Altro è però combatterla per questi atti criminosi in vista della instaurazione di un equilibrio più solido, altro è «gonfiare di un supplemento etico ulteriore il conflitto contemplando una sorta di jihad democratica globale» (Prospero).

Il presupposto per poter concludere il conflitto con una pace duratura sta nel decidere chiaramente sotto quale principio collocarsi. «La Stampa» del 7 marzo riporta un articolo a tutta pagina dal titolo «L’Europa deve temere Putin più di una guerra nucleare». È vero che si tratta di una intervista, ma il direttore del giornale sa benissimo quale effetto esercita un titolo del genere. Il paradigma binario non è affatto duale. È “bino” solo nel senso che è oppositivo. Radicalmente oppositivo, così da consentire – come questo titolo dimostra – una manipolazione subdola che rovescia quello che era sostanzialmente un tabù (faticosissimamente costruito), mettendo la sordina alla questione nucleare, che dovrebbe invece essere la questione delle questioni. La diffusione di questa manipolazione prova che il principio ultimo che guida l’opinione pubblica e quella dei governi non è più – come era al tempo dell’“equilibrio del terrore” – salus mundi suprema lex esto. Il suicidio dell’umanità attraverso la guerra termonucleare è un rischio che oggi viene accettato. Rimosso il sacrosanto timore si può presentare come un’opzione accettabile quella di proseguire, oggi, nella guerra convenzionale fino alla sconfitta dell’avversario geopolitico e ideologico, anche a costo che la guerra convenzionale deragli nella guerra atomica. Questo è il punto. La questione, dunque, non è (come vorrebbe Caracciolo) «se la Nato possa battere la Russia senza farle la guerra» e non è vero che «la risposta a questa domanda decide del conflitto in corso». La questione vera e ultima, infatti, è se se la Nato possa battere la Russia (o se la Russia possa battere la Nato) senza arrivare alla guerra nucleare. Nessuno può rispondere. La risposta è estremamente incerta; e proprio per questo la domanda è vanificata a priori: perché riguarda un “rischio”. Rischio che c’è, eccome; e che viene accettato. Questo è il succo di tutto: la accettazione di questo rischio. L’alternativa che abbiamo davanti è netta e non aggirabile: o la guerra nucleare (il suicidio dell’umanità) o la pace. Tertium non datur. Per quanto sia vero che oggi tra la Nato e la Russia sembra essersi stabilita una convenzione tacita a non ricorrere all’arsenale atomico, la guerra in corso non potrà durare né concludersi come “guerra convenzionale”. Se le parti, o una di esse, in primo luogo quella soccombente nel conflitto convenzionale, non si dichiareranno disposte al “cessate il fuoco” e a intraprendere la via negoziale sui nodi geopolitici, le parti stesse alzeranno continuamente la posta, fino alla guerra nucleare.

Se questo è vero, gli appelli alla resistenza – dell’esercito e dei civili – e l’invio di armi per sostenerla servono solo a guadagnare qualche giorno: ma in attesa di che cosa? Non certo di una vittoria sul campo, assolutamente impossibile dal momento che la sproporzione tra le forze è incommensurabile (a meno che la Nato non intervenga direttamente; ma se intervenisse si ricadrebbe nell’ipotesi del conflitto nucleare). E allora? In attesa del trasformarsi della guerra – dopo la sconfitta sul campo – in guerriglia endemica? O non piuttosto – sospetto terribile – dell’attesa di una sconfitta sul campo che “legittimi” la guerra aperta dello sconfitto e dei suoi alleati contro la Russia? Ma in questo caso come potrà una tale guerra non trasformarsi in una guerra nucleare? Se si trattasse dell’attesa del momento propizio per la guerra diretta vorrebbe dire che ammettiamo di aver mandato gli ucraini allo sbaraglio, salvando il nostro orgoglio (il non aver voluto, noi, porre con forza la necessità della trattativa, per non apparire deboli: cosa assolutamente non vera) al prezzo dei loro corpi. L’attuale retorica della resistenza e dell’aiuto armato è dunque una retorica cinica, che serve solo a massacrare ulteriormente il popolo ucraino, senza speranze e con la sola prospettiva della catastrofe. Solo una decisa richiesta, da parte occidentale, di aprire una conferenza di pace che riguardi i punti di conflitto profondi, le paure radicali, le inquietudini che la fine dell’Urss non ha dileguato potrebbe indicare una speranza. E non sarebbe affatto una dichiarazione di debolezza, una resa alle ragioni del prepotente, ma, al contrario, un gesto di forza, di autorevolezza, di lungimiranza, di “egemonia” che disvelerebbe ulteriormente le ragioni violente della controparte, se questa si sottraesse alla proposta.

Ma per far ciò è urgente uscire dal “fondamentalismo democratico” che trasforma i problemi strategici in problemi morali, che trasforma il nemico nel “male assoluto”, che esaspera la politica come lotta tra amico e nemico fino ad accettare il rischio della distruzione del pianeta. Ci eravamo illusi che le ideologie (che dichiarano irriducibile il contrasto tra visioni del mondo diverse) potessero essere sostituite da una sorta di “pace filosofica” che, in nome della verità da tutte ricercata e diversamente interpretata, rendesse possibile la loro esistenza. Eravamo arrivati al punto – nel giugno del 1986, quando intervenne una pronuncia della Corte internazionale di giustizia (Tribunale internazionale dell’Aja), nel caso sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua (Nicaragua v. U.S, Military. and Paramilitary Activities in and Against Nicaragua) – di ritenere che il divieto della guerra (e dell’uso della forza) fosse sancito, a livello internazionale, non più solo da trattati – con il che il divieto, per quanto diffuso, come nel caso della Carta dell’ONU, rimaneva legato al complesso degli Stati contraenti – ma da una consuetudine internazionale generalmente riconosciuta, e quindi valida universalmente per tutti gli Stati del pianeta: ius cogens, diritto imperativo. Non dobbiamo ripudiare quelle illusioni. Dobbiamo ripudiare il fanatismo e il fondamentalismo. Quello degli aggressori, innanzi tutto, ma anche – nel nostro campo – quello di coloro che confondono il piano del dover essere con quello dell’essere, pensando che il primo (divieto della guerra, irreversibile cooperazione internazionale…) si sia totalmente inverato nel secondo, e che quindi le sue violazioni siano un qualcosa di inconcepibile: fenomeni innaturali, peccati mortali che vanno solo cancellati, e che non possono neanche comparire nel mondo dei giudizi morali e della considerazione politica (ovviamente quando le violazioni le commettono gli altri, non quando siamo “noi” ad attaccare).

Va ribadito, in conclusione, che la saggezza realistica non è un cedimento morale. Che il principio audiatur et altera pars – come principio che ispira la coscienza morale – non va mai abbandonato. Che la condanna morale più intransigente non è per nulla contraddetta dalla ricerca del “che fare?”. E che invece è l’abdicazione a questa ricerca (il fiat iustitia, pereat mundus) in nome della violazione da parte del nemico di principi ritenuti irrinunciabili, che crea il paradosso di una morale che impedisce di curare il male che essa stessa condanna (e che potrebbe scatenare l’apocalisse).

Qui un contributo correlato di Francesco Pallante “Se si rompe il tabù nucleare.

Data la situazione tragica che spegne o violenta migliaia di vite in Ucraina, e che invade le nostre coscienze, sembrerebbe – di fronte alle sofferenze e alle morti – che non si debba far altro che contemplare la tragedia stessa, in un moto di empatia. Ma non è così. Sarebbe un tradimento perché è più che mai urgente cercare di chiarire quali comportamenti politici potrebbero al più presto arrestarla. Occorre cercare di mantenere la mente lucida per contribuire alla ricerca di soluzioni.

Mantenere la mente lucida è però difficile. Per due motivi. Il primo è che la montagna di immagini e il coacervo di commenti d’ogni genere – militari, geopolitici, storici, morali, religiosi, economici – che ogni giorno viene prodotta non aiuta affatto questa ricerca. Bene ha scritto Nadia Urbinati: i media spettacolarizzano facili dualismi e poco informano: «L’approccio monotematico tende ad estremizzare. Crea un ambiente retorico che non lascia (non deve lasciare) spazio al dubbio; che non favorisce un’analisi degli eventi, ma solo reazioni emotive a quegli eventi che trangugiamo come fossero vino buono; che scoraggia la formazione di opinioni interlocutorie e capaci di presentarsi per quel che sono, ovvero punti di vista aperti alla contestazione e alla revisione.

Le opinioni che sono confezionate dal rullo compressore del paradigma binario si impongono a noi come fatti granitici e oggettivi, impermeabili al giudizio critico. In questo clima si promuove non la conoscenza degli eventi, ma una religiosa adesione. Non si facilita la simpatetica disposizione verso le sofferenze umane, ma si alimenta l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia».

Il secondo motivo che rende difficile questa ricerca è che il paradigma binario è costruito su un aut-aut morale inappellabile, in forza del quale il nemico che ha stracciato i principi costitutivi del diritto internazionale, che ha fatto ricorso ad una guerra offensiva con ambizioni di potenza, non viene giudicato come «un nemico che va combattuto con mezzi militari, economici e politici, ma piuttosto come un semplice criminale/pazzo che è sprovvisto di ogni valenza etico-politica». La Russia va combattuta per aver violato la sovranità dell’Ucraina e per aver sconvolto l’equilibrio geopolitico che essa stessa aveva pur contribuito a edificare. Altro è però combatterla per questi atti criminosi in vista della instaurazione di un equilibrio più solido, altro è «gonfiare di un supplemento etico ulteriore il conflitto contemplando una sorta di jihad democratica globale» (Prospero).

Il presupposto per poter concludere il conflitto con una pace duratura sta nel decidere chiaramente sotto quale principio collocarsi. «La Stampa» del 7 marzo riporta un articolo a tutta pagina dal titolo «L’Europa deve temere Putin più di una guerra nucleare». È vero che si tratta di una intervista, ma il direttore del giornale sa benissimo quale effetto esercita un titolo del genere. Il paradigma binario non è affatto duale. È “bino” solo nel senso che è oppositivo. Radicalmente oppositivo, così da consentire – come questo titolo dimostra – una manipolazione subdola che rovescia quello che era sostanzialmente un tabù (faticosissimamente costruito), mettendo la sordina alla questione nucleare, che dovrebbe invece essere la questione delle questioni. La diffusione di questa manipolazione prova che il principio ultimo che guida l’opinione pubblica e quella dei governi non è più – come era al tempo dell’“equilibrio del terrore” – salus mundi suprema lex esto. Il suicidio dell’umanità attraverso la guerra termonucleare è un rischio che oggi viene accettato. Rimosso il sacrosanto timore si può presentare come un’opzione accettabile quella di proseguire, oggi, nella guerra convenzionale fino alla sconfitta dell’avversario geopolitico e ideologico, anche a costo che la guerra convenzionale deragli nella guerra atomica. Questo è il punto. La questione, dunque, non è (come vorrebbe Caracciolo) «se la Nato possa battere la Russia senza farle la guerra» e non è vero che «la risposta a questa domanda decide del conflitto in corso». La questione vera e ultima, infatti, è se se la Nato possa battere la Russia (o se la Russia possa battere la Nato) senza arrivare alla guerra nucleare. Nessuno può rispondere. La risposta è estremamente incerta; e proprio per questo la domanda è vanificata a priori: perché riguarda un “rischio”. Rischio che c’è, eccome; e che viene accettato. Questo è il succo di tutto: la accettazione di questo rischio. L’alternativa che abbiamo davanti è netta e non aggirabile: o la guerra nucleare (il suicidio dell’umanità) o la pace. Tertium non datur. Per quanto sia vero che oggi tra la Nato e la Russia sembra essersi stabilita una convenzione tacita a non ricorrere all’arsenale atomico, la guerra in corso non potrà durare né concludersi come “guerra convenzionale”. Se le parti, o una di esse, in primo luogo quella soccombente nel conflitto convenzionale, non si dichiareranno disposte al “cessate il fuoco” e a intraprendere la via negoziale sui nodi geopolitici, le parti stesse alzeranno continuamente la posta, fino alla guerra nucleare.

Se questo è vero, gli appelli alla resistenza – dell’esercito e dei civili – e l’invio di armi per sostenerla servono solo a guadagnare qualche giorno: ma in attesa di che cosa? Non certo di una vittoria sul campo, assolutamente impossibile dal momento che la sproporzione tra le forze è incommensurabile (a meno che la Nato non intervenga direttamente; ma se intervenisse si ricadrebbe nell’ipotesi del conflitto nucleare). E allora? In attesa del trasformarsi della guerra – dopo la sconfitta sul campo – in guerriglia endemica? O non piuttosto – sospetto terribile – dell’attesa di una sconfitta sul campo che “legittimi” la guerra aperta dello sconfitto e dei suoi alleati contro la Russia? Ma in questo caso come potrà una tale guerra non trasformarsi in una guerra nucleare? Se si trattasse dell’attesa del momento propizio per la guerra diretta vorrebbe dire che ammettiamo di aver mandato gli ucraini allo sbaraglio, salvando il nostro orgoglio (il non aver voluto, noi, porre con forza la necessità della trattativa, per non apparire deboli: cosa assolutamente non vera) al prezzo dei loro corpi. L’attuale retorica della resistenza e dell’aiuto armato è dunque una retorica cinica, che serve solo a massacrare ulteriormente il popolo ucraino, senza speranze e con la sola prospettiva della catastrofe. Solo una decisa richiesta, da parte occidentale, di aprire una conferenza di pace che riguardi i punti di conflitto profondi, le paure radicali, le inquietudini che la fine dell’Urss non ha dileguato potrebbe indicare una speranza. E non sarebbe affatto una dichiarazione di debolezza, una resa alle ragioni del prepotente, ma, al contrario, un gesto di forza, di autorevolezza, di lungimiranza, di “egemonia” che disvelerebbe ulteriormente le ragioni violente della controparte, se questa si sottraesse alla proposta.

Ma per far ciò è urgente uscire dal “fondamentalismo democratico” che trasforma i problemi strategici in problemi morali, che trasforma il nemico nel “male assoluto”, che esaspera la politica come lotta tra amico e nemico fino ad accettare il rischio della distruzione del pianeta. Ci eravamo illusi che le ideologie (che dichiarano irriducibile il contrasto tra visioni del mondo diverse) potessero essere sostituite da una sorta di “pace filosofica” che, in nome della verità da tutte ricercata e diversamente interpretata, rendesse possibile la loro esistenza. Eravamo arrivati al punto – nel giugno del 1986, quando intervenne una pronuncia della Corte internazionale di giustizia (Tribunale internazionale dell’Aja), nel caso sulle attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua (Nicaragua v. U.S, Military. and Paramilitary Activities in and Against Nicaragua) – di ritenere che il divieto della guerra (e dell’uso della forza) fosse sancito, a livello internazionale, non più solo da trattati – con il che il divieto, per quanto diffuso, come nel caso della Carta dell’ONU, rimaneva legato al complesso degli Stati contraenti – ma da una consuetudine internazionale generalmente riconosciuta, e quindi valida universalmente per tutti gli Stati del pianeta: ius cogens, diritto imperativo. Non dobbiamo ripudiare quelle illusioni. Dobbiamo ripudiare il fanatismo e il fondamentalismo. Quello degli aggressori, innanzi tutto, ma anche – nel nostro campo – quello di coloro che confondono il piano del dover essere con quello dell’essere, pensando che il primo (divieto della guerra, irreversibile cooperazione internazionale…) si sia totalmente inverato nel secondo, e che quindi le sue violazioni siano un qualcosa di inconcepibile: fenomeni innaturali, peccati mortali che vanno solo cancellati, e che non possono neanche comparire nel mondo dei giudizi morali e della considerazione politica (ovviamente quando le violazioni le commettono gli altri, non quando siamo “noi” ad attaccare).

Va ribadito, in conclusione, che la saggezza realistica non è un cedimento morale. Che il principio audiatur et altera pars – come principio che ispira la coscienza morale – non va mai abbandonato. Che la condanna morale più intransigente non è per nulla contraddetta dalla ricerca del “che fare?”. E che invece è l’abdicazione a questa ricerca (il fiat iustitia, pereat mundus) in nome della violazione da parte del nemico di principi ritenuti irrinunciabili, che crea il paradosso di una morale che impedisce di curare il male che essa stessa condanna (e che potrebbe scatenare l’apocalisse).


Articolo pubblicato su “Costituzionalismo.it” il 17.03.2022.


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