Andrea Raggio
Sulla normativa europea in proposito il materiale disponibile è ricco e facilmente accessibile. Si discute spesso, invece, di questi argomenti prescindendo dagli orientamenti della gente e, quindi, dal fatto che l’identità vive se vive nel nostro tempo.
Il Parlamento europeo ha sempre dedicato molta attenzione al tema, soprattutto negli anni ’80, a partire dalla risoluzione Arfè del 16 ottobre 1981, che ancora oggi costituisce l’orientamento base delle politiche europee in questo campo. La linea adottata fa perno sia sul diritto delle comunità regionali e delle minoranze etniche al riconoscimento del loro patrimonio culturale, sia sull’interesse comunitario a valorizzare questo patrimonio per arricchire l’identità europea e la coesione dei popoli. La sottolineatura dell’interesse comunitario è molto importante perché chiarisce che non stiamo discutendo di una questione minore ma della visione e della prospettiva dell’Unione europea come grande realtà sovranazionale non solo economica ma storica e culturale e di un processo d’integrazione di popoli e di tradizioni non alternativo alle autonomie regionali e locali ma da queste alimentato. Ecco perché l’integrazione non è appiattimento e omogeneizzazione ma valorizzazione delle molteplici realtà economiche, storiche e culturali.
Negli anni ’80, contestualmente all’impegno sulle culture “minoritarie” il P.E. ha dedicato grande attenzione alla politica regionale, altra faccia del problema. Ha respinto la linea della “regionalizzazione” sino allora proposta, cioè dell’istituzione in tutta l’Europa comunitaria dello stesso modello di regione, e ha scelto quella del regionalismo, cioè del riconoscimento anche istituzionale delle realtà regionali così come erano andate formandosi all’interno dei singoli Stati. La conferenza Parlamento europeo – regioni della comunità, nella quale ero relatore, decise per il regionalismo constatando che la proposta della regionalizzazione non aveva base giuridica nei Trattati e l’istituzione delle regioni era competenza degli Stati, e ritenendo, comunque, che l’interesse comunitario portava non ad appiattire ma a valorizzare le molteplici facce della realtà regionalista. Dopo di che con Maastricht e dopo Maastricht nel campo del regionalismo europeo sono stati compiuti progressi tali, dal punto di vista sia istituzionale che della coesione economica e sociale, da costituire una vera e propria svolta ed è cresciuta l’attenzione sia della politica che dell’opinione pubblica.
Non altrettanto è avvenuto nel campo delle culture regionali e delle lingue minoritarie, né a livello europeo né della realtà sarda. Quel che di nuovo c’è stato è tutto dentro la linea della risoluzione Arfè, e a mio parere non poteva essere diversamente. Mentre è andato scemando, sempre a mio parere, l’interesse dei cittadini e della politica. Perché? Questa è una domanda importante e di forte attualità. Abbozzo qualche riflessione. Parto dai mutamenti epocali intervenuti nel mondo e in Europa: globalizzazione, società dell’informazione, nuove potenze industriali e risveglio di antiche culture di grandi regioni mondiali, passaggio dalla Piccola Europa alla Grande Europa dopo la caduta del Muro di Berlino, crisi globale, forti flussi migratori. In Sardegna i grandi cambiamenti economici e sociali degli anni della rinascita hanno rotto il sottosviluppo generalizzato e modernizzato l’isola ma dagli anni ’90, esaurita quella strategia e in assenza di una nuova idea dello sviluppo, viviamo una lunga fase di stagnazione che sta ora volgendo in una crisi profonda. Ebbene, tutto ciò ha influito contraddittoriamente sulle identità regionali sollecitando per un verso uno sviluppo delle culture locali e un avanzamento del loro orizzonte, per altro verso un arroccamento e un loro imbastardimento. La seconda tendenza sta avendo la prevalenza. Mi sembra innegabile che globalizzazione e crisi spingono i governi e anche i cittadini verso le chiusure regionalistiche e gli egoismi nazionali, nell’illusione di porre così riparo agli assalti del mondo moderno. La nazionalità e l’autonomia come fortezze, dunque, e l’identità come rifugio. Così il dibattito culturale, anche a livello regionale, è andato inaridendosi ed è andata accentuandosi la tendenza dei governi, in particolare di quello italiano e anche delle regioni, a scaricare sull’Unione europea le loro difficoltà, frenando così il processo d’integrazione. Bisogna, poi, considerare la complessità dell’Istituzione comunitaria. Dell’UE fanno parte 27 Paesi che comprendono circa 300 entità regionali di varia natura, nel Parlamento europeo sono rappresentati in varie forme circa 195 partiti nazionali. Le lingue ufficiali sono 23, quelle minoritarie circa 60 (l’Unione Europea è oggi una delle comunità linguisticamente più complesse del pianeta). C’è poi il gran numero di organizzazioni sociali che chiedono giustamente di partecipare. Questa complessità è governata da un originale sistema istituzionale e di contrappesi. I molti partiti, ad esempio, fanno capo a un numero limitato di gruppi parlamentari (sette, forse sei nella prossima legislatura, più quello tecnico dei “non iscritti”), il regionalismo trova espressione nel Comitato delle regioni, le organizzazioni sociali sono rappresentate nel Comitato economico e sociale e così via, l’ufficialità delle lingue nazionali è garantita dalla traduzione simultanea, ma le lingue di lavoro sono ridotte all’inglese al francese. Questa articolazione della democrazia sovranazionale va ulteriormente sviluppata ma, ovviamente, il problema della promozione delle culture locali ha altre dimensioni.
Per quanto riguarda la Sardegna c’è da dire che l’interesse alla valorizzazione e allo sviluppo del patrimonio culturale da parte dell’intellettualità sarda e delle forze politiche appare sempre più limitato. Gli intellettuali hanno svolto un prezioso ruolo negli anni del dopoguerra e della rinascita, ma da qualche tempo questa ruolo appare eclissato. I partiti hanno spesso utilizzato l’identità non solo come rifugio ma come diversivo rispetto alla difficoltà di aprire una nuova fase di progresso dell’isola. Così la sardità è spesso scaduta a sarditudine e l’identità a folklore, cosa certamente importante ma diversa. La Regione è giunta a far scempio della lingua sarda con l’adozione della “Limba sarda comuna” (deliberazione della giunta regionale del 18 aprile 2006), un’astrazione linguistica creata a tavolino e perciò abortita. E non posso tacere che talvolta la valorizzazione della cultura regionale è agitata solo per inzuppare il biscotto nelle finanze pubbliche.
In conclusione, e riprendendo quel che ho accennato all’inizio, la cultura dell’identità vive se vive nel tempo presente, se si alimenta del confronto con le altre culture e se concorre ad arricchire l’identità europea. Dobbiamo risvegliare la visione dinamica dell’identità, non alzando barriere ma gettando ponti. In questo senso un forte sollecitazione può venire dallo sviluppo del regionalismo europeo e da una apertura delle società e delle culture regionali alle grandi questioni del mondo d’oggi.
2 commenti
1 M.P.
25 Maggio 2009 - 18:20
Hai ragione sulla funzione altamente positiva dell’Unione Europea nell’integrare i popoli rispettando e persino valorizzando le autonomie, per cui “regionalismo” e non “regionalizzazione”.
In effetti per la lingua sarda un buon impulso è arrivato proprio dalla Carta europea per le lingue regionali e minoritarie del 1992, e da allora è soprattutto la Regione sarda che ha “pasticciato”, specie dopo la legge 26.
Sugli egoismi nazionali italiani nulla da dire; penso che sia un atteggiamento comune ai vari stati europei; ma in Sardegna non so in che senso si possa parlare di chiusure da parte dei governi e ancor meno dei CITTADINI, POVERI NOI!
Certamente scaricare su spalle larghe, Europa o Italia purchè su altri, si è sempre fatto, ma è naturale, nelle attuali sempiterne condizioni nostrane che offrono tanti pretesti.
I partiti, ma io dico gli INTELLETTUALI SARDI, perché LORO GESTISCONO PARTITI E CULTURA, pescano e pescheranno finchè glielo si permetterà, nelle finanze o nel consenso o altrove.
Con tutti gli “ESPERTI” che abbiamo, e con tutte le sensibilità vantate da varie forze politiche, non esiste ancora una proposta organica e definitiva per la valorizzazione e l’introduzione in tutte le scuole della Lingua e Cultura (dunque anche Storia) della Sardegna.
Fra questi intellettuali comprendo anche coloro che guardano troppo forse al global-euro-nazionale e troppo poco al locale.
A proposito: neanche una parolina sulla “MOZIONE INDIPENDENTISTA” ?
2 piero atzori
25 Maggio 2009 - 23:38
Per me lo scempio della lingua sarda non è nella limba sarda comuna, ma in chi in passato nulla ha fatto per riconoscerle dignità.
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