Carbonia. Nei luoghi di lavoro si discute dei consigli di gestione

15 Agosto 2021
1 Commento


Gianna Lai

E’  ferragosto, ma noi proseguiamo a narrare la storia di Carbonia, come ogni comenica  dal 1° settembre 2019.

.
“Costanti  sintomi di agitazione pervadono l’animo di quelle masse operaie, che avrebbero intenzione di proclamare lo sciopero nel caso fallissero le trattative sui Consigli di gestione”, comunica il questore al prefetto di Cagliari nell’ottobre del 1947.
I famosi Comitati di Gestione, già affiorata precedentemente in maniera esplicita l’opposizione di alcuni ministeri alla istituzione di quella “commissione consultiva composta di operai, tecnici e impiegati”, che avrebbe dovuto collaborare con l’Amministratore  delegato, secondo gli accordi fra CGIL e Carbosarda, firmati fin dai primi mesi del 1945, in occasione della visita a Carbonia di Aladino Bibolotti, dirigente nazionale CGIL. L’appoggio viene invece dal PCI e dal Sindacato, da Renzo Laconi, come riferisce la prof.  Di Felice, il dirigente comunista li sosteneva ed era  “d’accordo con Marco Giardina sull’istituzione dei Consigli di gestione, perché gli operai divenissero parte attiva dell’azienda, onde assicurare migliori condizioni di lavoro in miniera”.   Dal Partito comunista e dal Sindacato il sostegno ai 365 Consigli già esistenti in Italia, e alle agitazioni operaie che ne chiedono  l’istituzione, partendo dal disegno di legge Morandi-D’aragona, così la Camera del lavoro di Carbonia nel Sulcis, “le masse del bacino carbonifero si uniscano al movimento generale di partecipazione dei lavoratori, per il miglioramento tecnico ed organizzativo delle aziende, a fianco ai Consigli di amministrazione”.
I Consigli di gestione vennero istituiti nelle fabbriche del Nord Italia occupato, con decreto del CLNAI il 25 aprile del 1945, “organo collegiale composto di un presidente e di rappresentanti, in pari numero, del capitale e dei prestatori d’opera”, come si legge nel rapporto informativo  tenuto da Emilio Sereni, il 16 settembre 1945. Sulla base di una effettiva solidarietà nazionale, “ai lavoratori sia assegnata la parte e la responsabilità che loro spetta, nell’opera di ricostruzione del paese… per realizzare il ribasso dei costi di produzione e per combattere il sabotaggio e i licenziamenti ingiustificati, ….perchè l’opera di ricostruzione si realizzi nell’interesse dell’Italia, del popolo, dei lavoratori, facendo affidamento sulle nuove classi dirigenti, operai, tecnici, impiegati che hanno fiducia nelle proprie forze e nell’avvenire del paese…..e sui quei capitalisti che onestamente orientino la loro attività nel senso produttivo e non speculativo”. Organismi con potere deliberante, sull’orientamento produttivo dell’azienda, sul controllo della produzione, delle assunzioni, dei licenziamenti di manodopera e sui costi di produzione e i prezzi di vendita, erano nati durante la Resistenza, nel vivo della lotta, dalle necessità  imposte a seguito del fallimento politico, economico, militare delle classi dirigenti. Avendo, “al momento della Liberazione i CLN aziendali, assunto il controllo delle fabbriche che, così, divennero la sede di una intensa attività politica”, come ricorda la studiosa Bianca Beccalli.
I Consigli furono il naturale sviluppo delle Commissioni straordinarie di gestione, provenienti direttamente  dai CLN aziendali,  formatesi durante l’occupazione delle fabbriche, dopo la fuga dei padroni compromessi col fascismo. Le aziende maggiori erano gestite da Consigli operai, sotto l’azione coordinatrice di commissari nominati dai Comitati di liberazione nazionale, spiega Sergio Turone, e poi di quel decreto che li avrebbe istituiti, il 25 aprile 1945, di cui fu presto chiesta la ratifica, nel novembre dello stesso anno, da parte di tutti i rappresentanti politici aderenti al CLNAI. I quali  approvarono un documento in cui si sollecitava “l’introduzione, nelle imprese industriali, di organismi che permettano ai lavoratori di partecipare più attivamente al processo produttivo dell’azienda”, così politicizzata l’organizzazione sindacale,  se ancora al tempo del governo Parri, “su molte fabbriche  di Torino e Milano sventolava la bandiera rossa…. anche se questo non voleva dire che fossero cambiati i rapporti sociali”.
Sempre costituiti non per legge ma attraverso accordi, i Consigli ebbero poi funzioni consultive, nei riguardi della direzione aziendale, “sulla politica del lavoro in fabbrica e sull’organizzazione  materiale della produzione”, secondo Bianca  Beccalli, “spesso uno degli strumenti  mediante il quale passò, a livello di fabbrica, la politica della ricostruzione del PCI, usato per stimolare, nei primi due anni del dopoguerra, i ritmi di lavoro, la disciplina e la produzione”.
Ma fin da subito contrari ai Consigli gli imprenditori del Nord,  chiedendo il ripristino della “gerarchia aziendale”, una volta concluse le gestioni commissariali nelle fabbriche italiane,  nè avrebbero gli  americani mai sostenuto, con i loro aiuti, le aziende aperte alla  rappresentanza degli operai, come sottolinea ancora Sergio Turone nella sua Storia del sindacato in Italia. La Confindustria “sprezzantemente scettica”, invita esplicitamente il governo a evitare di  introdurli  in fabbrica sicché, una volta spentosi lo spirito del ‘45, “prevalse il carattere consultivo, nel progetto di legge Morandi D’Aragona del 1947 sui Consigli di gestione”, tuttavia mai approvato dal Parlamento.  E da quel momento in poi, “di fatto, la materia fu disciplinata attraverso accordi aziendali, che non attribuirono agli organismi effettivi poteri di controllo”, escludendoli in concreto “dalla gestione stessa della fabbrica”.
La proposta di legge  Morandi-D’Aragona assegnava infatti ai Consigli potere deliberativo solo “sul loro funzionamento e sulle somme da destinare alla protezione sociale”, mentre  si sarebbero dovuti limitare a prendere atto delle comunicazioni degli organi direttivi sui costi di produzione,  sull’acquisto di materie prime, sulle spese e sui piani di finanziamento. L’appoggio venne ancora dalle sinistre e dal sindacato, per un Consiglio di gestione “organismo  non sindacale e non destinato a scopi rivendicativi”, come dice ancora Bianca Beccalli,   mentre si rafforzava  “l’ostilità degli imprenditori”, la Fiat, in particolare, “a vibrare il colpo forse determinante, denunciando nel 1949 l’accordo costitutivo, sulla base dell’accusa di anticollaborazionismo mossa ai Consigli di gestione. Episodi analoghi anche in altre aziende del Nord, come ricorda ancora  Sergio Turone.
Ci  sembra importante definire l’antefatto e il quadro nazionale che, oltre a cercare di descrivere l’organismo, può aiutare anche a capire il clima diverso, rispetto al 1945, in cui si colloca la lotta per i Consigli di gestione a Carbonia, tra il 1947 e il 1948, ma ci aiuta in particolare a capire in quale contesto i dirigenti il movimento collocassero il discorso sulla rigenerazione dell’impresa carbonifera, sullo sviluppo del territorio, sul potere di controllo che la classe operaia  avrebbe dovuto esercitare nella miniera. Pur notando come, al centro del discorso restino sempre, anche nella sinistra, le questioni che riguardano i livelli produttivi, l’aumento della produzione  e la compressione dei costi, l’efficienza organizzativa e produttiva, a fronte del mantenimento della struttura dell’impresa stessa così come è. Certo in un contesto di difesa dell’occupazione e invocando una “riforma industriale… ispirata agli interessi del paese e non di  ristretti ceti sociali”, riconversione dell’economia italiana e  ricostruzione, “nell’interesse nazionale.

1 commento

Lascia un commento