Cuba e la guerra egemonica dell’Occidente contro gli “Stati canaglia”

20 Luglio 2021
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Gianni Fresu

Il ritorno dei democratici alla Casa Bianca ha coinciso con una nuova durissima offensiva contro Cina e Russia e tutto il composito fronte dei cosiddetti “Stati canaglia”, la cui finalità è sbarrare il passo a qualsiasi ipotesi di sviluppo multipolare della politica internazionale e ripristinare l’incontrastato dominio degli Stati Uniti sul mondo, rimediando alla profonda crisi di immagine e di relazioni che Washington ha vissuto negli ultimi anni. In tal senso vanno lette le preoccupazioni di UE e USA emerse nei recenti incontri tra i vertici delle rispettive istituzioni: il rischio che parte importante dei fondi del Recovery plan possa finire nei bilanci delle aziende cinesi, dato che, come abbiamo potuto leggere sui giornali, “sul mercato europeo praticamente non esistono capacità tecnologiche e dimensioni aziendali” adeguate ai progetti di riconversione ecologica del piano. Da tali preoccupazioni emergono due valutazioni di ordine generale utili a sviluppare il nostro discorso: 1) la Cina sta vincendo la sfida tecnologica con l’Occidente, a suo tempo persa dall’URSS; 2) UE e USA basano le proprie istituzioni sulla mistica ideologica del primato del mercato, ma, in concreto, il “laissez faire” è sacro solo se soddisfa i nostri interessi. Quando così non è qualsiasi mezzo di contrasto protezionistico è ritenuto lecito, alla faccia di tanta retorica sulle capacità di autoregolamentazione del mercato. Tutto ciò dimostra il relativismo di valori (liberisti a targhe alterne) e la mai risolta pretesa di supremazia coloniale delle società liberaldemocratiche occidentali sul resto del mondo.
All’interno di quest’operazione politica la narrazione gioca un ruolo di primissimo piano, dunque merita di essere approfondita per capirne l’importanza. La lotta per il monopolio dei mezzi di comunicazione di massa, vinta definitivamente dal liberalismo dopo l’89, ha trasformato l’informazione in un immenso megafono a disposizione di un’unica rappresentazione (interessata) degli avvenimenti, capace di arrivare ovunque e orientare pure i più distratti. La forza dell’Occidente così non è solo il ricorso sistematico al dominio verso i nemici che non si piegano, ma è anche e soprattutto egemonia verso alleati o potenziali tali. Perché i rapporti di forza non si reggono solo sull’esercizio del dominio, ma necessitano dell’egemonia, dunque hanno bisogno di un esercito di politici, intellettuali, divulgatori e giornalisti arruolati in difesa di una sola narrazione possibile delle cose. In questo modo, per un lato si crea attraverso l’ideologia un conformismo capace di unificare le proprie classi dirigenti, per un altro, si usa quella stessa visione del mondo per irreggimentare i gruppi subalterni. Se poi non bastasse la direzione resta sempre a disposizione la forza, anche brutale se serve, come la politica di Israele sulla Palestina (sostenuta con forza e convinzione dalle “potenze democratiche”) ci ricorda ogni giorno.
In tal senso, al di fuori del campo occidentale con i suoi alleati, il tema dei diritti umani violati diventa il più delle volte un abilissimo pretesto strumentale a supporto degli eserciti occidentali, più o meno come lo furono le armi di distruzione di massa attribuite agli arsenali di Saddam. Del resto, per un alleato di ferro come l’Arabia Saudita non sentiamo parlare di dittatura, totalitarismo, violazione delle libertà individuali, e nessuno si sogna di chiedere o imporre sanzioni verso un regime reazionario e autoritario come questo, tra i più smaccatamente liberticidi sulla faccia della terra.
All’interno di questa guerra interminabile tra l’Occidente e i suoi “nemici”, Cuba, ossessione eterna che ricorda a Washington una delle sue più cocenti e storiche sconfitte, rimane una ferita aperta per rimarginare la quale qualsiasi occasione è buona. L’attuale quadro di depressione mondiale, ad esempio, offre un’opportunità destabilizzante unica e irripetibile. Gli effetti negativi della pandemia sull’economia mondiale sono noti ed evidenti a tutti, tanto nelle periferie dello sviluppo capitalistico quanto nella metropoli della civilizzazione occidentale. Negli USA, ad esempio, si è registrato un aumento esponenziale di nuove povertà e l’incremento vertiginoso nei numeri della popolazione senza un’abitazione costretta a vivere per strada. Inevitabilmente tutto ciò ha avuto ripercussioni pure su un’isola come Cuba, costretta da sessant’anni a tirare la cinghia dall’embargo imposto da Washington, che ha tra le sue voci di entrata principali il turismo, forse uno dei settori più colpiti da questa crisi. Nonostante tutto ciò, Cuba ha saputo affrontare la pandemia meglio di tanti Paesi occidentali, al punto da poter inviare suoi medici in varie parti del mondo (Italia compresa), garantendo alla popolazione quelle condizioni minime di esistenza altrove negate. I vari lockdown e il conseguente blocco degli spostamenti da un Paese all’altro hanno però colpito quella parte di popolazione che viveva e traeva sostentamento dalle attività connesse al turismo. Tutto questo ha portato a manifestazioni di protesta che hanno coinvolto Cuba, esattamente come è accaduto in questi mesi in tante altre parti del pianeta. Ma se il malcontento e le mobilitazioni in Occidente hanno dato luogo a brevi e asciutti resoconti giornalistici, nel caso di Cuba la nostra stampa non ha perso tempo per dargli un significato sistemico, assumendole a paradigma di un fallimento economico sociale, oltre che giuridico costituzionale. Così, su giornali e programmi di approfondimento abbiamo sentito parlare ripetutamente di “diritti umani violati” e della povertà strutturale di Cuba. Tuttavia, un giornalismo minimamente serio, anche nel denunciare una situazione critica di questa realtà, dovrebbe avere l’onestà di confrontare lo standard di vita di questa nazione non con l’opulento Occidente, ma con le altre isole caraibiche a poche miglia nautiche di distanza. È sufficiente guardare lo stato di indigenza senza fondo di una realtà vicinissima, e teoricamente con le stesse risorse naturali, come Haiti (che nemmeno ha subito per più di sessant’anni un durissimo embargo economico) per farsi un’idea minima della strumentalità di queste argomentazioni. Come Raul Castro fece notare, rispondendo a muso duro alle idiozie di Obama, la prima grave violazione dei diritti umani consiste nel privare un popolo dell’assistenza sanitaria e delle condizioni essenziali di vita. Quando la regola è la miseria assoluta e la totale assenza di diritti sociali, l’esercizio delle cosiddette libertà individuali, sebbene solennemente proclamate, è una pura utopia che diventa realtà solo per una parte minoritaria della società. Senza uguaglianza sostanziale l’uguaglianza formale resta purtroppo un ipocrita esercizio di scuola. Basta vedere la condizione degli afroamericani e la composizione sociale delle carceri negli USA per capirlo. Prima della rivoluzione, Cuba era il bordello degli americani, la popolazione viveva nella miseria e senza istruzione, priva di assistenza sanitaria e costretta a ogni forma di sfruttamento per sfuggire alla fame, quella vera. La “rivoluzione contro la rivoluzione” di cui a sinistra blatera chi non ha mai fatto in vita sua né la prima né la seconda, con gli attuali rapporti di forza e il quadro politico internazionale sfavorevole, significherebbe solo restaurare quella condizione di assoggettamento coloniale e malavitoso spazzata via nel 1959. Per tutte queste ragioni l’appoggio a Cuba contro le destabilizzazioni eterodirette dell’Occidente ha un valore che va ben al di là delle vicende di quest’isola, costretta da più di mezzo secolo alle vessazioni criminali di Washington (embargo, tentativi di invasione, atti terroristici) per essersi ribellata al suo dominio.
Nella storia recente abbiano già visto operazioni come questa, ad esempio con la morte di Fidel Castro (l’uomo che ha osato sfidare, e persino sconfiggere, gli USA nel loro cortile di casa,) che a suo tempo scatenò la canea e lo spirito di rivalsa di quanti non gli seppero tenere testa in vita.  Così abbiamo assistito a strumentali letture all’ingrosso, anatemi e condanne scomposte perché di questo uomo non rimanesse nemmeno un ricordo vagamente positivo. Un’offensiva ideologica che ha esercitato la sua capacità di attrazione egemonica anche a sinistra, tra quanti hanno colto la palla al balzo per mostrare le incongruenze della rivoluzione cubana, parlando di tradimento e occasione mancata. Sul piano della coerenza tra teoria e prassi, è bene ricordare che ogni rivoluzione, scontrandosi con la realtà concreta (con le azioni e reazioni previste o impreviste), finisce per creare un quadro nuovo sempre differente da quanto era stato precedentemente teorizzato e idealizzato. È inevitabile, così è stato per la Rivoluzione francese (ciò nonostante continuiamo a considerala un fondamentale atto di liberazione universale), così è per tutte le rivoluzioni liberali che, al di là dei principi, hanno finito per istituzionalizzare forme di povertà sconfinata, esclusione e marginalizzazione sociale aberranti e inumane, non certo messe in conto dai vari Constant, Locke, Smith e Bentham. Esiste però una profonda differenza, sulla quale Domenico Losurdo più volte ha sollecitato attenzione, nei ragionamenti in merito: quando si dibatte dei teorici e dei protagonisti delle rivoluzioni socialiste inevitabilmente ci si concentra solo sulle contraddizioni dei processi reali da loro generati, mai sugli aspetti progressivi; quando facciamo riferimento invece ai teorici del pensiero liberale (“i classici”) parliamo dei valori universali di fratellanza e libertà individuale da loro teorizzati, mai della miseria, delle guerre di rapina e del dominio coloniale o della rigida divisione in classi, caratteristiche delle società liberali reali. Nel primo caso ci si sofferma solo sui limiti dei processi storici reali, nel secondo sulle petizioni di principio e le spinte ideali dei suoi pensatori. Già in questa inversione nei termini del ragionamento si nasconde una chiara vittoria egemonica del pensiero liberale sulla quale non si riflette mai abbastanza. In tal senso, credo, si spiega un giudizio storico generalizzato e consolidato: Kennedy è considerato il profeta della “nuova frontiera”, non il protagonista della guerra in Vietnam, dello sbarco alla baia dei porci e dell’assenso-consenso a tutte le operazioni più spericolate e antidemocratiche della CIA; Castro è invece stato presentato come un oppressore, non come colui che ha lottato tutta la vita per la affermazione dei diritti sociali e l’autonomia del suo popolo dal dominio imperialista americano. Fino a quando non ci libereremo delle visioni ideologiche avversarie, facendoci veicolo inconsapevole di categorie e rappresentazioni funzionali a altre visioni del mondo, il destino della sinistra è di rimanere nel terreno melmoso della subalternità e inutilità storico-sociale di oggi.

Pubblicato anche su Marxismo-oggi

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