E la folla gridava “Enrico! Enrico!”

8 Giugno 2009
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Carlo Dore jr.

25 anni fà, tra l’8 e il 9 giugno, moriva Enrico Berlinguer, uno dei leader più silenziosi e schivi che l’Italia abbia avuto, eppure certamente uno dei più amati. E’ trascorso un quarto di secolo da quel tragico evento che commosse l’Italia intera, ma sembra un’eternità, tanto il mondo e il costume politico è cambiato. Ce lo ricorda Carlo Dore jr. in questo appassionato intervento che ricostruisce quell’ambiente politico, partendo da quel freddo 8 giugno del 1984 a Padova.

Mentre scrivo queste righe, non riesco a distogliere l’attenzione dalla scena finale della storia che oggi provo a raccontare: la storia di Enrico Berlinguer visto da lontano, da un’epoca caratterizzata dal trionfo dell’antipolitica e dalla graduale trasformazione di quel popolo della sinistra che in Berlinguer trovava la sua guida in una disperata compagine di esuli senza partito.
Mi concentro dunque su quest’ultima scena: penso ad una piazza piena di gente, accalcata sotto il cielo di Padova in una fredda serata di giugno, all’inizio di un’estate che proprio non voleva saperne di arrivare; penso alle bandiere che incorniciavano il palco su cui si erano appena alternati i principali esponenti del Partito Comunista del Veneto; penso al boato che accompagnò la breve marcia di Berlinguer verso la tribuna destinata all’oratore.
Anche quella volta, mi piace credere che il Segretario sorrise prima di iniziare a parlare, persuasivo come sempre, dell’Italia che aveva in mente, della Sinistra che aveva in mente: ribadiva la centralità che, nel suo programma, assumevano le libertà civili difese nelle battaglie referendarie sull’aborto e sul divorzio; rilanciava l’idea di una grande mobilitazione a difesa dei diritti dei lavoratori, contro una politica economica che rischiava di abbattere drasticamente il potere d’acquisto dei salari.
Poi, nel mezzo di una frase, ecco che un brivido freddo percuote la folla: Berlinguer si ferma, le parole sembrano morirgli sulle labbra, il megaschermo proietta l’immagine di un volto contratto in una innaturale smorfia di dolore. Che succede al Segretario? E’ in questo momento che dal fondo della Piazza si leva un grido, un grido destinato ad accompagnare fino alle battute conclusive l’ultimo discorso di quello che tutti oggi ricordano come il più amato tra i leader della sinistra italiana del dopoguerra: “Enrico! Enrico!”
Berlinguer barcolla, prende fiato, riparte: per rivivere oltre dieci anni alla guida del PCI nel breve spazio di pochi minuti. Riprende a parlare della prospettiva di un socialismo dal volto umano, della possibilità di riaffermare all’interno di un Paese ben integrato nell’Alleanza Atlantica quei valori di libertà, democrazia, eguaglianza e giustizia sociale brutalmente rinnegati dai teorici della Guerra Fredda, in vario modo distribuiti tra Mosca e Washington. Descrive l’emozione che promanava dal progetto di fare del PCI una grande forza di governo, di concludere una volta per sempre la lunga fase di transizione che doveva condurre i comunisti italiani dagli Sputnik al centro-sinistra.
Gramsci il teorico di riferimento, Allende il modello a cui guardare: anche quella sera, Berlinguer voleva raccontare alla sua Italia come - anche nel bel mezzo della stagione dei muri e delle cortine di ferro, dei carri armati sovietici e delle spie venute dal freddo – era giunto a coltivare l’idea che un altro Mondo fosse davvero possibile.

“Enrico! Enrico!”

Il discorso del Segretario procede a strappi: Berlinguer individua uno dopo l’altro i fattori che hanno precluso l’attuazione del suo progetto. Spiega come la strategia del compromesso storico sia stata gradualmente stritolata dall’avvento del CAF e dalle pallottole delle BR, rinchiusa nel cofano di una Renault rossa insieme al corpo martoriato di un leader democristiano storicamente non allineato alle direttive della CIA; denuncia la lenta deriva della classe dirigente della stagione della Milano da bere verso un sistema di corruzione istituzionalizzata che ben presto sarebbe divenuto l’asse portante dell’economia nazionale; chiarisce come una loggia nera, molto segreta e molto potente, abbia messo a repentaglio l’integrità delle istituzioni democratiche sorte dalle ceneri della lotta di liberazione; invita il popolo della sinistra a riaffermare casa per casa, fabbrica per fabbrica, sezione per sezione, l’estrema attualità degli ideali che avevano caratterizzato l’intero periodo della sua segreteria, ad individuare ancora nella creazione di una moderna forza di governo la Nuova Frontiera di tutti progressisti italiani.

“Enrico! Enrico!”

L’ultimo discorso di Berlinguer si chiude qui: e dopo venticinque anni, quell’immagine del Segretario che combatte con le parole destinate a perdersi nel freddo fuori stagione di una maledetta sera di giugno appare solo come l’estrema icona di una politica ancora capace di scaldare cuori e idee, come il ricordo un po’ sbiadito di una stagione che non esiste più. Dopo Berlinguer è arrivato il CAF, dopo il CAF è arrivato Berlusconi per mortificare una volta per sempre i progetti di governo di una sinistra dimostratasi troppe volte incapace di dare voce a quell’autentico progetto di cambiamento teorizzato dal Segretario nel suo testamento morale.
Ma oggi, nell’epoca delle veline e dei “mi consenta”, dei menestrelli e dei voli di Stato in versione low cost, del trionfo della cultura dell’impunità e dell’adorazione dell’Uomo solo al comando, dobbiamo chiederci: cosa rimane di Enrico Berlinguer? Cosa rimane dell’Italia che egli sognava e della sinistra che aveva in mente? Cosa resta, in altre parole, della “nostra sinistra” e della “nostra” Italia?
Rimane il sogno di dare vita, in un futuro più o meno prossimo, ad una forza moderna, libertaria, socialista e democratica, capace di proporsi come credibile punto di riferimento per l’Occidente illuminato dal pensiero di leader autentici come Obama e Zapatero. Rimane l’idea di una politica intesa come strumento utile all’attuazione dell’interesse generale, e non come banale complesso di pratiche di potere.
Rimane soprattutto l’istantanea di Pertini che piange sulla bara di quello che definì un autentico “compagno di lotta”, e il ricordo di quella piazza gremita sotto il palco e le bandiere, che scandisce all’unisono il nome del segretario verso le nuvole del cielo di Padova.
“Enrico! Enrico!”. L’eco di quel grido è riuscito a superare il silenzio che caratterizza l’incedere della Storia, ed ancora oggi torna per portare speranza: alla povera sinistra, ed alla povera Italia.

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