Giovanni Battista Tuveri lo diceva già. Anzitutto bisogna combattere le caste

21 Giugno 2021
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Andrea Pubusa

La lettura degli intellettuali sardi del passato è ricca di sorprese. Si colgono in quelli democratici e indipendenti delle analisi di forte e indubbia attualità. Cambi i nomi, ed oplà, ti trovi davanti una critica spietata ai Solinas o ai Pigliaru o ai Cappellacci e ai Soru.  Muti il contesto ed ecco un affresco pungente della classe politica al governo dell’isola e non solo.

Prendete il libro di Giovanni Battista Tuveri Della libertà e delle caste, abbozzato, nel 1851, ai tempi della stesura  del “Trattato teologico-filosofico” dal titolo di grande effetto: Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, e pubblicato, quasi  come un completamento di questo, nel 1864.
Se la prende senza fare sconti con le caste, il deputato-sindaco di Forru-Collinas, un po’ come noi del resto! La forte carica polemica è già nel termine “casta“. Esistono, dice Tuveri, in tutto il pianeta, non solo in India. Anche in Europa, anche in Italia, anche nella nostra bella Isola dei mori. I governi “castali” sono certo quelli a sovranità dall’alto (monarchie e dittature), ma - osserva senza infingimenti  il nostro - anche le repubbliche, addirittura anche quelle costituzionali e liberali. Insomma, possono esistere anche oggi, da noi, in pieno occidente democratico!
Ma cosa sono le caste? Nella versione particolare dei sovrani e dei governanti con propensioni autocratiche addirittura sono corpi intermedi che costituiscono un temperamento all’assolutismo. Ma è una fake, diremmo noi. O meglio, è vero nel senso parziale che mitigano la unicità del comando. Sono più i centri di potere che concorrono alle decisioni, non uno solo. Le caste però imbrigliano certamente la democrazia, vanificano le libertà, le rendono solo formali, anche quella di elettorato attivo e passivo. Come non vedere oggi la sfrontata e illimitata potenza dei gruppi economico-finnziari che controllano i media e determinano egemonia sulla base di campagne di massa, insistite e penetranti, che trasformano il falso in verità? Che convincono masse sterminate di persone che ciò che è per loro dannoso, è invece un beneficio? Che le politiche ingiuste creano uguaglianza? Insomma, non basta il voto popolare, il “potere elettorale” a garantire le libertà e la sovranità popolare, quando il potere è collocato nel vertice e promana dall’alto, da un uomo solo al comando o da gruppi ristretti. Del resto - osserva Tuveri - le caste che inizialmente avevano costituito il contrappeso dei governi assolutisti ora ne sono le ancelle. Oggi ancelle proprio no, è un termine che evoca giovani ingenue e inesperte,  piuttosto grumi di interessi, talora, ai livelli bassi, servili, famelici, ma ai vertici vere centrali di comando.
Ed ecco la superba attualità del pensiero del sindaco di Collinas: non basta discutere intorno ai principi, né apprestare Carte e leggi democratiche, occorre conoscere la composizione della società cui i principi devono applicarsi e intervenire in essa per assicurarne la rigorosa attuazione. Sembra di sentire l’enunciazione della distinzione fra costituzione formale vigente sulla carta e quella materiale effettivamente imperante, e la dissociazione - come oggi in Italia - fra la prima e la seconda; sembra di udire l’eco della gramsciana necessità di egemonia dei ceti popolari e del conseguente bisogno di costruire un blocco sociale, fondato sui lavoratori, che dia gambe ai principi e scompagini e sconfigga caste e poteri forti e i ponga governi realmente democratici.
Bella lezione, con linguaggio e riferimenti religiosi e antichi, alla posterità, a noi che abbiamo fatto elezioni dando un mandato, che oggi, con Dragi, è ribaltato.
E in Sardegna? Si dice che ad ogni elezione regionale muta lo schieramento vincente. Ma in realtà muta il compendio “castale”, ora quello con un capetto che dice d’essere sardista e si allea con chi fino a poco tempo fa ci chiamava terroni (ma ancora vuole il distacco del Nord dal Sud, con l’autonomia differenziata), ora con le bande che scelgono un leader che si autodefinisce progressista.  E nel teatrino della politica gli uni e gli altri si prestano perfino le parole, a seconda che stiano al governo o all’opposizione. Ci vorrebbe un movimento anticastale, che non si trasformi e divida in bande, ma le comabatta con rigore. Ma i tempi non consentono illusioni. Da buoni cavalieri dell’ideale, come era senz’altro Tuveri, ripetiamo con lui: “La parola del filosofo è come la semente della parabola evangelica: or cade sulle vie or sulle rocce, or su terreni sterili od uggiosi. Dovremmo per ciò disperare dell’avvenire dei popoli? Rinunziare al nostro apostolato?“. Certo che no, caro Giambattista, forse dovremmo essere meno filosofi e più combattenti o, meglio filosofi e combattenti insieme. Non credi?

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