Carbonia. Ministero degli Interni, Partito comunista e sindacati, “i veri protagonisti politici di quei momenti”. Il PCI minacciato dalla dichiarazione di illegalità

27 Febbraio 2022
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Gianna Lai

 

 Nuovo post domenicale sulla storia di Carbonia, dal 1° settembre 2019.

 

Per Scelba l’obiettivo era, “decapitare l’organizzazione armata che i comunisti avevano ereditato dalla Resistenza e isolare il PCI nel ghetto dell’opposizione, in una situazione resa permanentemente precaria dal sospetto o dalla minaccia della dichiarazione di illegalità”, dice Giovanni De Luna. Che ricorda in parlamento, il 14 luglio, l’intervento di Sandro Pertini, “la nostra solidarietà va ai compagni comunisti. Sappiate che se voi volete mettere fuorilegge questo partito, dovete apprestarvi a mettere fuorilegge anche noi. Noi combatteremo a fianco di costoro, come abbiamo fatto dal 1922 al 1945″. E lo sdegno di Giancarlo Pajetta, rivolto alla maggioranza, “date le dimissioni dal governo troppo male avete fatto. Non assassinate la patria”. E di Laconi che grida “Avete il sangue sulle mani”, mentre il suo “tentativo di distribuire in aula le copie della edizione straordinaria de L’Unità, provocò un ennesimo parapiglia fino all’intervento conclusivo di Gronchi presidente della Camera che, per sospendere i corpo a corpo accesisi in aula, dichiarò finalmente chiusa la seduta”. E di Luigi Longo, il 15 luglio, “Viva gli operai della Fiat grida Luigi Longo”, applaudito da comunisti e socialisti, E di Giuseppe Di Vittorio, il 16 luglio, contro la brutalità con cui la polizia aveva affrontato i dimostranti, “in regime democratico nessun poliziotto ha il diritto di bastonare selvaggiamente per le strade gli operai…..Lo sciopero generale ha posto il problema essenziale, nel nostro paese, della politica del governo e, in particolare, della politica interna del governo”: è lo storico Giovanni De Luna a introdurci “in una dimensione molto più vasta di quella parlamentare, legata com’è alle decisioni e ai comportamenti dei veri protagonisti politici (il ministero degli Interni, il Pci, i sindacati) di quei momenti”.

Dopo aver ricordato la posizione di Pietro Secchia sui disordini di piazza del 14 luglio, “l’insurrezione sarebbe stata una pazzia. Non esito ad affermare che io, anzi, in tale occasione esercitai una influenza decisiva perché si tenessero i nervi a posto … No, non lo ritenevo possibile, e agii di conseguenza”, così Spriano sul PCI di quegli anni: un partito che “per la sua storia, la educazione clandestina dei suoi quadri, gli umori della sua base più combattiva, è percorso trasversalmente da tentazioni rivoluzionarie, sovversive. …. Gli ex partigiani garibaldini, la parte di essi entrata o rientrata nelle fabbriche”, resta espressione “di quella insofferenza, diffusa nelle file del partito, verso una strada di avanzata democratica che Togliatti propugna”. Mantenendo ferma, il leader del partito, fin dal VI Congresso, “la necessità di lottare contro il governo De Gaspari asservito ai gruppi capitalistici italiani e all’imperialismo americano”, come leggiamo su Candeloro, nella sua già citata “Storia dell’Italia moderna”. Per riprendere poi ancora, con Paolo Spriano, sul PCI, “la macchina del partito avviata alla pacifica conquista di consensi, alla difesa degli interessi popolari colpiti dalla crisi e dalla miseria, alla cura di assicurare alleati non solo politici, ma sociali, alla classe operaia”.Nel PCI sardo di Cagliari, fin dal Comitato federale del 21 luglio, come riferisce la professoressa Giannarita Mele, la linea è quella di Roma. E a Mistroni che dichiara: “con un’azione più decisa e generale saremmo riusciti a rovesciare il governo”, Velio Spano risponde direttamente che “la prospettiva non era insurrezionale”, avendo le stesse recenti elezioni del 18 aprile dimostrato quanto i comunisti non fossero riusciti a conquistare “la maggioranza della popolazione”, e come quella protesta contro l’attentato, non particolarmente incisiva nell’isola, fosse limitata solo a una parte del territorio della provincia, “a Cagliari, Carbonia e basta”. A Carbonia, il mito dell’Unione Sovietica, poter fare in Italia, a fianco degli operai del nord più politicizzati, ciò che già è stato possibile in Russia, attraversa con grande convinzione una buona parte della massa, sopratutto durante la campagna del 18 aprile. Pur avendo la politica del partito, collegato alla prospettiva del futuro processo rivoluzionario, la costruzione nel tempo presente di una democrazia nuova: la democrazia progressiva di Togliatti e dei diritti del lavoro. Educati alla lettura dell’Unità, al dibattito e alla conoscenza della storia stessa dei comunisti e della classe operaia, all’antifascismo come base politica che alimenta la democrazia, i minatori si sentono forti, pur relegati alla periferia del Paese, per l’appartenenza ad un partito giunto ormai a contare due milioni di tesserati tra gli italiani. In aumento infatti gli iscritti, a livello nazionale, come leggiamo su Renzo Martinelli, “Storia del Partito comunista italiano”, fino a raggiungere il numero di 2.115.327 complessivi; nell’isola se ne contano 19.902, il 65,8% operai, braccianti, salariati agricoli; il 22,1% contadini, mezzadri, fittavoli; il 4,1% artigiani, esercenti, imprenditori; l’1,4 impiegati, studenti, professionisti, intellettuali; il 6,2% casalinghe.E rassicurati si sentono, gli operai di Carbonia, da una rappresentanza politica che, nei giorni della sollevazione popolare aderisce, nella amministrazione cittadina e in parlamento, alla protesta dei lavoratori e li sostiene durante la repressione, in città e nel Paese. Dice a questo proposito Giorgio Candeloro come “il PCI resse bene di fronte a questa ondata repressiva, poiché rafforzò la sua organizzazione, rimase il partito italiano col maggior numero di iscritti, conservò forti posizioni nelle amministrazioni locali, continuò ad avere l’appoggio della classe operaia e di grandi masse di braccianti, assorbì molti elementi del ceto medio, continuò ad esercitare un’influenza assai notevole tra gli intellettuali”. Così Renzo Martinelli che, dopo aver sottolineato i pericoli della possibile messa fuori legge dei comunisti, di cui si parla esplicitamente nel documento del VI Congresso, dice come ora il partito è, “seppure politicamente più debole, organizzativamente più forte e deciso. Sul piano dell’elaborazione, è riuscito a mantenere ferma la direttiva sostanziale, la strategia democratica, nonostante l’esclusione dal governo e il peggioramento della situazione internazionale, nonché le spinte estremistiche della base. Il suo ancoraggio con la società italiana può adesso svilupparsi sulla base di un combattimento aspro, tenace, continuo, ma mantenuto sempre nei limiti del quadro istituzionale”. Rafforzato organizzativamente dall’istituzione del Comitato regionale, “varato anche nella prospettiva dell’ente Regione”, al centro l’ideologia, la politica, l’organizzazione nel “Partito nuovo”, la necessità per il gruppo dirigente che la strategia della “democrazia progressiva” sia sostenuta efficacemente da “un’educazione politica di base” nella formazione dei quadri dirigenti e allargata alla vita delle sezioni e all’esperienza di tutti gli iscritti.Per concludere sui fatti del 14 luglio, una nota dello storico Paolo Spriano, a quarant’anni dall’attentato, nel dossier dell’Unità pubblicato il 10 luglio 1988. “Quattro revolverate fanno tremare l’Italia. 14 luglio 1948, momento simbolico di una spaccatura civile”. Il titolo dell’articolo: “Un mondo e un tempo di nemici”. Dice Spriano come quella vittoria della DC, il 18 aprile, “non vide affatto diminuire la tensione sociale, politica, ideologica nel Paese …. ci si inoltrava ormai nella guerra fredda di due campi contrapposti…. L’attacco anticomunista, tra maggio e luglio più aspro e condotto in primo luogo da uomini e movimenti della Chiesa, … la volontà di farla finita con il comunismo”. Se le prime parole di Togliatti rivolte ai dirigenti del partito, la sera del 14, furono un invito alla calma, Pci, Psi e CGIL, prosegue Spriano, svolsero un unico ruolo, ” bloccare ogni possibile passaggio verso la guerra civile: che non vi fosse mai stato un piano K di insurrezione lo riconobbero gli stessi avversari, il ministro degli Interni Scelba, che pure era pronto allo scontro”.
E poi lo studioso riferisce della ricerca storica su quei fatti. Essa “si sta muovendo verso motivi di approfondimento, che così possiamo sommariamente indicare: esplose nelle più grandi città del Nord, ma anche in zone industriali e agrarie del centro, in Toscana particolarmente, una ribellione che aveva forti connotati di classe e che intendeva rispondere con la forza all’attentato…. Il 14 luglio indica…….. la capacità di mobilitazione intorno alle avanguardie di un movimento di massa, che avrebbe pagato moltissimo nelle lotte dei tempi immediatamente successivi. Non ci fu infatti né una delusione paralizzante, nè un contraccolpo insuperabile, quando venne dichiarata la fine dello sciopero, che pure non aveva ottenuto nessun risultato tangibile, neppure le richieste dimissioni del ministro dell’Interno. Ci fu la scissione sindacale, …. ma essa già maturava da tempo. L’altro elemento che a me pare vada considerato è l’estrema fragilità di un regime di convivenza democratica che l’episodio rivelò …. Le armi che uscirono dai nascondigli, il ruolo giocato da gruppi di partigiani quasi come forza a sé stante, mostravano come l’illegalismo era ben presente e vivo …. L’unica prova di fiducia comune nel metodo democratico era data dal fatto che né l’opposizione, né il governo volevano andare a una prova di forza cruenta….Era quello del 1948 e degli anni della guerra fredda un mondo e un tempo di nemici più che di avversari”.

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