Berlusconi non deve diventare Presidente della Repubblica. Il destino prossimo della democrazia italiana

19 Gennaio 2022
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Alfiero Grandi

Desta sconcerto il solo fatto che se ne discuta. Se la destra italiana non sa proporre di meglio vuol dire che ha subìto un grave processo di involuzione politica che ricorda la deriva trumpiana dei repubblicani negli Usa, e tenta di trovare nella frattura politica del paese (noi e voi) il fondamento della sua unità, visto che al suo interno in realtà concorrenza e sgambetti sono all’ordine del giorno. La questione in campo è la democrazia. Lo è negli Usa come ha chiarito Biden a quanti sottovalutano tuttora l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Lo potrebbe diventare anche in Italia. In più, la credibilità dell’Italia nel mondo prenderebbe un grave colpo, sia dagli autocrati che ne sarebbero contenti, sia per lo sconcerto che susciterebbe in chi crede nelle istituzioni democratiche, perché la democrazia non è, o non dovrebbe essere, un gioco riservato ai super ricchi e potenti, anche se negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi. Per questo è bene non sottovalutare i rischi, non fare finta di nulla, non sminuire i problemi, non abbozzare.

Il Presidente Mattarella ha ormai concluso il suo congedo da tutti in Italia e nel mondo. La forzatura per farlo restare dovrebbe essere molto forte, quasi una costrizione, ed è perfino difficile capire se sarebbe sufficiente. Sappiamo anche che rieleggere il Presidente in carica non è usuale, pone problemi non di poco conto dal punto di vista della Costituzione, perché le sue disposizioni rischiano di essere interpretate come una pelle di zigrino. Non a caso in Senato è stata presentata una proposta di modifica costituzionale che prevede la non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, ritenendo che fino alla sua entrata in vigore sia quindi possibile reiterare il mandato, una sorta di una tantum. Solo per dire quanto sia ancor più delicata da accettare la proposta di rielezione per un costituzionalista come Mattarella che in passato si è pronunciato in materia. Da tempo si parla di altre candidature di varia natura, esprimendo criteri come personalità autonoma, sincero democratico, in grado di unificare schieramenti oggi fortemente divisi. Anche un grande mago si starebbe chiedendo se sia possibile dare una risposta nominativa. La fantasia politica sembra finora non abbia dato risultati adeguati.

È quindi inevitabile che si discuta della candidatura di Draghi, malgrado la preoccupazione che questa elezione possa destabilizzare il governo.

Draghi è un candidato che pone delicate questioni costituzionali perché non c’è mai stato un presidente del Consiglio che sia diventato Presidente della Repubblica, anche se il prof. Ainis ha individuato chiaramente un percorso che consentirebbe di non contraddire la Costituzione, dando le dimissioni del Governo (quindi di Draghi) nelle mani di Mattarella, il quale potrebbe anche iniziare subito il percorso di consultazione. Nel caso l’esplorazione non desse esito passerebbe al suo successore il “semilavorato” con il compito di concludere fino all’incarico di formare un nuovo governo, con un altro presidente del Consiglio. Se i partiti che oggi condividono la maggioranza non fossero in grado, come è probabile, di dare vita ad una coalizione, il nuovo presidente del Consiglio non può e non deve rispondere – nemmeno per scherzo – alle indicazioni di Giorgetti, che sono contra Costituzione, cioè essere il franchising di Draghi a Palazzo Chigi. Questo non si può fare, anzi sarebbe un disastro.

L’alternativa potrebbero essere elezioni subito oppure un governo di ristretta maggioranza o anche di minoranza ma con un patto politico con l’opposizione, indicando con chiarezza le poche cose da fare prima delle elezioni politiche. La legge elettorale, ad esempio, non deve fare parte del patto di governo ma essere invece un impegno politico centrale del parlamento per il periodo che resta della legislatura, cioè un impegno dei partiti. È stato un errore non avere affrontato il problema nella finestra politica del dopo legge di bilancio per approvare una nuova legge elettorale. Perché carica ancora di più i problemi da risolvere ora ed espone al ricatto che resti in vigore una legge elettorale sbagliata e inaccettabile, che si intreccia al disastro del taglio dei parlamentari compiuto nel modo sbagliato che sappiamo, con due Camere ridotte e meno rappresentative. Una Camera sola con 600 deputati sarebbe già stata cosa diversa, discutibile ma diversa, purtroppo ha prevalso l’opportunismo (di quasi tutti) e la richiesta del M5Stelle ha prevalso. Ormai è cosa fatta, sbagliata ma fatta.

Il governo ha compiti impegnativi da affrontare. La pandemia anzitutto ma anche la ripresa economica e sociale attraverso la spina dorsale del PNRR e le scelte di transizione economica e sociale, indispensabili quanto difficili. Starace, amministratore delegato dell’Enel, ha detto a proposito della transizione energetica che gli investimenti nelle rinnovabili che si affrontano oggi non sono un costo ma un investimento sul futuro, attuarli è conveniente. Queste parole sono una rivoluzione che difficilmente abbiamo sentito, lontane dal conservatorismo diffuso nelle grandi aziende pubbliche e nelle altre imprese. Non a caso Deloitte Italia ha detto che se l’Italia si impegna, nel 2043 potrebbe essere il primo grande paese europeo ad arrivare al nuovo equilibrio energetico, anni prima degli altri paesi.

Per una valutazione su Draghi al Quirinale bisogna anzitutto dare una valutazione dell’azione del governo. Non siamo pochi a pensare che Draghi abbia esaurito parte della sua spinta propulsiva, mettendo in evidenza che sul merito delle scelte qualcosa è mancato e non tutto può essere attribuito alla natura contraddittoria della maggioranza, quindi al freno tirato della destra, e alla debolezza delle sinistre parlamentari che hanno fatto sentire la loro voce troppo poco. Ci sono anche responsabilità del presidente del Consiglio, che, come abbiamo visto nelle ultime settimane della pandemia, era quasi prigioniero dell’esigenza di valorizzare le scelte fatte anche quando era chiaro che c’erano stati limiti ed errori da correggere.

Resta ancora da capire perché verso le partite di calcio ci sia stata un’attenzione e un riguardo che non ci sono stati verso altri ambienti ben più importanti come la scuola, ad esempio.

La scelta di non fare chiusure per il governo andava confermata in ogni modo anche con differenze di atteggiamento tra settori di intervento. Così sulle questioni sociali e sul PNRR. Con i sindacati non ci sono mai state vere trattative, hanno dovuto prendere atto delle decisioni del governo. Dispiace dirlo, ma Ciampi aveva ben altro spessore politico, la sua idea di concertazione si può discutere ma oggi sembra un sogno rispetto al rapporto attuale tra governo e parti sociali. Ciampi usava il rapporto con le parti sociali per spingere a una diversa sensibilità le forze politiche, oggi è il contrario. Anche gli appelli disperati a contrastare seriamente le chiusure delle multinazionali in Italia sono caduti nel vuoto, il decreto in discussione fa ricordare il rapporto tra montagna e topolino. Il tavolo a lungo invocato per le pensioni sembra essere posticcio.

Anche il PNRR non va. Cingolani è un pessimo ministro della Transizione ecologica, perfino l’ad dell’Enel dice cose più forti di lui. Ha cincischiato sul nucleare, vagheggiando diversità e novità che non ci sono, ma soprattutto al dunque ha dato un assist a Macron sulla tassonomia verde europea (inserire anche il nucleare e il gas che di verde non hanno nulla). Invece sulle rinnovabili, le semplificazioni per sbloccare gli investimenti fermi (solo nell’eolico off shore secondo Terna valgono 17 GW) non hanno dato risultati e gli investimenti nel fotovoltaico sono tuttora sotto i livelli passati, figuriamoci rispetto a quelli futuri promessi. In realtà non c’è un piano energetico aggiornato, con relative priorità, tutto sembra funzionale a poter dire tra un poco che solo il gas ci può salvare. Invece il gas fossile affosserebbe insieme la lotta al cambiamento climatico e la diminuzione delle tariffe elettriche. Risulta che Cingolani abbia detto in un incontro riservato di avere sentito per la prima volta che i pompaggi idroelettrici valgono 7,6 GW da impiegare per bilanciare la rete nei momenti di bisogno. Per questa insufficienza politica pesano tanto i conservatori politici e gli interessi frenanti, altrimenti staremmo discutendo di idrogeno (suggerimento di Kerry, inviato speciale di Biden), di riconversione verde delle acciaierie e delle aziende energivore, con piani, investimenti, obiettivi precisi. Giorgetti non se ne occupa.

È questo il limite del governo, avere pensato che 240 miliardi da qui al 2026 si mettano in moto da soli e che non servano progetti, piani, obiettivi chiari per tutti. Così i bandi sono modalità che potrebbero portarci a spendere tanto senza realizzare il cambiamento del nostro sistema produttivo e sociale. I limiti del banchiere sono evidenti. Il metodo del cercare il giusto mezzo pure. Il risultato è che rischiamo di arrivare in ritardo e in modo non adeguato. La cabina di regia di fatto non c’è e la cabina con i sindacati, le imprese, le associazioni ambientaliste ancora meno.

Draghi potrebbe forse arrivare alla fine della legislatura, ma conviene? A lui anzitutto, al paese di conseguenza? Prima che sia troppo tardi non conviene prendere atto dei limiti che si sono accumulati e per evitare di perdere il ruolo di una persona che comunque oggi è nel bene e nel male un elemento protettivo dall’instabilità dei mercati, una garanzia?

Se queste valutazioni sono fondate, almeno in parte, la scelta migliore per il nostro paese è Draghi alla Presidenza della Repubblica per evitare di perderlo, perché questo diventerebbe un serio problema e lo spread potrebbe ricordarcelo molto presto. Certo un discorso politico chiaro va fatto prima a lui anzitutto: l’Italia è una Repubblica parlamentare, non presidenziale. Detto questo, non c’è alcuna ragione per non uscire da una fase di minorità della politica e dei partiti, e neppure è indispensabile che tutte le scelte debbano essere fatte dalla stessa ampia maggioranza, questa è una dichiarazione priva di fondamento. Se il centro sinistra ha chiaro che l’interesse del paese viene prima di tutto deve procedere votando il Presidente dalla prima votazione, deve scegliere, non giocare di rimessa. La destra deciderà cosa fare sul Presidente della Repubblica, se si assumerà la responsabilità di bocciare la proposta, contrapponendo Berlusconi a un altro nome, sapremo che c’era una trappola pronta a scattare.

Dopo l’elezione del nuovo Presidente saranno i partiti a dovere decidere chi governerà e hanno un ampio ventaglio di possibilità, dal confermare la maggioranza attuale con pochi e chiari compiti fino ad un governo di minoranza che comunque ha bisogno di un patto con l’opposizione sugli stessi punti, pochi e chiari.

Dopo si tornerà a votare e il paese deciderà da chi vuole essere governato perché protrarre oltre le ambiguità e i compromessi discutibili non conviene a nessuno, né a destra, né a sinistra.

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