Tonino Dessì
È vero che la recente ordinanza del Tribunale di Napoli sulla controversia relativa all’approvazione e all’applicazione del nuovo Statuto del M5S (ordinanza che probabilmente sarà oggetto di ricorso) ha suscitato una discussione abbastanza impropria in relazione alla disciplina dell’organizzazione interna dei partiti.
Tuttavia l’improprietà più eclatante a me pare abbia caratterizzato un altro versante.
Da più parti infatti si è denunciata un’”interferenza indebita della magistratura nella politica,” tanto nel caso in questione quanto in relazione all’indagine penale sulla Fondazione Open di Renzi, della quale si è avuta notizia quasi contemporanea.
Il fatto è che nessun soggetto fisico o giuridico dell’ordinamento può sottrarsi al suo “giudice naturale precostituito per legge” (art. 25 Cost.).
È un fondamentale principio dello Stato di diritto.
Un fatto normale negli ordinamenti di common law anglosassone, ma direi ormai scontato anche negli ordinamenti continentali postfeudali e postassolutisti, dalla Rivoluzione francese fino alla Costituzione italiana del 1948.
Qualcuno i diritti degli iscritti (talvolta persino degli elettori) nelle relazioni interne ai partiti, quando vi sia contestazione, deve tutelarli, qualcuno deve pur accertare, a tutela di un interesse collettivo, la correttezza delle modalità di finanziamento dei partiti.
La Costituzione all’articolo 49 stabilisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”.
È vero, che a differenza di quanto prescrive l’articolo 39 per i sindacati, la Costituzione nulla dice nè prescrive sulla democrazia interna ai partiti.
La differenza originaria sta in ragioni storiche, ossia nella diffidenza di tutti i partiti della Costituente, memori dell’esperienza fascista, nei confronti dell’ingerenza di un potere politico eventualmente rappresentato da una maggioranza parlamentare ovvero da un esecutivo che fossero espressione di una parte politica con pretese egemoniche preponderanti. Giocavano ai tempi anche le culture ampiamente extraistituzionali che permeavano per distinte ragioni sia il mondo cattolico sia quello comunista e socialista, i cui maggiori partiti si consideravano rispettivamente portatori di istanze ideali e sociali ritenute non assoggettabili a una contingente disciplina statuale, in quanto entrambe tese a una trasformazione permanente della società e conseguentemente delle sue istituzioni.
Tuttavia non si può nemmeno sostenere che il principio democratico che permea l’intera carta possa restare avulso, estraneo alla vita e al funzionamento delle organizzazioni politiche.
Le modalità del concorrere con metodo democratico, a parte i procedimenti elettorali e quelli parlamentari, sul piano interno possono perciò essere disciplinate in due modi.
O con una legge ad hoc oppure secondo il diritto associativo comune.
Questo vale anche per le forme di finanziamento (che tuttavia oggi è disciplinato con legge).
Se non si è provveduto con legge, come per esempio accade in Germania, non ci si può dolere quando le anomalie o le disfunzioni o i conflitti interni siano motivi di vicende che possono richiedere un intervento giurisdizionale, su istanza di parte nei casi civilistici, anche d’ufficio nei casi che hanno rilevanza penale.
A me pare che da un eccesso di giustizialismo si rischi di passare a un eccesso di pretesa di immunità o di impunità. Pernicioso l’uno quanto l’altra ed entrambi manifestazioni di una patologia non democratica della politica.
3 commenti
1 admin
21 Febbraio 2022 - 19:56
Risposta di Andrea Pubusa
Le considerazioni di Tonino Dessì sono sempre puntuali e generalmente condivisibili. Io ho soltanto voluto dire che la politica è un campo in cui vi è una parte in qualche misura affrancata dal diritto. E’ quella che attiene al merito delle decisioni, sempre che siano sorrette dal consenso interno. Che un giudice dica che Conte non è presidente del M5S, lascia il tempo che trova se il gruppo parlamentare segue le sue indicazioni. Può il giudice sindacare una delibera parlmentare se segue le direttive di Conte e non, poniamo, di Crimi? Direi di no. Fra l’altro,Tonino ben sa che gli atti politici sono sottratti al controllo giudiziario (es. il Consiglio di Stato non può sindacarli), e non può farlo neanche la Corte costituzionale, se non in quanto si traducano in atti legislativi, questì solo sottoposti al vaglio della Consulta.
Cio’ non toglie che si debba disciplinare la vita interna, coi limiti operativi di cui si e’ detto.
2 Aladinpensiero
22 Febbraio 2022 - 11:56
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=131101
3 Tonino Dessì
22 Febbraio 2022 - 13:42
Nemmeno io, però, ho voluto sostenere che gli atti politici possano o debbano essere sindacati nel merito dal giudice. Le procedure interne tuttavia lo sono, quando generino un contenzioso che verta sull’esercizio dei diritti degli iscritti. Le conseguenze peraltro possono essere gravi anche sul piano politico, perché l’azzeramento per via giudiziaria di una dirigenza può precludere alla medesima per esempio di utilizzare simbolo e denominazione di un partito e di presentare le liste di quel partito alle elezioni. Ma nemmeno questo mi pare dirimente. Dopotutto anche se vi fosse una legge ad hoc sull’organizzazione interna dei partiti un contenzioso fra iscritti sulla sua corretta applicazione potrebbe comunque finire in tribunale. Quello che ho voluto contestare è l’uso da parte di molti commentatori del concetto di “ingerenza giudiziaria indebita” nella vita dei partiti che ho letto sia in relazione alla sentenza del giudice civile di Napoli sia in relazione all’indagine penale sulla Fondazione Open.
L’altra questione che mi pare opportuno ribadire è che una trasparente democraticità dell’organizzazione dei partiti, per via normativa o per autoregolamentazione interna potrebbe rilegittimarne di fronte ai cittadini e agli elettori la funzione come strumenti di partecipazione alla vita politica.
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