Andrea Pubusa
Leggendo il libro di Noemi Ghetti su Gramsci e le donne, ho trovato conferma ad una consolidata (e banale) convinzione. Gli stessi fatti possono essere intrepretati in modo diverso ed anche opposto. E questo tanto più è possibile quando gli avvenimenti vengono letti secondo i prevalenti orientamenti correnti. In questo caso Gramsci eroe positivo/Lenin negativo. Antonio, meglio Nino, sensibile e molto comprensivo della condizione femminile, ben oltre l’istanza di emancipazione, Wladimir meccanicamante legato al solo automatismo socialismo/emancipazione femminile. Gramsci privato dal contesto politico concreto, dominato allora dall’azione e dal pensiero leninista, assume una astratta autonomia culturale, quasi non fosse stato fondatore e segretario del PCd’I, sezione dell’Internazionale comunista.
Ora è indiscutibile che Gramsci, nel panorama marxista e comunista, sia una voce originale, forse uno dei pochi pensatori che il lascito di Karl e Friedrich lo ha positivamente sviluppato, attagliandolo alle esigenze della rivoluzione in paesi capitalisticamente più maturi rispetto all’arretrata autocrazia zarista. L’egemonia, la riforma intellettuale e morale, la conquista non del Palazzo d’Inverno, ma delle case matte, e tanto altro ancora (fra le quali la questioni della sessualità sollevata dalla Ghetti) costituiscono un patrimonio prezioso che travalica perfino il campo della lotta per la creazione di una società comunista libera. Una società dove la libertà diventa piena e sostanziale, superando la democrazia liberale, sempre caratterizzata da disuguglianze, ora crescenti. Non a caso Gramsci, in un magistrale articolo del novembre del 1017, si chiede se quella di Lenin non sia una “Rivoluzione contro il Capitale” (di Marx) perché salta la fase della società capitalisitca-borghese. Eppure, pur vedendovi un’accelerazione volontaristica del processo storico, con le evidenti forzature dall’alto, la approva e la sostiene.
La Ghetti, rispetto a questo apprezzamento di Gramsci, ci presenta un Lenin, chiuso, irascibile e autoritario. Gramsci è in sintonia con le donne più creative del mondo comunista: Rosa Luxemburg, Clara Zetkin e Alessandra Kollontaj. Lenin mostra fastidio nel confrontarsi con loro sulla questione femminista. Sopratutto l’idea del libero amore lo turba e gli crea contrarietà. Lenin è “lapidario“, “chiude” “bruscamante” la discussione, il suo “dispotismo esplode” in questi confronti. Lenin dà direttive in chiave centralistica, pensa alla propaganda più che alla formazione. Dà moniti: l’obiettivo fondamentale è impadronirsi del potere, che non lascia margini a teorie come quelle del libero amore. Lenin - udite udite! - “esclude che il proletariato - ovviamente donne comprese - possieda qualsiasi possibilità di sviluppo intellettuale e creatività, convinto che necessiti di efficaci parole d’ordine ai fini della propaganda“. Insomma, Lenin non solo contro il Capitale, ma anche contro l’azione diretta e spontanea delle masse popolari, come se nella Russia zarista le grandi masse non avessero bisogno di direzione politica.
Tutto vero, ma se ne può dare una lettura diversa, più o meno opposta? Lo stesso Gramsci, pur avendo perfetta consapevoleza della forzatura rispetto alla prospettazione di Marx sullo sviluppo storico, ritiene che nel 1917, in Russia la rivoluzione non possa attendere il pieno dispiegarsi del capitalismo e della società borghese con la conseguente crescita della consapevolessa e della cultura delle masse popolare con organizzazioni diffuse, creatrici di egemonia, ma debba, con una decisa iniziativa dall’alto, dare immediata risposta alle indicibili sofferenze del popolo con una dirigenza centralizzata e semmai accelerando quei processi di crescita.
Continuando, si può, ad esempio, considerare una fatto straordinario che il capo della Rivoluzione, nel pieno della lotta, non solo incontri queste intellettuali di altissimo profilo, ma dialoghi con loro di tutto, da pari a pari, anche del libero amore. Lenin, che lo pratica con Inessa Armand (un’altra delle femministe comuniste), sotto gli occhi tolleranti della moglie, dice che non può essere quella una parola d’ordine centrale. La Ghetti lamenta che Lenin così “cancellava a una a una le rivoluzionarie conquiste delle donne, risospingendole in casa al tradizonale ruolo di custodi del focolare“. Ma ne erano mai uscite fuori, salve limitate cerchie intellettuali, nella immensa Unione? Non era forse vero che nel primo anno di rivoluzione la legislazione aveva sancito la parità uomo/donna nel lavoro e nel salario, il diritto di voto anche per le donne, il divorzio, l’aborto, l’abolizione della potestà maritale? Conquiste di là da venire anche in molti stati occidentali. In Italia divorzio, aborto e riforma del diritto di famiglia negli anni ‘70 del secolo scorso! E, a proposito delle parole d’ordine, avrebbe ottenuto il partito bolscevico il seguito che ebbe fra i soldati, se avesse lanciato la parola d’ordine “libero amore“, anziché “fine della guerra imperialista subito“, “terra ai contadini”, “potere agli operai e contadini“?
Nel libro si considera frutto quasi di spirito inquisitorio l’insistenza con la quale Lenin chiede alle sue intelocutrici, in particolare alla Zetkin, informazioni puntuali sul movimento femminile in Germania; l’autrice stigmatizza la critica precisa e puntuale che fa alle posizioni delle interlocutrici nei punti di dissenso. Si omette di considerare che quel chiedere informazioni, quel fare osservazioni e critiche puntuali sono espressione di rigore intellettuale e politico. Sarebbe stato più semplice, visto che aveva un bel daffare, liquidare quelle compagne, non dialogare o non criticare. Se Lenin lo fa è perché ha alta considerazione di quelle donne, del loro lavoro, della loro elaborazione. Le considera come in effetti sono, quanto lui, dirigenti del movimento comunista internazionale. Rosa per Lenin è un’aquila e il dissenso su molte questioni non lo induce mai e modificare o attenuare quel giudizio. Rosa, aquila sempre e comunque! Un modo serio e rigoroso di confrontarsi, un esempio di rispetto per il valore e le idee altrui. Ma dire questo fuoriesce dalla narrazione imperante. Lenin truce e chiuso è meglio.
Certo, le riflessioni di Gramsci, di Rosa Luxemburg e di Clara Zetkin sono di grande interesse sopratutto per chi la rivoluzione la vuol fare in occidente, noi oggi le troviamo più congeniali al nostro modo di pensare il socialismo, ma Lenin fu il primo ad essere interessato a queste elaborazioni e a confrontarsi con esse. Le considerava contributi al programma del movimento rivoluzionario internazionale in un contesto in cui l’Unione sovietica non aveva ancora assunto una funzione dirigente assorbente. Chissà come sarebbero andate le cose, se non fosse morto a 54 anni. Chissà se quel germe di volontarismo e, perché no? di unilateralismo nelle decisioni sarebbe comunque sfociato in una forma di stalinismo.
Infine, una considerazione su Togliatti. Si può dire di lui di tutto, salvo che non sia stato un artefice, intelligente e tenace della costruzione della democrazia nel nostro Paese. Dopo la Resistenza, l’Assemblea Costituente lo vede fra i protagonisti più impegnati, il partito nuovo di massa (più gramsciano e non leninista) trasforma plebi in cittadini coscienti, l’impegno sulla questione femminile è testimoniata, fra l’altro, dal concorso alla formazione dell’UDI (pur con tutte le indeguatezza) e dalle donne inserite in posizioni dirigenti. L’impegno del PCI e delle sue organizzazioni in tutte le battaglie a favore delle donne è stato decisivo. Anche chi - come me - per gran parte della sua militanza è vissuto fuori dal PCI, criticandolo, non può negare, pur fra mille contraddizioni, ritardi culturali e inadeguatezze, questo fondamentale apporto nella trasformazione in senso democratico degli italiani, anche sul versante femminile.
Il problema non è la critica e il dissenso, è l’ottica generale che le ispira e le guida.
3 commenti
1 Aladin
8 Marzo 2021 - 11:26
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=119602
2 Maria Teresa Lecca
8 Marzo 2021 - 13:29
Ho letto anch’io il libro di Noemi Ghetti.
Poiché frequento un gruppo di lettura, so per esperienza che l’interpretazione può essere anche molto diversa. Come si sa chi legge, legge con tutto l’apparato di conoscenze e esperienze che ha maturato. E contano sempre anche le aspettative. Ecco perché io sono stata colpita soprattutto dallo sguardo di Noemi Ghetti che mi ha mostrato un aspetto di Gramsci nuovo e moderno.
Mi ha mostrato un Gramsci fondatore di giornali, con titoli beneauguranti (La città futura, L’Ordine, Nuovo, L’Unità) e spazi riservati alla penna delle donne.
Quanto alle femministe comuniste che potevano interloquire con Lenin: tutto vero ma le conquiste femministe della rivoluzione furono sacrificate molto presto con la nuova economia politica. E questo può autorizzare a dire che delle femministe si sfruttò la propaganda.
E il libero amore? Faccio solo l’esempio di Inessa Armand che si sposò per amore, per amore poi visse col cognato mentre il marito non volle mai separarsi da lei. E per amore, dopo, visse in un triangolo certo non gradito. E intanto svolgeva per Lenin incarichi difficili e talvolta pericolosi. A me pare che le donne abbiano inteso il libero amore come un bisogno da vivere senza ambiguità. Forse i capi comunisti non furono altrettanto coerenti.
3 Tonino Dessì
8 Marzo 2021 - 16:00
Caro Andrea, non condivido la tua chiave di lettura, che prescinde dai precedenti libri di Noemi Ghetti e dai riscontri che puoi trovare in numerose recenti ricostruzioni storiografiche anche biografiche di Lenin e più ancora di Gramsci.
Certo, Noemi Ghetti viene da una storia radical-socialista e femminista anzitutto profondamente diffidente verso un certo conformismo cattolico e più ancora verso ogni visione in odore di “cattocomunismo”.
È una letterata italianista che si è imbattuta in Gramsci in ragione della nota dei Quaderni su Guido Cavalcanti, che attiene allo scontro fra gli intellettuali italiani in ordine alla scelta ghibellina (laica) o guelfa (papista) sulla lingua e sulla letteratura nazionale. Escludo anche che non conosca il duro scontro politico intercorso fra il gruppo dirigente comunista russo e molti ambienti di quello socialista e comunista di matrice più “occidentale”.
Certo, come scelta storiografica, si schiera, un po’ come forse avremmo fatto noi, fra una linea di destra, una di sinistra e una centrista.
Quella di Lenin fu centrista.
Esistevano alternative.
Il problema, almeno per me, non è difendere a priori quello che è stato.
Nessuno può negare i progressi immediati che, non solo nella nella condizione giuridica, ma anche in quella materiale delle donne, furono affermati e consolidati in Unione Sovietica (fra l’altro quando Aleksandra Kollontaij fu Commissaria del Popolo per la Solodarietà statale).
Però si pone comunque il tema ideale di recuperare la vitalità di quello che (forse) avrebbe potuto essere e non fu.
Non per ripiegare, ma per rilanciare.
Altrimenti dovremmo ritirare ogni pregresso di elaborazione critica. Sottolineo due cose.
La prima è che la dimensione di formazione di Gramsci non è recuperata dalla vulgata PCI, ma da Peppino Fiori (vedi la postfazione di Noemi, che gli tributa omaggio), un socialista di sinistra sardo.
La seconda è che, pur con tutta la buona volontà, non possiamo farci riportare indietro nemmeno da studiosi che generazionalmente sono condizionati da una militanza non nel PCI -non hanno fatto in tempo- ma nella diaspora della formazioni politiche che del PCI avevano e hanno avuto una memoria lontana (differentemente da noi), nostalgica, poco consapevole della storia politica e materiale del partito.
Vorrei anche, se me lo consenti, metterti in guardia da una possibile interpretazione in chiave paternalistica della figura di Lenin.
Lenin infatti non si “concede” al confronto con Clara Zetkin per una mera curiosità intellettuale e politica.
Clara Zetkin (come Rosa Luxburg) non era una cittadina sovietica, ma una delle massime dirigenti del partito comunista tedesco e una figura di spicco della direzione della Terza Internazionale.
Per quanto sia verosimile che il Pc sovietico, avendo assunto il potere in un grande Paese, stesse cominciando a manifestare un relativo senso di superiorità nei confronti di altri partiti comunisti, la situazione non era negli anni ‘20 tale dal consentirglielo nei confronti di partiti che ancora non erano stati cancellati dal nazifascismo e che autonomamente stavano svolgendo attività rivoluzionarie con prospettive di successo nei propri Paesi, com’era proprio nella Germania di Weimar e nell’Italia prima delle leggi fascistissime che imposero la dittatura.
Non sarà un caso che neppure Bordiga si lasci convincere dal richiamo del PC russo, di Lenin e della Terza internazionale a riunificare il PCd’I e il PSI.
Bordiga sbagliava, come sappiamo, ma fu solo di fronte all’esito disastroso del suo settarismo, che il gruppo di Gramsci e di Togliatti riuscì a levargli la guida del partito italiano.
La ricostruzione che Noemi Ghetti fa del confronto, ancora in corso vivo Lenin, nel movimento comunista e nei suoi partiti, ha certamente un taglio “schierato”.
Noemi si colloca su un versante di simpatia con Bogdanov, considerato uno dei massimi teorici marxisti russi, che si scontrò con Lenin fin dai tempi dell’esilio, sostenendo un indirizzo culturale marcatamente antiborghese, il Proletkult, al quale era molto vicino Gramsci fin dai tempi dell’Ordine Nuovo torinese.
Lo scontro è analogo a quello fra Lenin e Rosa Luxemburg e riguarda il rapporto fra masse e partito (con Bogdanov convinto che il proletariato possa produrre una cultura “propria” e non inoculata da una direzione esterna, la Luxemburg convinta che il rapporto partito-masse non possa essere verticistico e dall’altra parte Lenin sostenitore della funzione “educatrice”, di direzione centralizzata del Partito retto da un nucleo d’acciaio di professionisti rivoluzionari).
Le vicende storiche (il fascismo, il nazismo, l’incubazione delle due guerre mondiali) avvantaggeranno Lenin e i suoi successori, Stalin in particolare, perché la costruzione del socialismo nell’ex impero russo assumerà carattere prioritario.
Tuttavia dopo la morte di Lenin la conseguenza sarà quella della chiusura della rivoluzione intesa come crogiolo dell’innovazione anche ideale.
E con questo la rimozione di uno dei problemi teorici fondamentali, sui quali anche Gramsci si era soffermato, rileggendo il Marx dei Manoscritti economico-filosofici e più tardi elaborando nei Quaderni sia la nota sulla “quistione sessuale” sia il saggio su “Americanismo e Fordismo”.
Se il Marx dei “Manoscritti” si interrogava su come ricomporre in una “nuova umanità” la dialettica tra i sessi, svincolandola dal patriarcalismo “innaturale”, Gramsci si chiede, più realisticamente, quale organizzazione della società contrapporre a quella meccanizzata, che riduce i proletari maschi a “gorilla” ammaestrati alla catena di montaggio e le loro mogli a fattrici la cui funzione è quella di produrre altri gorilla ammaestrati e altre fattrici, tutti legati al modo di produzione sia come lavoratori, sia come consumatrici-consumatori, tutti irregimentati a tal fine in un modello di famiglia che, se spazza via quella fondata sull’artificioso vincolo religioso, ne crea un altro, fondato sulla regolamentazione della sessualità finalizzata all’ordinato svolgersi della nuova economia industriale di massa.
Questo era il tema che molte donne nel periodo trattato avevano posto nel confronto in ambito socialista e comunista.
E se la risposta di Lenin alla Zetkin già appare conservatrice, quella successiva alla sua morte sarà di pura e semplice rimozione del tema.
“Tutte e tutti al lavoro e alla lotta e non impicciatevi di questioni che sono, più che un lusso borghese, una deviazione estremista”.
Credo perciò che il tema, per la sua permanente attualità, non vada annegato in un difensivismo antistorico, a pena di relegare Gramsci a una variabile marginale nel panorama dello stesso marxismo.
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