Indipendentismo: un tabù per la sinistra?

26 Maggio 2009
9 Commenti


Sergio Ravaioli

La recente mozione dei consiglieri regionali del PSd’Az per l’indipendenza della Sardegna  ( http://www.sardegnaeliberta.it/ ) stata accolta dalle imbarazzate risposte dei partiti della maggioranza di cui il PSd’Az fa parte e da un assordante silenzio da parte dei partiti di opposizione.
Capisco che dall’internazionalismo – il quale però ha segnato la storia di soltanto una parte dei partiti di opposizione - all’indipendentismo il salto è grande, ma a grandi salti la sinistra italiana dovrebbe esserci ormai abituata. Ed i motivi di scontento dell’appartenenza ad una nazione che ci offre ogni giorno occasioni di vergognarcene dovrebbero pesare anche a sinistra.
Ormai non si tratta più soltanto della scarsa qualità del sistema Italia, ma sempre più spesso superiamo anche il limite della decenza. Ed alle contingenze del vaudeville quotidiano che ci offre la cosiddetta cronaca politica va sommata la ben più seria devastazione del sistema giudiziario (anche, se non sopratutto, civile), del sistema previdenziale, della politica dell’abitazione e di assistenza alle famiglie, della pubblica amministrazione, etc. etc. Per non parlare dell’asservimento del sistema dei partiti, che ha visto appena tre mesi fa la competizione per il governo della Sardegna svolgersi tra un candidato scelto ad Arcore ed uno scelto a Roma!
Conosco l’obiezione numero uno: nei settori in cui la Sardegna ha avuto ampia autonomia, ad esempio nell’Università, non si è comportata meglio dello stato Italiano. Vero. Però anche per i sistemi gestiti localmente valgono le furbesche, e talvolta mafiose, regole nazionali. E poi la consapevolezza dell’irrilevanza della Sardegna (in primis numerica, ma non solo), scoraggia ogni impegno per modificare le regole imperanti, anche se ritenute infami.
Non ho sentito a sinistra impegnative riflessioni sulle modifiche che l’affermarsi dell’Europeismo ha introdotto nel tradizionale paradigma dell’organizzazione Statuale. In una nazione relativamente giovane come l’Italia, non si comprende perché Sardi, Veneti, Liguri, etc. etc. dovrebbero “sentirsi” Italiani ancor prima che Europei (inciso: da poco ho scoperto l’esistenza di un serio movimento per l’indipendenza anche in Liguria: http://www.mil2002.org/ ).
Al riguardo si interrogano prestigiosi personaggi di formazione liberale (riporto appreso un recente intervento di Pietro Ottone, ex direttore del Corriere e del Secolo XIX), ma tutto tace sul versante sinistra / centrosinistra.
E’ possibile utilizzare questa utile ed importante Agorà per sentire qualche opinione in proposito?

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Intervento di Piero Ottone su “Il Venerdì di Repubblica” del 24 aprile 2009:

E SE, COME STATO, CI SCEGLIESSIMO L’ EUROPA?
Ho un’idea. Siamo tutti d’accordo che l’Italia, così com’è, non va. Niente funziona: il governo è inefficiente, i ministri un giorno fanno un annuncio e il giorno dopo lo smentiscono, la burocrazia è quella che è e i ministri dicono che ci sono tanti fannulloni, i giudici non giudicano, la polizia è senza soldi, le prigioni non sono abbastanza grandi per contenere i detenuti, le province sono inutili ma nessuno le tocca. Che l’Italia non va lo diciamo tutti i giorni. Ebbene: se la cancellassimo?
Non è una battuta. Prima di credere che io stia scherzando vi prego di prestarmi per qualche istante la vostra attenzione. L’elenco dei malanni è noto. Da qualche tempo, tuttavia, ci siamo resi conto che non sono nati ieri: si tratta di malanni molto antichi. Già il Machiavelli, come ho appreso da una citazione che ho letto l’altro giorno, scrisse che gli italiani, quando sono da soli, sono bravi, ma messi insieme fanno disastri. Giacomo Leopardi disse tante cose dello stesso tenore. Se i mali sono antichi, è segno che non sono passeggeri. E adesso un giovane storico, il professore Alessandro Barbero, ha spiegato l’origine della nostra debolezza. Quando stavano formandosi in Europa, dopo l’età dei barbari, i nuovi regni, Federico Barbarossa, che era re di Germania oltre che Romano Imperatore, tentò di dar vita anche a un regno d’Italia. Sarebbe stato un buon inizio. Ma i Comuni, quei famosi Comuni di cui andavamo tanto fieri, riunitisi in una famosa Lega glielo impedirono. E così, mentre sorgevano e si rafforzavano gli Stati unitari d’Europa, che erano all’origine delle future grandi potenze, il regno d’Italia non si fece mai. Poi cercammo di rimediare, a partire dal 1860. Ma ormai era troppo tardi. Il Regno d’Italia di Vittorio Emanuele II e dei successori non era in grado di recuperare il tempo perduto. Ecco la ragione per cui lo Stato non funziona. Irrecuperabile? E allora cancelliamolo.
Sembra un paradosso, ma così non è. Il progetto dell’Europa unita. In fondo, mirava proprio a questo: una federazione che superasse i singoli Stati in un Superstato multinazionale. Il nazionalismo delle singole componenti ne impedì la formazione. Per raggiungere il traguardo sarebbe utile che i singoli Stati si sciogliessero. Per ora non ci pensano. Ma a noi italiani piace essere sempre i primi, e potremmo dare l’esempio. Chi sa: forse ci ritroveremmo nella penisola di fronte a poliziotti inglesi, burocrati svedesi, qualche giudice olandese … Ci pensate, che fortuna sarebbe?

 

 

 

9 commenti

  • 1 M.P.
    26 Maggio 2009 - 10:48

    L’”assordante silenzio” è poca cosa rispetto alla feroce opposizione nei confronti dell’idea indipendentista da parte della Sinistra tutta.
    Nonostante lo steso Gramsci non fosse insensibile all’idea (ma lui giustamente ai suoi tempi seguiva progetti di più ampio respiro) gli intellettuali e la Sinistra sarda hanno sempre scoraggiato e spento sul nascere qualunque possibilità di sviluppare un dibattito sulla questione, e io stesso, attivista del PCI, non andavo troppo a sindacare su questo fatto.
    Già da tempo sono andato convincendomi che i “grandi principi” hanno bisogno di essere calati-applicati nella realtà vera dove si scoprono contraddizioni insospettabili e persino errori macroscopici che, con analisi e progetti più direttamente orientati verso singoli popoli-territori, potevano essere evitati.
    L’ “impero universale di Dante” o l’autorità dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite sono sicuramente da auspicare, nella forma più democratica possibile, ma ciascuna realtà, grande o piccola, ai diversi livelli, deve costituire una Unità autonoma perché possa meglio organizzare le proprie risorse e la vita dei propri cittadini.
    Fra tutte le realtà individuabili, la Sardegna è sicuramente fra quelle che hanno le più chiare prerogative per costituire una Unità autonoma. L’indipendenza dallo Stato italiano e l’inserimento in realtà più complesse come Unione del Mediterraneo o Unione europea le si addicono meglio.
    La gente comune in gran parte sente questa necessità e la approva, nonostante dubbi e incertezze per lo svezzamento foriero di un futuro oscuro e minaccioso.
    Ma gli INTELLETTUALI, gli SPECIALISTI, i POLITICI che si dicono “al servizio del popolo”, che cosa ci stanno a fare? Chiariscano essi gli aspetti ECONOMICI, GIURIDICI e di altro genere che potrebbero sostenere, se così è, tale scelta.
    E non mi si parli di “nazionalismi” o di “egoismi”; se i sardi riuscissero a risolvere i loro problemi allevierebbero quelli del resto dell’Italia che ne avrebbe in meno da seguire.
    L’iniziativa di Maninchedda e sardisti è prematura? Bisognava forse prepararla un po’ meglio, convocando tutti i sardisti, ma anche tutte le forze politiche sensibili, chi più chi meno?
    Forse; ma poiché è partita, la si prenda in considerazione e, con prudenza e circospezione, si cerchi di aiutarla consigliando, criticando, correggendo, ma mai snobbando.
    Di una cosa sono certo: la stragrande maggioranza dei sardi ci crede, e subire un altro contraccolpo fallimentare sarebbe grave. L’idea indipendentista può diventare, anzi E’ PATRIMONIO DI TUTTI I SARDI, e non si fermerà più.
    Infine: chi dice che l’Italia riunita in un unico regno sarebbe stata migliore? Militarmente forse; ma l’età dei piccoli regni e dei Comuni ha prodotto quel Rinascimento che a lungo è stato faro dell’Europa e del mondo. Mi pare che lo dicesse anche Guicciardini in contrasto con Machiavelli.

  • 2 Maurizio Meloni
    26 Maggio 2009 - 13:41

    “Questo” Partito sardo d’Azione parla di indipendentismo?? Con Maninchedda e Giacomo Sanna?? E’ uno scherzo vero???

  • 3 Quesada
    26 Maggio 2009 - 14:25

    I quattro mori hanno prodotto il solito effetto di eccitare il toro acquattato sotto il tappeto di DemocraziaOggi.
    Bella agorà.

  • 4 Meloni Giacomo /CSS
    26 Maggio 2009 - 17:09

    Oggi 26/5/09 ho avuto l’opportunità di svolgere una lezione agli studenti della Facoltà di Scienze Politiche di Cagliari a cui ho spiegato che la Confederazione Sindacale Sarda nasce da una intuizione del grande Antonio Simon Mossa che,rientrato nel 1961 nel PSDAZ dopo un lungo periodo di assenza datato 1947 ,ripartiva con un programma forte e chiaro:E’ il suo grido di battaglia ” la riscossa del Popolo Sardo “che deve prendere coscienza di essere una ” Nazione a sè stante “,non più dentro una concezione “regionalista “,bensì in uma visione di “Autonomia Federale ” e “Autonomia Statuale ” come “Nazione Indipendente “.
    La “Indipendenza Federale “nello Stato Italiano,spiegava A.Simon Mossa,è un passaggio temporaneo e provvisorio per poi affermarsi liberamente in un processo europeo e mondiale come “Comunità Etnica Sarda”.
    E’ impressionante la modernità del pensiero federalista di A.Simon Mossa.Il fondamento di ogni idea federalista,scriveva,è l’Autogoverno senza il quale non si costituisce il soggetto fondante dell’Autonomia Federale che si base sull’Autonomia Statuale,per cui,concludeva, o la Sardegna diviene una “Nazione a sè stante e indipendente o non è possibile alcuna via federalista “(1962).
    Seguendo l’insegnamento di A.Simon Mossa, io stesso sono fermamente convinto che il Gruppo Sardista in Consiglio Regionale abbia fatto bene a porre politicamente la questione centrale dell’indipendenza della Sardegna,così come mi auguro possa porre la questione del riconoscimento del Sindacato Sardo come maggiormente rappresentativ o in Sardegna in quanto Sindacato dei Lavoratori Sardi che fanno riferimento alla minoranza linguistica sarda.
    L’indipendenza è insieme un sogno (nelle sue accezioni quali idealità, prospettiva, passione, suggestione, utopia) ed una progressiva e quotidiana conquista che si fa progetto e proposta politica di governo.
    L’indipendenza deve rimanere utopia per avere la forza che coinvolge le popolazioni senza le quali resterebbe un moto di avanguardie elitarie. Per questo l’indipendenza, almeno nell’accezione moderna, non può essere il frutto di un moto rivoluzionario e sbagliano quei movimenti indipendentisti che hanno come modello la rivoluzione leninista e la struttura elitaria everticistica del loro stesso del loro gruppo dirigente.
    L’indipendenza oggi deve essere un’azione graduale che coinvolge tutti i ceti sociali, dimostrando con i fatti che è oggettivamente conveniente anche dal punto di vista economico e dello sviluppo in generale.
    La crisi attuale potrebbe favorire questo ragionamento. Personalmente ne sono convinto soprattutto in Sardegna,dove il vecchio modello di sviluppo è ormai giunto alla fine ed è irreversibile. Mi chiedo che senso abbia ancora finanziare industrie decotte e fuori mercato.Significa buttare via milioni di euro che, invece, dovrebbero essere utilmente investiti in fabbriche di nuova concezione meno inquinanti e meno energivore. Mi chiedo perchè non seguire il modello Obama che rende disponibili i soldi pubblici solo per nuove tecnologie e nuovi prodotti che rispettino clima e ambiente.
    La Giunta Cappellacci sbaglia a creare cabine di regia sullo sviluppo solo ed esclusivamente con CGIL/CISL/UIL che intanto non rappresentano più la totalità dei lavoratori sardi, ma soprattutto perchè in questo momento sono oggettivamente forze conservatrici in quanto fortemente frenate dalla dura emergenza della disoccupazione e dilagante povertà e dal peso preponderante della categoria dei pensionati.
    Ci chiediamo se non abbia più senso coinvolgere maggiormente le rappresentanze degli artigiani,degli operatori turistici e delle attività commerciali, come pure le associazioni professionali compresi gli imprenditori e i ricercatori che operano nei vari settori produttivi della società sarda. Inoltre come CSS abbiamo sempre affermato che senza la modernizzazione dei Settori Agricolo, Agroalimentare e della pastorizia in Sardegna non vi sarà mai uno sviluppo armonico e di vera ricchezza.
    L’indipendenza, infine, è possibile ed è un obiettivo perseguibile concretamente in Europa. Direi oggi più che ieri; ma bisogna darsi un’accelerata prima che venga promulgata la nuova Costituzione Europea dove c’è un vincolo inaccettabile posto dagli attuali Stati membri. La Carta recita che in Europa si costituiscono nuovi Stati sovrani delle Nazioni senza Stato solo se ciò è condiviso dallo Stato madre.Ora noi indipendentisti dovremmo affermare che l’unico vincolo deve essere l’autodeterminazione che è in capo al popolo che la esercita liberamente e democraticamente nel suo territorio. Come dire che noi sardi che ci consideriamo popolo e nazione rivendichiamo il diritto all’autodeterminazione senza chiedere permessi allo Stato Italiano. La via dell’indipendenza in una Europa dei Popoli è la strada giusta. Ci vuole coraggio e determinazione.
    Giacomo Meloni
    Segretario Generale della CSS

  • 5 Roberta
    27 Maggio 2009 - 09:31

    La sinistra è sempre in ritardo. Su tutto.
    Per prendere le distanze dalla Russia non sono bastati i fatti di Budapest e di Praga. Berlinguer il “grande” ha voluto aspettare che fosse d’accordo anche Cossutta per azzardarsi a parlare di “esaurimento della spinta propulsiva dell’ URSSS”.
    Quando anche Mariano Delogu sarà d’accordo sull’indipendenza della Sardegna, probabilmente sentiremo un Tore Cherchi o un Antonello Cabras parlare di “esaurimento della spinta propulsiva dei Savoia”.

  • 6 Salvatore Tedde
    27 Maggio 2009 - 12:03

    Queste riflessioni ebbi a farle più di un anno e mezzo fa, in risposta alla seguente domanda:
    “Secondo voi esiste l’esigenza di indipendenza nazionale della Sardegna e quale partito potrebbe dare una risposta.”
    da Sinistra, il luogo non-luogo dove son politicamente nato e dove credo di abitare ancora, risposi così:
    Non so se esista l’esigenza di “indipendenza nazionale” diffusa; non ne sarei sicuro perchè volersi rendere “indipendenti” - anche come singoli individui - comporta impegno, fatica, dispendio di energie ed entusiasmo verso il futuro. Non è esattamente la fotografia della società sarda di oggi, per cui….;
    tuttavia la risposta alla seconda parte del quesito mi sento di darla anche “truncandela in curzu” (tranchant…naran sos frantzesos … in d’una peràula solu): NON credo la risposta alla esigenza di indipendenza possa venire da un Partito o Movimento; è un processo talmente importante, talmente autentico e pieno di mille motivazioni e, soprattutto, di “convinzione” ed autostima che…questo ipotetico Partito dovrebbe abbracciare gran parte della popolazione sarda nelle sue diverse classi sociali, a partire dalla classe dirigente intellettuale e politica, passando per tutto il mondo produttivo dell’impresa, dell’agricoltura/pastorizia e e del commercio, per arrivare fino alla Scuola media ed elementare; una utopia pura, come vedete, solo a pensarla alla luce di quanto abbiamo sotto gli occhi (basta pensare alla vicenda della Legge Statutaria o all’insulso e blando chiacchericcio che una larga parte degli ospiti - ben retribuiti - del Palazzo di Via Roma in Cagliari è riuscito a produrre semplicemente sulla censura che la Corte Costituzionale produsse circa il vocabolo “sovranità” nella legge istitutiva della Consulta Regionale).
    Bene; anzi male; tutto questo per dirvi che io, che non ho più gli ardori “indipendentisti ed irredentisti” dei 18 anni - sto giungendo solo ora alla conclusione che l’indipendenza della Sardegna sia davvero l’unica vera “opzione” politica per la quale, se avessi appunto 18 anni inizierei a lavorare. Dico questo perchè ritengo che occorrano almeno altri 50 anni di attività e passione politica in tal senso per poter vedere concretizzato il sogno di un popolo ed una “Nazione” sarda. Anche Mazzini, quando teorizzava la Giovine Italia ad una larghissima parte della popolazione appariva un visionario, sognatore ed anche un pò “fora ‘e conca”; Garibaldi poi… no nde faeddèmis! Era un facinoroso, una testa calda, un irregolare, e oggi lo si definirebbero un “terrorista” come minimo. Invece, sappiamo tutti come è andata a finire e come quei due pericolosi “pazzoidi” siano oggi gli eroi nazionali e i padri del nostro attuale Belpaese.
    Coraggio quindi, perchè la Nazione Sarda è più realizzabile di quanto possa sembrare; a patto che noi lo vogliamo e che, dunque,si verifichino tutte le condizioni favorevoli di cui prima ho parlato.
    Spero di poter tornare presto - con tutti gli altri che hanno già scritto o scriveranno su questo topic - a parlarne approfonditamente perchè è argomento interessante davvero.
    Per intanto, non posso non farvi leggere un documento che è di una vitalità, chiarezza, semplicità e determinazione davvero uniche;
    Non lo ha scritto nessun leader politico di nessun partito sardista, indipendentista, autonomista o separatista; non ci crederete ma lo ha scritto un “linguista”; Roberto Bolognesi (sardo di Villamassargia a dispetto del cognome) che è attualmente Docente presso l’Università di Amsterdam ed ha lavorato al processo di istituzione della LSC (Limba Sarda Comuna) per conto della Regione Sardegna.
    STAMPATEVELO E LEGGETELO; anche più di una volta perchè, son convinto, ne valga la pena. Buona lettura; dopo, vi sembrerà tutto più facile e, soprattuto, possibile.

    Citazione:
    Lingua, potere e quattrini
    [di Roberto Bolognesi]

    Provate a immaginare una Sardegna in cui la classe dirigente non consideri la sua terra periferia di Milano o Roma, ma centro del Mediterraneo occidentale.
    Questa classe dirigente avrebbe rapporti culturali ed economici con Marsiglia, Barcellona, Algeri e Tunisi, oltre che con Milano e Roma.
    Domanda retorica: quella Sardegna ipotetica sarebbe più ricca o più povera rispetto a quella attuale?
    Ho investigato questa ipotesi in un articolo in sardo pubblicato su Diariulimba (http://www.sotziulimbasarda.net/ottobre2006/Sa%20limba%20de%20su%20famine.pdf) e ho ovviamente concluso, fornendo le dovute motivazioni, che quella Sardegna sarebbe molto più ricca.
    Chi si considera periferia si rivolge automaticamente all’unico centro che riconosce e, nei suoi rapporti con questo, accetta le condizioni che il centro gli detta.
    Chi si considera centro, invece, si guarda attorno e sceglie di interagire nel modo più conveniente con chi gli sta attorno.
    Ma da dove proviene la differenza fra il considerarsi centro o periferia?
    Geograficamente, noi siamo più vicini a Marsiglia che non a Genova, e a Barcellona che non a Milano; politicamente tutte queste città sono all’interno dell’Unione Europea e la Sardegna è al centro di quest’area di libero traffico di merci e di persone; linguisticamente le uniche barriere che esistono sono quelle prodotte dal monolinguismo isterico che affligge gli italiani: basterebbe imparare francese e catalano (o almeno spagnolo: per noi sarebbe uno scherzo! E oltretutto, gli algheresi dove li lasciamo?).
    Ma allora, perché siamo ancora soltanto periferia dell’Italia?
    Provo a fare un esempio quasi concreto.
    Un’industria catalana che volesse piazzare i suoi prodotti in Sardegna (e i Catalani sanno bene dove’è la Sardegna con il suo mercato di oltre 1.600.000 consumatori) dovrebbe necessariamente passare per Milano: lì hanno sede le grandi imprese di distribuzione che operano nel territorio dello stato italiano. Oggi come oggi, chi vuole arrivare in Sardegna deve passare per Milano.
    Questo danneggerebbe un po’ l’industria catalana, che diventerebbe meno competitiva nei nostri confronti, ma soprattutto noi consumatori sardi, che pagheremmo il trasporto delle merci su una distanza quasi tripla rispetto a quella tra Barcellona e Porto Torres (solo 514 km di trasporto via mare!): Barcellona-Milano (740 km: via terra! ) + Milano-Porto Torres (530 via terra e via mare) = 1270 km. Ma il trasporto di merci via terra è ovviamente molto più caro. A questo andrebbe aggiunto il fatto che i profitti della distribuzione dei prodotti catalani in Sardegna verrebbero reinvestiti a Milano e non in Sardegna.
    Le uniche a guadagnare da questa situazione sarebbero dunque le imprese di distribuzione con sede a Milano. Queste però trovano probabilmente più redditizio distribuire prodotti provenienti da aree più vicine alle loro sedi, ma più lontane dalla Sardegna.
    Non a caso, allora, non ho mai visto in Sardegna quei prodotti catalani e/o spagnoli che in Olanda (dove vivo) si vendono a prezzi molto competitivi. In ogni caso, quindi, a parità di prodotto, noi sardi paghiamo più del dovuto i prodotti importati dall’Italia (o che passano per l’Italia).
    Perché allora i Sardi, che hanno tutto da guadagnare da una razionalizzazione del mercato, non vanno a comprarsi quei prodotti direttamente in Catalogna? O a Marsiglia? O perfino a Londra, visto che in termini di costi dei voli, l’Inghilterra è molto più vicina dell’Italia?
    I Sardi che potrebbero fare questo salto (la nostra classe dirigente) continuano a comportarsi come se, qualunque cosa succeda, si debba passare per forza per Milano o per Roma. I nostri eroi pensano che per arrivare a Barcellona - uno dei centri economici europei - si debba passare da Milano: il loro punto di riferimento.
    Essere periferia vuol dire allora questo: non pensare in modo autonomo; pensare che sia naturale pagare più del dovuto, pur di non mettere in discussione il rapporto di dipendenza con quello che si considera il proprio punto di riferimento. La palla al piede dei Sardi è proprio la dipendenza psicologica - cioè politica, culturale ed economica - che questa gente ha nei confronti dei centri di potere dell’Italia. Questo è il fattore che riproduce in eterno il sottosviluppo e la dipendenza della Sardegna.
    La mentalità dipendente di questi Sardi fa molto comodo agli imprenditori milanesi, che cosí non vedono i loro profitti in Sardegna minacciati dalla concorrenza - per esempio -catalana, ma al resto dei Sardi questa costa solo un sacco di quattrini. Anni fa la Sardegna importava almeno l’80% dei prodotti di consumo. E oggi?
    Lo stesso ragionamento vale per i (pochi) prodotti che la Sardegna offre sui mercati esterni.
    So che esistono eccezioni a questa regola, ma sono, appunto, eccezioni.
    Con questo, però, non voglio suggerire che il comportamento della classe dirigente sarda sia irrazionale: finora tutto questo, per la classe dirigente sarda, ha pagato e loro sono rimasti in sella. Al contrario, irrazionale è il comportamento del resto dei Sardi, i quali pagano il prezzo delle scelte culturali ed economiche effettuate dall’attuale élite, senza averne una controparte. Irrazionale (si legga: “stupido”) è chi si tiene sulla groppa un ceto parassitario che ancora si autolegittima come intermediario tra i Sardi e i centri di potere italiani, mentre ormai gli attori sulla scena economica e culturale sono, come minimo, il resto dei paesi europei e, ormai, tutti i protagonisti della globalizzazione in atto: in via Sardegna, a Cagliari, oggi ci sono i Cinesi al posto dei Napoletani. Un buon intermediario oggi non parla italiano: parla soprattutto inglese (e possibilmente cinese!) e … sardo.
    Perché il sardo?
    La storia ci ha dimostrato che una classe dirigente incapace di comprendere la propria terra, la porta alla rovina. E per capire la Sardegna bisogna pensare in sardo.
    La Sardegna che pensava in sardo ha prodotto Deledda, Lussu e Gramsci. La Sardegna che pensa in italiano ha prodotto Segni, Cossiga e (ma c’entra?) Berlinguer. Chi è stato meglio? Meglio per noi? Meglio per il resto del mondo? A noi posteri la non ardua sentenza .
    La ragione d’essere di una classe dirigente in una società civile e democratica proviene dalla capacità di conciliare i propri interessi (ci mancherebbe altro!) con quelli della collettività. Chi non ha questa capacità, prima o poi viene spazzato via -pardon! - sostituito.
    La classe dirigente sarda - definita da Michelangelo Pira “borghesia compradora”- si è formata e ha stabilizzato il proprio ruolo intorno alla fine dell’800.
    Il compito dei “printzipales” cooptati al potere metropolitano era quello di rendere governabile la Sardegna (soprattutto il Nuorese: la “zona delinquente!”) da parte del potere metropolitano.
    Il loro compenso consisteva nel rendere stabili i privilegi che fino ad allora ciascuna generazione di printzipales doveva conquistarsi per conto suo in ciascuna delle “libere repubbliche montanare” costituite dai villaggi sardi (sempre secondo Pira).
    Il banditismo (cioè il modo tradizionale di redistribuire la ricchezza) impediva la cristallizzazione dei privilegi dei neo-borghesi/ex-balentes e metteva in discussione il monopolio statale della violenza. Ex abigeatari di successo e potere metropolitano (il garante dello status quo) si trovarono quindi alleati nella volontà di fermare i nuovi arrampicatori sociali.
    L’opera di Grazia Deledda, all’incirca contemporanea a quegli avvenimenti, si può leggere come il resoconto letterario della nascita della “borghesia compradora”. Per capire il collegamento tra i romanzi deleddiani e la realtà della Sardegna di fine ‘800, basta leggerli parallelamente a “La rivolta dell’oggetto” di Pira e a “Banditi a Orgosolo” di Franco Cagnetta.
    Anche per la “borghesia compradora” nel suo insieme vale allora quello che Alberto Cirese in “Intellettuali, folkore, istinto di classe” ha scritto di Grazia Deledda: “Ed eccola presa necessariamente nella tensione tra “civiltà” e “barbarie”: non può rifiutare la prima se non compremettendo l’opera di mediazione e di integrazione che intende svolgere; non può rinunciare alla seconda se non rinunciando al suo stesso ruolo.” E l’opera di Grazia Deledda non si può comprendere appieno se si ignora che il fratello maggiore (definito “il suo idolo maggiore” in “Cosima”, l’ultimo romanzo largamente autobiografico) era finito in galera per abigeato.
    Come Grazia Deledda ne aveva bisogno per avere qualcosa di cui scrivere per il pubblico “continentale” a cui si rivolgeva, la classe dirigente sarda aveva bisogno del “banditosardo” per poterlo tradire e vendere al potere metropolitano, e quindi legittimare di fronte allo stato la propria posizione localmente egemone. I printzipales dovevano però tradire non solo i banditi loro contemporanei, ma anche la memoria dei propri padri e nonni: la cultura che li aveva espressi come primi inter pares (si veda di nuovo Pira).
    A legittimarli di fronte al resto dei Sardi c’era poi la cultura superiore (“la civiltà”) dei “continentali” che loro ormai rappresentavano indirettamente attraverso i loro figli “studiati” (sempre Pira).
    I frutti dell’abigeato (recente o antico) venivano perciò investiti nell’acculturamento, in modo da porre i propri figli al di fuori delle dinamiche della cultura tradizionale, secondo le quali i privilegi di un printzipale duravano quanto durava la sua capacità di saperseli garantire. Altrimenti la ricchezza accumulata veniva inesorabilmente redistribuita.
    Da quel momento in poi sarebbe stata la scuola, soprattutto attraverso il filtro spietato della lingua, a selezionare la futura classe dirigente. Solo i più diligenti nell’appropriarsi della lingua e dei valori “nazionali” potevano sperare di accedere ai posti di comando.
    Storie di ordinaria follia coloniale, raccontate in modo tragicomicamente adeguato da Cicitu Masala…
    Questa ricetta di suddivisione dei ruoli tra potere centrale e locale ha funzionato per molto tempo, anche nel periodo postcoloniale. Neanche il primo sardismo (neanche Lussu!) ha mai messo in discussione la superiorità della cultura e della lingua del potere centrale. Per tutti, la lingua e la cultura che erano alla base de “l’iniqua disparità di partecipazione al processo della costruzione capitalistica” (Cirese, op. cit.) erano considerati da tutti “Lingua e Cultura tout court”.
    Ci sono voluti il ’68 (figlio anche della decolonizzazione e del terzomondismo) e soprattutto il risveglio dalla sbronza petrolchimica, perché i Sardi cominciassero a mettere in discussione la cultura italiana. Il delirante modello di sviluppo imposto dalla classe dirigente sarda (praticamente tutta la classe dirigente sarda!) ha fatto comprendere che la loro subalternità culturale aveva danneggiato i Sardi in modo gravissimo e proprio economicamente.
    Accecati dal proprio complesso di inferiorità, i Sardi si erano messi a fare i Milanesi e i Milanesi - ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale - li avevano fregati! A parti quelli rubati, quanti quattrini sono stati buttati a mare, quanti soldi non sono stati investiti in uno sviluppo possibile e gestibile…
    E ancora oggi: inquinano in Sardegna, ma pagano le tasse a Milano. O forse sta cambiando qualcosa?
    Il monumento alla cultura sarda pubblicato nel 1978 da Michelangelo Pira con il titolo eloquentissimo di “La rivolta dell’oggetto” segna il momento più alto della presa di coscienza da parte di una nuova élite di intellettuali sardi. Il lavoro di Pira, largamente ispirato dal profeta della globalizzazione McLuhan, ha anche anticipato moltissimi degli sviluppi successivi del dibattito culturale in Sardegna e ha a sua volta ispirato una nuova generazione di intellettuali non più (o non solo) “sardisti”, ma, come Pira, soprattutto sardofoni e sardografi. Il neosardismo deve molto di più a Gramsci che non a Lussu - uomo d’azione, quest’ultimo, e non di riflessione.
    Le nuove avanguardie culturali dei Sardi hanno cominciato cosí a scrivere la propria antropologia, la propria linguistica e la propria letteratura senza la mediazione soffocante e inquinante della cultura e dell’università italiane e guardando direttamente alla cultura internazionale. Il resto è cronaca…
    Dopo il riconoscimento del sardo da parte della legge regionale 26/97 e, da parte dello stato italiano, con la legge 248/99 gli eventi hanno subito un’accelerazione. Oggi la maggioranza dei Sardi afferma di sentirsi maggiormente legato al sardo che non all’italiano e vuole che il sardo entri nella scuola e acquisisca uno status ufficiale nell’amministrazione pubblica.
    Le domanda e l’offerta di sardo sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni. La crescita dello status del sardo ha comportato una crescita immediata del corpus (l’insieme del materiale linguistico prodotto): negli ultimi trenta anni sono stati pubblicati circa 150 romanzi in sardo e perfino Giulio Angioni ha ammesso che esistono delle buone opere letterarie in sardo; esistono da quasi dieci anni siti Internet in cui si scrive in sardo degli argomenti più disparati; i Sardi che leggono e scrivono in sardo non sono più una pattuglia sparuta e una nuova élite intellettuale ormai usa il sardo anche in situazioni altamente formali (conferenze, libri e articoli più o meno tecnici), rompendo con gli schemi tradizionali (la diglossia) che volevano il sardo relegato alle situazioni informali e amicali/famigliari o alla poesia, riservando all’italiano le occasioni “serie” .
    Ma dove deve portarci “la riscoperta” della lingua sarda?
    L’obiettivo che dobbiamo proporci è in fondo di una semplicità disarmante: dobbiamo riportare il sardo alla sua primitiva condizione di lingua “normale”, una lingua in cui si può fare tutto quello che si fa in qualunque altra lingua e cultura, cioè vivere.
    Per la maggior parte dei sardi, la diglossia, cioè il fatto di vivere parte della propria vita in una lingua e parte in un’altra, con differenze gerarchiche (di adeguatezza) nell’uso di una lingua o dell’altra, a seconda della situazione, è un fenomeno non più vecchio di una cinquantina di anni. Lo studio di Ines Loi Corvetto, pubblicato nel 1983 (“L’italiano regionale di Sardegna”), mostra che ancora negli anni Settanta in gran parte della Sardegna non esistevano differenze gerarchiche nell’uso dell’italiano e del sardo. L’uso di una lingua o dell’altra non implicava un giudizio sulla posizione sociale dell’interlocutore.
    Interpretando senza forzature le affermazioni della studiosa, si può dire che l’uso di una lingua o dell’altra era dettato dalla disponibilità di un lessico adeguato alla situazione: la disponibilità di parole per parlare di un certo argomento dettava la scelta della lingua e quindi si parlava di lavoro e faccende quotidiane in sardo, e di argomenti “allenus” come i documenti del catasto o il Festival di Sanremo (in parte) in italiano. La situazione sociolinguistica in gran parte della Sardegna già allora confinava con la diglossia - ma esistono diverse definizioni di diglossia - ma poteva definirsi ancora come una situazione di bilinguismo “imperfetto”.
    A un certo punto, il sardo - come ha scritto Nanni Falconi - è diventato “sa limba de su famine”. Parlare in sardo è diventato segno di inferiorità sociale.
    Oggi, diversamente che in passato, “vivere in sardo” non è del tutto possibile, ma per un motivo semplicissimo: gli intellettuali sardi finora non hanno usato la nostra lingua per esercitare la loro attività. Nella vita attuale esistono attività e situazioni per le quali il sardo ancora non possiede parole adeguate. Ed esprimersi in modo inadeguato comporta sempre una forte stigmatizzazione sociale.
    La colpa - se di colpa si tratta - è tutta degli intellettuali, perché, nei decenni tumultuosi seguiti all’ingresso della Sardegna nell’era industriale, non hanno provveduto ad aggiornare il lessico del sardo. I registri alti e quelli tecnici di una lingua vengono sviluppati dalle élite intellettuali che usano la lingua nelle loro attività, e lamentarsi, per esempio, che in sardo non si possa parlare di chimica è solo un altro modo di dire che ai chimici sardi non è mai stata data la possibilità, o il diritto, di parlare di chimica in sardo. Oppure che loro si sono vergognati di sviluppare in sardo il registro tecnico della chimica.
    Perfino gli intellettuali devono mangiare e fino ad oggi a dar da mangiare agli intellettuali sardi sono stati - cerco di rimanere neutrale - gli altri…
    Dopo il franchismo, i chimici catalani hanno sviluppato in poco tempo il proprio registro tecnico in catalano. Sarà che l’industria chimica era catalana e non . milanese?
    E a questo punto arriva la domanda cruciale: si deve dire che non si può parlare di chimica in sardo, perché non esiste la Chimica Sarda, oppure è il caso di porsi la domanda opposta e dire che non esiste la Chimica Sarda perché non si parla di chimica in sardo?
    La Catalogna parla catalano perché è ricca? O è ricca perché parla, scrive e pensa in catalano?
    In altri termini: è vero che “la cultura è sovrastruttura”? Oppure il rapporto tra cultura e economia è più complesso e fondamentalmene paritario?
    Non è mia intenzione ribaltare completamente il dogma marxiano: è difficile trovare delle società avanzate culturalmentee, ma materialmente povere. Contemporaneamente, però, non conoscono una singola situazione in cui la ricchezza materiale non sia accompagnata da una cultura elevata.
    E abbiamo tutti sotto gli occhi gli esempi di culture millenarie - Cina e India - che si riaffacciano prepotentemente sulla scena economica dopo una - in tempi storici - breve parentesi di grande poverta materiale.
    E allora: “Siamo poveri perché siamo sardi”, come dissero a Gramsci quei soldati/minatori di Iglesias che presidiavano gli impianti della FIAT . O siamo invece poveri perché non siamo sardi abbastanza?
    La (non) risposta l’ha data Gramsci stesso: “un popolo che si pone il problema della lingua, in realtà pone il problema della sua identità sociale ed economica”.
    Forse si tratta di un’altra illusione, ma il messaggio che arriva dalla ricerca sociolinguistica curata dalla Prof.ssa Oppo per me è chiaro: la stragrande maggioranza dei sardi “si pone il problema della lingua”, cioè il problema della propria identità.
    Allora a cosa serve il sardo ufficiale, diffuso, normale, tornato a riempire la vita dei sardi in tutti i suoi aspetti: dalla scuola all’ufficio pubblico, dal lavoro al rapporto tra un uomo e una donna?
    Dico una cosa banale: il sardo serve prima a scoprire e poi a ribadire la normalità dell’essere sardi. Qualcosa, quindi, di cui forse non è molto sensato essere fieri, ma certamente niente di cui vergognarsi. L’essere sardo è la condizione normale di chi in Sardegna è nato e/o cresciuto e normale è la sua specificità e diversità rispetto ai non sardi.
    Non ci sono grandi discorsi da fare, ma nessuno deve neanche permettersi di negare la nostra specificità.
    Eppure questo nostro diritto viene ancora negato, almeno dalla parte “non eletta” della nostra classe dirigente: dalla scuola, dalla chiesa, dai giornalisti, dagli intellettuali da esportazione, soprattutto quei giallisti che continuano a scrivere di sardi pelosi e violenti - il bandito sardo vende ancora, perché innovarsi? - e ci ricordano ad ogni loro uscita quanto sono diversi da Sciascia, che usava i gialli per costruire coscienza civile.
    Sono loro i più assatanati nel condannare la possibilità di avere anche per il sardo degli operatori che lavorano a tempo pieno, dei professionisti della lingua e della cultura.
    Smesso ormai il tono saccente e la superiorità ostentata, accusano rabbiosamente i “partigiani della limba” di volere quello che loro hanno già: un ruolo definito all’interno della società sarda e la possibilità di occuparsi di sardo in modo professionale.
    Le lingue minoritarie devono fare meglio delle lingue dominanti, se non vogliono sparire. Loro propongono che noi si continui con il volontariato: “Per fortuna però ciò che è fattibile da noi nel nostro piccolo si fa, a partire almeno da Vincenzo Porru e da Giovanni Spano (o dall’Arquer e dal Fara già nel Cinquecento), anche senza iniezioni di orgoglio etnico sotto forma di finanziamenti pubblici.” (Giulio Angioni, in L’Unione Sarda del 16.12.04).
    Nel loro furore di conservatori (dei propri privilegi) ricorrono a tutto il repertorio classico degli insulti usati da sempre contro i “sovversivi”: mancano ancora le Madonne Lacrimanti e l’accusa di mangiare i bambini. Diamogli tempo…
    Figuriamoci cosa riuscirebbero a fare i “partigiani” se potessero dedicarsi a tempo pieno alla lingua sarda. Con il volontariato e con i pochi mezzi messi a disposizione da università estere sono già riusciti a colmare gran parte del vuoto culturale e scientifico in cui il sardo era immerso.
    Il monopolio wagneriano sulla linguistica sarda è stato spezzato. Wagner si è dimostrato grande soltanto in confronto a chi l’ha seguito. L’intera idea del sardo come lingua arcaica - idea funzionale alla dipendenza dei Sardi: la nostra lingua è la lingua del banditosardo e della “barbarie” deleddiana - è crollata. L’unica cosa di arcaico in questa storia è risultata la linguistica praticata nelle università sarde, che non hanno mai messo in discussione le cantonate prese dal linguista tedesco. Ma in certi casi si può anche parlare di “idealizzazioni radicali”…
    Oggi del sardo esistono descrizioni sincroniche adeguate ai tempi - quasi tutte finanziate da università estere - e non solo rimasticazioni di un manuale di linguistica storica che già al momento della sua pubblicazione, nel 1941, rifletteva un approccio alla lingua superato da decenni.
    Occorre adesso estendere le descrizioni esistenti delle strutture della lingua sarda, per poter realizzare quel materiale didattico senza il quale non si può introdurre il sardo nelle scuole. E per realizzare un corpus (ripeto: l’insieme del materiale linguistico) adeguato al nuovo status del sardo. Sto dicendo, appunto, che occorre praticare ancora di più quella linguistica moderna che permette di tradurre in azioni concrete le conoscenze scientifiche, e quindi che occorre finanziare in modo organico la ricerca scientifica sul sardo.
    Sto dicendo anche che, accanto ai professionisti della ricerca, occorrono dei professionisti dell’applicazione dei risultati di queste ricerche: traduttori, funzionari pubblici, giornalisti, scrittori, formatori. E sto dicendo che occorre un esercito di insegnanti, adeguatamente preparati, che insegnino il sardo nelle scuole.
    Come si può vedere chi ci attacca ha perfettamente ragione: siamo effettivamente pericolosissimi (per loro!). Vogliamo per il sardo niente di meno di quello che si fa per l’italiano. Vogliamo che la “pari dignità tra sardo e italiano” non rimanga sulla carta.
    E quando l’avremo ottenuto, sarà molto difficile per loro continuare a vivere di rendita: i privilegi dovranno guadagnarseli in un mercato della cultura finalmente liberato dal monopolio italiano.
    Adesso abbiamo bisogno del sardo perché abbiamo bisogno di una classe dirigente che ci fornisca i mezzi per acquisire un’identità sociale ed economica di cui non ci si debba vergognare. Duecento anni di colonizzazione linguistica, culturale ed economica non ce l’hanno data: è ora di cambiare.
    Se parliamo in sardo, siamo sardi di serie A, cittadini di uno dei centri possibili (futuri?) del Mediterraneo, ma quando parliamo italiano (di Sardegna) siamo italiani di serie C, abitanti della periferia remota di uno dei paesi più corrotti e politicamente inaffidabili del mondo, un paese in cui la criminalità organizzata gestisce almeno un terzo del territorio e dove a dettare effettivamente legge è uno sciamano più preoccupato di negare i diritti civili agli omosessuali che di punire i suoi dipendenti pedofili: lasciatevelo dire da uno che da oltre 20 anni vive molto volentieri in uno dei paesi più civili del mondo. Come forse avete capito, non ho una grande ammirazione per l’Italia.
    La differenza di prezzo tra i voli per Barcellona e quelli per Roma e Milano è allora, oltre che concreta, anche la metafora di quanto ci costa il “privilegio” di essere periferia del Bel Paese: il prezzo politico pagato per i biglietti aerei “con la continuità territoriale” è più alto di quello che dovrebbe essere il prezzo di mercato. Il mercato, nel caso dei voli tra Sardegna e Italia, è drogato dall’eccesso di domanda, cioè dalla dipendenza politica, culturale ed economica dei Sardi.
    E sí, ci costa meno rivolgerci altrove. Io l’ho fatto e ne sono rimasto molto soddisfatto.
    Roberto Bolognesi

  • 7 Sergio Ravaioli
    27 Maggio 2009 - 12:51

    Grazie a Salvatore Tedde, Giacomo Meloni e M.P. per gli interventi di grande spessore e illuminanti.
    Piacerebbe leggere qualcosa di altrettanto impegnativo da parte di qualcuno che abbia svolto un ruolo importante nelle storiche organizzazioni della sinistra.

  • 8 Giulio Lobina
    30 Maggio 2009 - 05:25

    Oh Sardegna,
    I nostri mandorli gridano indipendenza. I loro fiori sorvolano anche il mare per ricordare ai fenicotteri di nidificare ogni anno da noi, anche se raggiungono terre diverse. Il grifone insegue anche i mufloni nelle nostre foreste. Non c’è luogo dove volerebbe se non nel cielo sardo che all’orizzonte bacia il mare al tramonto. E là dove anche la foca monaca aveva trovato il suo Regno…là, dal mare risorgi o Sardegna! Terra di guance rosse e donne dai neri capelli, terra d’ulivi inchinati al possente vento Maestro. Terra d’asini bianchi dell’Asinara e Tonni di Carloforte. Amata Sardegna sandalo d’ogni sardo, àncora d’ogni marinaio, specchio del Mediterraneo. Quanto ancora lascerai il tuo sposo sull’altare? Quando vestirai il bianco telo della purezza. Casta come una Vergine, salata come la rugiada sulle alghe del mare…così ti voglio libera! Una Nazione, uno Stato, una Repubblica Democratica! Vento e Sole accompagneranno i tuoi figli nel lavoro. Energie alternative, industrie di sole e vento…luce per te e tradizione. Turismo e riscoperta del corbezzolo e del miele, del formaggio e della lana…latte e camini che ardono di profumi. Boschi e funghi…pesca e sorrisi innamorati. Sei pronta mia bella Sposa. Così ti vuole il Signore, libera e forte. Uomini e donne di Sardegna, popolo della Terra di Mezzo, Terra Mediterranea per eccellenza…tu divina ispiratrice di leggende, Nuraghe dei Nuraghi, bronzo dei bronzi…invitaci a nozze e saremo liberi d’Amarti ancor più. Madre, figlia e Sposa…Cuore nostro d’Eterno desiderio di libertà! Con te, sempre. Amen

  • 9 M.P.
    31 Maggio 2009 - 16:14

    Giulio L.,
    il tuo inno poetico alla TERRA MADRE è UN CANTO DELLE SIRENE, è un CANTICO DELLE CREATURE, un richiamo a tutti i sardi perchè si guardino intorno e scoprano il paradiso in cui potrebbero vivere se fossero coscienti di ciò che possiedono, a livello naturalistico e soprattutto UMANO. Valorizziamo le nostre umili STRAORDINARIE RISORSE, riscopriamole, facciamone la nostra REGOLA DI VITA, secondo gli insegnamenti della nostra tradizione, A SA SARDA. E che tutti, nel mondo intero, facciano lo stesso; perchè VARIETA’/IDENTITA’ E’ RICCHEZZA.

    P.S. Togli quell’ “Amen”! Sa di LUGUBRE!

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