2 Giugno. Medaglia d’onore a Ignazio Meleddu, soldato sardo deportato nei campi nazisti

2 Giugno 2021
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Gianfranco Meleddu

Disse Calamandrei che la costituzione “è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”.
Parafrasando il celeebre discorso dell’insigne costituente agli studenti, possiamo dire che la Repubblica è nata da ogni gesto di dignità, da ogni gesto di sofferenza e di libertà interiore, come quelli di Ignazio Meleddu, oggi 98enne, giovane soldato sardo, deportato nei lager nazisti. Per questo giustamente viene insignito oggi della Medaglia d’onore. Di lui abbiamo già detto. Ma oggi è un giorno seciale per rievocare la sua storia narrata dal figlio Gianfranco.

Il 2 giugno mio padre riceve dal prefetto la medaglia d’onore concessa ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. Per lungo tempo non ha mai parlato volentieri della sua storia. Noi figli sapevamo che era stato in guerra, fatto prigioniero e portato in Austria, e lì era rimasto presso una famiglia. Per vari anni dall’Austria arrivavano bellissime cartoline d’auguri per Natale o per Pasqua, e qualche lettera con scambio di notizie da parte della famiglia Hafner, la famiglia presso la quale mio padre era “rimasto” fino alla fine della guerra. Nella mia mente di bambino degli anni ’50, quando per educazione fisica ci insegnavano a fare il passo del soldato, era scontato che gli adulti avessero fatto la guerra, fossero stati imprigionati, nelle guerre è normale, nella mia mente di bambino si era formata l’idea che la normalità fosse quella, anche se i manifesti nella scuola elementare con le fotografie delle bombe inesplose (“SE TROVATE UN OGGETTO SIMILE NON TOCCATELO! ….”) erano veramente paurosi. Nei suoi racconti c’erano tantissimi “non detto”, mi sembrava che la guerra che conoscevo attraverso lui fosse una cosa successa e è finita.
Moltissimi episodi della sua vita li abbiamo conosciuti dopo molti anni, alcuni addirittura solo dieci anni fa quando dopo la morte di mia madre, nel 2008, lo abbiamo convinto a trascrivere un suo diario, che teneva molto riservato, e farne un racconto per noi figli e nipoti.
Mio padre è partito volontario a 17 anni nell’ottobre 1940 (per avere un lavoro doveva aver fatto il militare), la guerra era già cominciata, ma quello che sapeva, nel casello ferroviario dove viveva, era che la guerra era lontana dall’Italia, quindi doveva partire, togliersi di mezzo il servizio militare, tornare e trovare il lavoro alle ferrovie complementari dove già lavorava mio nonno. Le cose andarono molto diversamente dai suoi desideri. Conosceva l’alfabeto morse, quindi fu arruolato nel genio marconisti e imbarcato a Bari su una nave di cui non conosceva la destinazione (Balcania o Africa?). Si ritrovò a Durazzo e da lì cominciò la sua peregrinazione, durata tre anni, in Montenegro, nelle isole Strofadi, Zante.
Il 25 luglio 1943 si trovava a Tirana. Nel suo diario descrive così quei momenti di confusione
La notizia di quell’evento si diffuse rapidamente creando euforia in tutti noi dell’unità celere ed in tutti i reparti che erano nelle vicinanze: cavalleria, autocentro, fanteria, genio guastatori ecc. ecc. C’era anche un distaccamento di camicie nere, purtroppo queste erano ormai allo sbando e molte venivano da noi cercando una divisa dell’esercito per sottrarsi così alle possibile rappresaglie che i ribelli, tra i civili del luogo, potevano perpetrare in qualsiasi momento e pareggiando così il conto.
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La corrispondenza con i miei familiari era sempre meno frequente, a causa appunto della scarsità dei mezzi di trasporto e per la distanza che ci separava. Quando aprivo la busta per apprendere le notizie, il più delle volte mi trovavo tra le mani un foglio di carta in cui leggevo solo stiamo bene con i soliti saluti; tutto il resto era sotto uno strato d’inchiostro di china.
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Finalmente arrivò quel giorno tanto desiderato, era l’8 Settembre 1943. Esultammo di gioia ma fu subito repressa, in quanto fu solo l’Italia a deporre le armi, di conseguenza non eravamo più alleati, ma considerati traditori, pertanto ci trovavamo in casa non più un amico, ma un nemico. Quei giorni furono vissuti nel più completo caos. I nostri ufficiali ci consigliarono di restare calmi restando uniti, di evitare ogni azione che avrebbe potuto essere compromettente per la nostra incolumità. L’aeroporto fu il primo ad essere passato sotto il comando tedesco. Arrivavano aerei a tutte le ore carichi di mezzi e di uomini. Due giorni dopo la resa, vennero in reparto tre ufficiali tedeschi, ci riunirono con i nostri ufficiali, e, tramite un interprete con un discorso che non lasciava nessuna speranza di libertà e rientro in patria, ci dissero: Volete venire con noi o seguire la sorte? Nessuno alzò la mano. La risposta era ovvia: Seguire la sorte! Così avvenne la resa. Alcuni degli altri reparti seguirono i tedeschi, ma finirono per fare gli attendenti dei soldati. Che umiliazione!
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Restammo un paio di giorni in attesa di ordini. Nessuno doveva mancare, eravamo contati, pena la decimazione. Il giorno 20, sempre di quel mese, gli ufficiali c’informarono che all’indomani si partiva per destinazione ignota con i mezzi a disposizione purtroppo esigui per tutti i reparti in trasferimento. Radio scarpa diceva che si rientrava in Italia via terra, altri che ormai il nostro destino era segnato: eravamo prigionieri e quindi destinati ai campi di concentramento nazisti. Cercai di sistemare lo zaino alla meglio; oltre al vestiario pensai soprattutto ad una buona scorta di scatolette e gallette. In camerata, con grande dispiacere, dovetti abbandonare una cassetta di legno colma di libri, portai con me solo un dizionario tascabile. Andarono perduti anche i miei piccoli risparmi che erano depositati nell’ufficio postale. Pazienza!
Da Tirana fu deportato in Austria prima con camion, poi in treno ed infine in battello con spostamenti a piedi per varie ore tra un mezzo di trasporto ad un altro.
All’arrivo al campo di concentramento, i tedeschi consentivano ai prigionieri di spedire una cartolina ai propri familiari. Da quel momento fu completamente isolato dal resto mondo fino alla liberazione, non poteva inviare sue notizie, meno che mai riceverne, e nemmeno avere visite da parte della Croce Rossa internazionale, in quanto gli italiani non erano considerati prigionieri di guerra ma “traditori”.

Dal suo diario
Fu il 12 Ottobre del 1943 che varcai la porta entrando in una zona recintata con del filo spinato …. Ci assieparono in un grande salone pieno di panche e tavole e, sopraffatto dalla stanchezza, sdraiato per terra mi addormentai…
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Ogni tanto, da questo campo base, partivano gruppi di nostri compagni, destinati chissà dove e noi, ex lavoratori delle ferrovie, aspettavamo con la speranza di essere assegnati a un lavoro meno faticoso possibile. Partimmo per ultimi, destinati ad un campo di concentramento vicino alla ferrovia, denominato “S. Martino” Lager 1102/ G. W. 398/ Linz. Ma quale impressione ebbi nel vedere i miei connazionali che lì alloggiavano da diversi giorni: i loro racconti non erano per niente incoraggianti. Eravamo 700, sistemati in tante baracche a loro volta divise in tanti scomparti con la capienza per trenta persone, con brande a castello ed al centro una stufa. Io e l’amico Mario Coarelli, che era anche l’unico collega rimasto della compagnia marconisti, ci sistemammo uno vicino all’altro ed ascoltando dai nostri compagni che ci avevano preceduti, come si svolgeva la vita in quel campo e come era organizzato il lavoro, ci apprestammo, a malincuore e con rassegnazione, a quel modo di vivere cui stavamo andando incontro.

I particolari che ha riportato nel diario non li aveva mai raccontati, ci parlava genericamente del viaggio da Tirana, a Belgrado, a Vienna ed infine a Linz.
Così come non ricordo ci avesse mai detto delle vessazioni delle guardie, come quella che lo aveva picchiato in testa perché una notte era dovuto uscire di corsa dalla baracca e correre al bagno. Della fame che aveva sofferto sì, di quella ne parlava, delle immangiabili zuppe di cavoli e patate, e del pane nero da dividere con con i suoi amici di sventura utilizzando un bilancino di fortuna. A causa di un vecchio incidente successogli quando aveva 14 anni, e che gli aveva procurato una vistosa ferita al polpaccio, riuscì a farsi spostare dal lavoro di scarico di massi di carbone all’interno della stazione ferroviaria per fare manutenzione alla strumentazione dei locomotori. Riusciva anche ad entrare nelle cucine dei ferrovieri e a rubare quello che poteva nascondere nelle tasche del giaccone, portandolo nella baracca per i suoi compagni meno fortunati; è molto religioso, ma in quelle condizioni il furto non era un peccato ma quasi un dovere. Dopo circa un anno dal suo arrivo al campo di concentramento ebbe l’itterizia, fu ricoverato in ospedale e da lì inviato a lavorare presso una famiglia agricola, gli Hafner, nel paese di Altmunster. Nella sfortuna di quello che aveva vissuto fino a quel momento, quella fu la sua fortuna.

Dal suo diario
La guardia bussò diverse volte ad un portale e, dopo un po’, ci aprì un uomo già avanti con gli anni, almeno così sembrava, aveva una falce in mano che stava affilando. Credevo fosse un lavoratore del posto, ma, nelle presentazioni, dovetti ricredermi, era il padrone, Hafner Franz. La guardia, senza perdere tempo, disse: Bisogna trovare subito il posto per dormire al nuovo arrivato. Il padrone di casa essendo un po’ sordo, dopo tanto, riuscì finalmente a percepire ciò che gli ordinava di fare nei miei riguardi. Quindi la guardia volle visionare la camera a me destinata e assicurato che era munita di serratura, intimò al padrone, che sarebbe stato responsabile della mia persona, di chiudermi a chiave durante le ore notturne. Il padrone di casa acconsentiva ad ogni sua richiesta, dopo tutto non poteva fare altrimenti. Ormai le consegne erano date, la guardia salutò e continuò il viaggio accompagnando il siciliano presso un’altra famiglia di agricoltori. Seppi dopo che era distante da me diversi chilometri in montagna e non fu per niente fortunato perché ebbe un trattamento biasimevole, proprio degno di persone di stampo nazista quali erano. Avevo appena deposto lo zaino in camera quando il padrone senza perdere tempo disse: Prendi quella zappa e vai giù al campo delle patate, la c’è la padrona con un’altra persona, ti unirai a loro nel lavoro. Ero stanco ed affamato ma, ormai rassegnato, presi la zappa e con un nodo alla gola andai sul posto che mi era stato indicato
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Dopo un’ora circa di lavoro la padrona disse: E’ ora di merenda. Erano le quattro e di consuetudine s’interrompe il lavoro quasi sempre a metà sera per mangiare e riposare. Quelle parole mi deliziarono enormemente, perché ero veramente allo stremo delle forze e non poteva essere diversamente considerando che ero convalescente di una recente malattia e mezzo distrutto da un viaggio a dir poco massacrante. Finalmente tutti a tavola; il cibo era abbondante: pane, burro, salumi di proprietà e sidro
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Ormai era già notte ed il momento di andare in camera era arrivato ma, l’ordine impartito della guardia di chiudermi a chiave venne disatteso e lo fu per tutto il periodo della mia permanenza. Le informazioni scambiate in quella chiacchierata avevano evidenziato in me una persona umile, rispettosa e, quindi, degna di fiducia. La padrona di casa fu l’ultima a darmi la buona notte.
Mi sembrava di sognare, entravo in un letto sotto le lenzuola bianche e fresche di bucato. Ringraziai la Madonna con una semplice preghiera e m’addormentai quasi subito. Ero molto stanco.
Ancora non era l’alba quando la padrona bussò alla porta dicendo: Ignaz austein! Ignazio alzati. Queste parole le ho sentite ogni mattina fino al l’ultimo giorno di lavoro in quella casa.

La famiglia Hafner era molto cattolica e detestava i nazisti, lo hanno accolto e trattato da essere umano, e non da schiavo, rendendogli meno pesante la condizione di prigioniero. Quando mio padre è tornato in Sardegna una delle prime cose che fece fu scrivere agli Hafner, comunicando di essere tornato a casa sano e salvo.

L’8 maggio 1945 gli americani arrivarono ad Altmunster, per il rientro in Italia doveva aspettare, prima dovevano essere rimpatriati francesi e belgi, prigionieri da più tempo. Quando arrivò il suo turno, in traghetto si spostò da Altmunster ad Ebensee al campo di sterminio trasformato in campo base statunitense.

Dal suo diario
Sbarcammo all’imbrunire e, dopo in bel tratto a piedi, arrivammo a quello che era stato un campo di concentramento per gli ebrei con annesso un forno crematorio. Era situato in un costone, al centro del quale vi era l’imboccatura di una galleria che, dicevano, era l’ingresso della miniera di salgemma. Adiacente al forno crematorio c’era la baracca che fungeva da camera mortuaria: in quel giorno, sopra un tavolaccio abbastanza lungo, c’erano molti cadaveri in attesa di sepoltura. Erano deceduti da poco in seguito ai maltrattamenti subiti sotto gli S.S. nazisti. Gli americani stavano setacciando la zona per riprendere i soldati tedeschi che ormai erano allo sbando. Tutti quelli catturati, ovviamente furono prigionieri, ed il comando americano li mise subito al lavoro obbligandoli a dissotterrare i cadaveri da una fossa comune (era stata realizzata perché il forno non era sufficiente) e a dare degna sepoltura in un cimitero di guerra in un campo non tanto lontano da quel posto.
Le baracche in cui fummo alloggiati erano tante e contrassegnate con la bandiera di appartenenza delle singole nazioni: italiani, belgi, francesi, greci, spagnoli, russi.
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Nel campo di concentramento di Ebensee restai quindici giorni. Il rimpatrio era programmato in maniera da rispettare i tempi di permanenza in prigionia. I primi ad essere rimpatriati furono i belgi con i francesi e gli spagnoli perché prigionieri dal 1940 poi via via gli altri.

Da Ebensee fu portato ad Innsbruck, poi al Brennero dove venne consegnato ai militari italiani, quindi Modena, poi Bologna. Qui, indipendentemente dalle disposizioni, che erano di aspettare disposizioni, con altri tre andò alla stazione e appena trovarono un treno che partiva verso sud ci salirono sopra.
Del viaggio di ritorno ci aveva raccontato molti particolari: dell’arrivo a Napoli, dove rimase una settimana in attesa di una nave in partenza per la Sardegna, di essere andato a vedere uno spettacolo teatrale con Macario, di aver incontrato un suo compagno delle elementari che riuscì a partire prima di lui, dell’imbarco sull’incrociatore Garibaldi, della nave bulgara che all’uscita del porto urtò l’incrociatore facendo temere tutti di finire in acqua, dell’arrivo nel porto di Cagliari con la Garibaldi ferma in rada perché l’ingresso del porto era pieno di navi affondate dai bombardamenti del ’43, di una città irriconoscibile rispetto a 5 anni prima, dei collegamenti quasi inesistenti con i paesi dell’interno, ma anche di un furgoncino di un tizio che la sera lo portò a Gesturi. A piedi, da Gesturi a Nurallao, l’ultima fatica prima di arrivare a notte fonda dai suoi familiari il 1° luglio 1945.

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