Camillo Bellieni 100 anni fa ad oggi c’indicava la via sardista al federalismo

29 Gennaio 2022
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Andrea Pubusa

 

 

Nel 1921 nascevano insieme il Partito comunista e il Partito sardo, due partiti rivoluzionari, uniti da una comune idea di trasformazione delle istituzioni, il federalismo. Mentre Gramsci si batteva per uno Stato federale formato da cinque macroaree, Sardegna, Sicilia, Nord, Centro e Sud, Lussu delineava un federalismo fondato sulle regioni. Al secondo Congresso del Partito sardo d’azione, il giovane Camillo Bellieni, fresco di laurea in Giurisprudenza, proprio 100 anni fa, il 29 gennaio 1922, avanzava la proposta federalista dei sardisti. Eccone una sintesi, tratta da uno studio sul federalismo sardo di Andrea Pubusa in preparazione per la pubbliazione.

 

Al rigoroso centralismo dello stato italiano di matrice sabauda si inizia ad opporre a fine Ottocento la proposta autonomista dei socialisti e dei popolari. In questo filone nazionale di riflessione e di battaglia politica si innesta l’idea federalista sarda che raggiunge l’apice nel movimento dei combattenti della Brigata Sassari nella Grande guerra. A ben vedere, in Sardegna l’autonomismo nelle sue diverse varianti prima che da una consapevolezza nasceva da un sentimento; un sentire che ha avuto punti alti di elaborazione e di pratica politica, e tuttavia non ha sedimentato un lascito culturale e programmatico  per la damnatio memoriae ispirata dai Savoia e per la generale adesione dell’intellettualità sarda, salva qualche eccezione, al progetto di piemontizzazione dell’isola. Prevale il codinismo e l’aspirazione alla casta.
Com’è noto, dopo la breve epopea angioyana, l’idea federalista ha due esponenti di rilievo in Sardegna: Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni. Pur con diversa impostazione, sono entrambi fautori della sovranità popolare e della repubblica e il federalismo ha il suo fondamento proprio in una società pienamente democratica in cui il potere e la sua legittimazione promanano dal basso. E mentre il federalismo di Asproni si manifesta in appunti sparsi, Tuveri ne fa un elemento centrale che attraversa tutta la sua elaborazione filosofica e istituzionale. Non a caso il tema centrale dell’opera più celebre di Tuveri, “Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi”, è costituito dalla “difesa della sovranità popolare contro la sovranità del principe“, filo rosso che percorre tutta la storia del pensiero politico democratico, ma in Tuveri, pur nella sua ascendenza religiosa, gioca come cuneo per spezzare il soffocante centralismo statale dopo la fusione perfetta. Tuveri evoca i classici esempi di tirannicidio da Pisistrato, ucciso da Armodio e Aristogitone, e Giulio Cesare pugnalato a morte da Bruto, e richiama i teologi cui i monarcomachi, anche nel Medioevo, si erano ispirati, ma certo lui aveva assorbito la lezione del nonno Vincenzo Licheri, un importante funzionario del Regnum ai tempi di Giommaria Angioy e suo seguace, nella cui casa ad Oristano visse dopo la morte prematura del padre (L. Carta). Sennonché sul grande movimento antifeudale cadde la damnatio memoriae non solo per mano dei Savoia, ma anche ad opera dei ceti privilegiati sardi nella ricerca spasmodica di mantenere, nel mondo in rapida trasformazione, gli agi, le prebende e il potere. Il movimento antifeudale fu dimenticato. Ancora oggi, per il valore dei simboli, al centro di Cagliari troneggia un gigantesco e grottesco monumento con la statua di Carlo Felice nelle vesti di un condottiero romano, e solo una via secondaria ricorda Giommaria Angioy!
Emilio Lussu, con la sua usuale eleganza ed efficacia, a proposito dei moti antifeudali culminati nella primavera del 1796 coi cento giorni dell’Alternos di Bono, sottolinea che questo “originale movimento“, “sorto per il propagarsi fra gli intellettuali sardi delle correnti ideologiche e politiche della rivoluzione francese divenne popolare e si batté contro i francesi. Di questo movimento che culminò nella rivolta contro i feudatari e al quale il movimento autonomista sardo del dopo-guerra si riallaccia direttamente, come il movimento socialista francese si riallaccia alla grande rivoluzione”, si è quasi persa memoria per tutto l’Ottocento. “Esso è ignorato in genere dagli italiani, eppure fu il primo movimento rivoluzionario affermatosi in Italia dopo la rivoluzione francese, di cui non era che una ripercussione, e fu antecedente a quello che condusse alla Repubblica Partenopea“. Anche “di Tuveri, - osserva Lussu - l’ultimo dei monarcomachi, amico di Cattaneo, che aveva studiato a fondo la questione rurale, arrivando alla conclusione delle necessità di una rivoluzione agraria, non rimaneva più nessuna traccia“. E tuttavia quelle lotte e quelle elaborazioni, come un fiume carsico, qualcosa hanno trascinato e portato alla luce. “La brigata Sassari principalmente fu il deposito rivoluzionario della Sardegna del dopo-guerra”. “La guerra è stata per noi tutti, una grande lezione umana e nazionale. Nazionale in senso sardo“. Sentimento, prima che acquisizione intellettuale. “Sentimmo cioè potente la nostra individualità con un sentimento unitario e autonomo con la coscienza per giunta di far cessare uno stato di oppressione e di sfruttamento. Sentimmo la capacità di essere noi stessi e niente altro che noi stessi: autogoverno. E il diritto di partecipare autonomamente alla trasformazione dello Stato italiano, il nostro Stato di tutti. E di essere di questo Stato soggetti sovrani di diritto“. Ecco che, gira, gira, riemerge il tema centrale della sovranità popolare, come in Tuveri, come in Asproni, e nello sfondo si staglia la figura e il pensiero di Angioy. “Tradotto in termini politici i più chiari possibili, ciò oggi vuol dire Federalismo“. “Questo sentimento nazionale […] fu alla base e alle origini del movimento” sardista. E fu di tutti. “Tutti i socialisti, nessuno escluso, che fecero la guerra, entrarono, e alcuni come massimi esponenti, nel nostro movimento“. “Sarebbe temerario - azzarda Lussu - porci anche solo la domanda che cosa sarebbe avvenuto di Gramsci se avesse fatto la guerra con noi“. Ma Gramsci, ancorché non combattente, fu federalista e anche sardista.
Il sentimento, così incisivamente evocato da Lussu, divenne poi nei sardi coscienza di sé e progetto politico. Mentre il giovane Gramsci, abbandonato il suo ingenuo separatismo da villaggio “al mare i continentali (lontana eco dello “scommiato” dei piemotesi dell’aprile del 1794), approdava ad una più matura idea federalista, rafforzata dalla convergente elaborazione di Lenin, il movimento combattentistico si avviava ad enuclare un programma poi trasfuso nei deliberati congressuali del Partito sardo d’azione.
Ad onor del vero, all’inizio veniva rivendicata l’autonomia, il termine federalismo non era ancora nel vocabolario sardista. Bellieni, per esempio, nella sua appassionata relazione al Primo Congresso dei combattenti sardi del maggio del 1918 non fa menzione del federalismo, si parlava piuttosto di “autonomia di tutti gli enti locali, con la limitazione dell’autorità politica al solo controllo“. Gli enti tuttavia potevano consorziarsi in unità più vaste, seguendo le suggestioni provenienti da Salvemini e dalla Scuola meridionalistica. Era infatti Salvemini ad affermare che le autonomie locali dovessero fondarsi non sulle Regioni ma sulle province, consorziandosi così da formare  unità istituzionali più ampie.
Le Regioni apparivano come entità più lontane e ancora da inventare.  Di federalismo si parla immediatamente dopo. Nella relazione sempre di Bellieni al secondo congresso  del Psd’az del 29 gennaio 1922, non solo viene evocato il termine federalismo, ma viene tracciato un profilo abbastanza articolato dello Stato federale come forma di un nuovo assetto autonomistico dell’ordinamento. Lo stesso Bellieni aveva anticipato, quella posizione sul Solco, dove segnava gli aspetti fondamentali della visione istituzionale sardista. Anzitutto la scelta di fondo del non separatismo e l’opzione repubblicana. Nessuna apertura all’idea che l’accettazione “dell’unità italiana” implichi una identificazione della “nazione con la monarchia o con tutto quel complesso di istituzioni che caratterizzano l’attuale regime accentratore. Se coloro - prosegue - che ci accusano di velleità separatiste pensano che noi, per allontanare il nostro movimento una simile traccia, dobbiamo prosternarci all’istituto monarchico, dobbiamo incatenarci all’istituto monarchico, dobbiamo incatenarci per sempre al carro delle istituzioni attuali, lasciare immutato quel regime d’accentramento che inceppa l’esplicazione delle produttive attività, lo sviluppo delle migliori energie del paese sottoponendole ai vincoli di pesi ingiusti e di formalismi ingombranti, oh, allora amiamo si continui a chiamarci separatisti“. Repubblica e federalismo dunque, inteso come “federazione libera di regioni insieme collegate da un alto spirito di solidarietà fraterna per produrre una tutela efficace dei comuni interessi e del comune patrimonio ideale. In questo modo e soltanto in questo modo noi possiamo intendere ed intendiamo l’unità della patria“.
Mentre qualche sardista cerca la scorciatoia verso il federalismo nel restringerne i soggetti alle due grandi isole, la Sardegna e la Sicilia, già dotate, in passato, di statualità come antichi regni, Bellieni, fin dal primo congresso di Oristano, individua nella “pratica autonomistica” il percorso e “le linee direttive per la lotta discentratrice“. Anzitutto, come già aveva detto e fatto Tuveri, si rendevano protagonisti della battaglia federalista gli enti locali esistenti. Son questi che devono “conquistare […] la facoltà di liberamente consorziarsi per provvedere organicamente ed unitariamente ai problemi regionali, ecco il punto d’appoggio per la creazione dell’ente regione“. Questo snodo isituzionale essenziale del sistema federale “non dovrà sorgere da un atto grazioso del governo centrale, ma dalla libera volontà delle province che trasformeranno il consorzio in ente organico e lo costituiranno nelle forme più adatte alle sigenze dell’ambiente“.  La federazione è libera perché  è espressione della libera volontà di aggregazione delle comunità di base per il tramite delle deliberazioni dei loro enti esponenziali.
La riformulazione in senso autonomistico dell’ordinamento, per i sardisti, è un processo rivoluzionario che deve dar luogo ad uno stato federale. Se così non fosse, “dovremmo accontentarci della semplice riforma amministrativa, inserita nell’ordinamento statale attuale“, sul modello delineato nella relazione di Luigi Sturzo al congresso di Venezia del Partito popolare nell’ottobre del 1921. I cattolici popolari sostengono la creazione di un ente “elettivo, rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo“, senza però spezzare il cordone ombelicale  che lo lega a “tutta la pesante macchina statale del presente, quella che ci soffoca e ci opprime“. Ci sarebbero ancora prefetture e sottoprefetture e “l’ordinamento finanziario attuale, che accentra i tributi nelle casse dello stato“. Ci sarebbe la struttura piramidale con al vertice i ministeri e i fondi governativi alle regioni giustificherebbero un sistema pervasivo di controlli. “In definitiva tutti i mali che adesso affliggono l’attuale sistema - osserva il giovane dirigente sardista - resterebbero aggravati dalla creazione di una nuova burocrazia che si aggiungerebbe a quella romana, a quella prefettizia, a quella provinciale, a quella comunale“.
In definitiva, ciò che distingue le regioni ipotizzate dai sardisti da quelle volute da Sturzo è che “avranno una potestà d’impero con la quale esse potranno liberamente esplicare la loro volontà nei limiti della sfera di competenza della comunità superiore“. Una specie di sovranità in capo alle regioni, dunque, per non essere riassorbite nel comando statale. Sennonché - soggiunge l’intellettuale sardista - la “vera e propria sovranità, [è] un potere d’impero e indipendente e illimitato e illimitabile da altre volontà diverse dalla propria“; quindi, la limitazione è possibile, ma spetterà al solo Stato federale. Un vero rompicapo due sovranità entro lo stesso ordinamento, l’una regionale, l’altra statuale e quest’ultima “illimitata e illimitabile” secondo le teorie in voga fra i giuspubblicisti del tempo. Lo avverte lo stesso Bellieni, fresco di laurea in giurisrudenza. “Di fronte a questa distinzione - egli osserva - molti costituzionalisti obietteranno che una distinzione fra sovranità e potere d’imperio non regge dal punto di vista giuridico“. Ed è così. Ma Bellieni se la cava sbrigativamente con uno slogan: “il diritto segue sempre la storia“. La verità è che il giovane giurista sardista rimane ancorato all’idea tradizionale di sovranità, che sta in capo allo Stato o alla nazione, mentre la sua tesi, per non essere contraddittoria, deve fondarsi su un concetto diverso di sovranità, quella popolare, che promanando dal basso, dalle comunità le attraversa tutte, dal comune allo stato, passando per le province e le regioni; un’elaborazione rivoluzionaria, questa, ancora di là da venire, se ancora oggi è professata da pochi (A. Pigliaru; A. Pubusa). Ma l’idea andava nella giusta direzione, ossia quella di una sovranità interna popolare, che sta in capo alle comunità ai vari livelli e si esprime attraverso gli enti esponenziali di esse, al di fuori di relazioni gerarchiche. Questo in fondo i sardisti, al di là delle costruzioni teoriche, vogliono dire quando parlano di una federazione libera di comuni, province, regioni e Stato. “Dal Comune allo Stato attraverso la Regione“. Questa è l’insegna dei sardisti (Pintus).
Com’è noto, la linea federalista sarda fu avanzata con forza da Emilio Lussu in Assemblea Costituente, ma fu respinta, come lo fu nella Consulta regionale sarda l’idea di dare alla Sardegna lo stesso Statuto della Sicilia. Ci prendemmo il micio anziché il leone, come sarcasticamente osservò Lussu.

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