La Costituzione e i DPCM

7 Dicembre 2020
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Carlo  Dore jr.

Il tema che mi è stato affidato (Leggi e decreti nell’emergenza – Governo e Parlamento di fronte al COVID) impone appunto una riflessione: sulle fonti utilizzate per la produzione delle norme in grado di fronteggiare l’emergenza, sul contenuto delle disposizioni adottate, sulla loro compatibilità con il quadro costituzionale, sul modo in cui si è impostato il rapporto tra Esecutivo e Parlamento nella temperie della pandemia.
Volendo proporre un approccio “graduale” al tema, occorre ricordare (soprattutto a beneficio dei non giuristi) che il nostro ordinamento conosce una molteplicità di fonti del diritto, cioè di atti di volontà adottati da organi deputati a creare diritto, a determinare appunto la produzione di norme giuridiche. E’ fonte del diritto la Costituzione, è fonte del diritto la legge, sono fonti del diritto gli atti con forza di legge (cioè i decreti-legge e i decreti legislativi), sono fonti del diritto gli atti dell’Esecutivo. Tra le varie fonti esiste una gerarchia: le norme poste da una determinata fonte non possono abrogare o modificare quelle poste da una fonte di rango superiore. Al vertice di questa gerarchia si colloca la Costituzione, che infatti definiamo come “rigida”; seguono la legge e gli atti con forza di legge (fonti primarie), quindi gli atti dell’Esecutivo, come i regolamenti e i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (fonti secondarie), che dunque non possono né abrogare né modificare le disposizioni costituzionali né le disposizioni di legge. Un allentamento della gerarchia si può ravvisare solo quando è la fonte sovraordinata che permette alla fonte sottostante di incidere, in tutto o in parte, sul contenuto delle norme da essa create.
Del pari, la Costituzione può riservare alla legge (o agli atti con forza di legge) la regolamentazione di determinate materie, che vengono considerate coperte da “riserva di legge”. In particolare, una riserva di legge si rinviene con riferimento alle possibili limitazioni di libertà dei cittadini costituzionalmente garantite come la libertà personale o la libertà di circolazione, limitazioni che solo la legge può introdurre. La ratio di queste previsioni è facilmente intuibile: si vuole garantire la posizione del cittadino dalle indebite ingerenze del potere esecutivo, affidando le limitazioni degli spazi di libertà riservati ai cittadini al contenuto di norme approvate con la garanzia di democraticità del dibattito parlamentare.
Tutto ciò chiarito, nel brevissimo arco di tempo che va dal 31 gennaio al 9 marzo di quest’anno, un virus sconosciuto, dai mercati delle carni di Wuhan, si è materializzato al centro della bergamasca, precipitando il Paese in quella che si sarebbe in breve tempo trasformata nella crisi sanitaria e sociale più grave della storia della Repubblica. Il decisore politico si è infatti trovato di fronte ad una sorta di alternativa infernale: sacrificare spazi di libertà per preservare la salute dei cittadini. Questo sacrificio si è tradotto in misure profondamente invasive delle libertà dei cittadini, dalla libertà di circolazione (art. 16) alla libertà di riunione (art. 17) fino alla stessa libertà personale (art. 13). Un sacrificio condotto sulla base della ben nota tecnica del bilanciamento, un bilanciamento che ha indotto il legislatore a far prevalere il diritto alla salute su altre libertà individuali.
Siffatte limitazioni sono state introdotte esclusivamente attraverso atti adottati dal Governo: prima la dichiarazione dello stato di emergenza previsto dagli artt. 7, 24 e 25 del Codice della protezione civile (i quali, come è noto, prevedono che, in presenza di calamità di rilevanza nazionale, il Capo della protezione civile possa assumere ordinanze anche in deroga ad altre disposizioni primarie o secondarie, purché rispettose dei principi generali dell’ordinamento giuridico, primi tra tutti i principi costituzionali), quindi una serie di decreti legge, tra cui si segnalano in particolare il dl 6 e 19 del 2020 (con il secondo che ha sostanzialmente abrogato il primo). Questi decreti-legge contemplano appunto la possibilità di prevedere le limitazioni con cui siamo quotidianamente chiamati a confrontarci, limitazioni che possono essere in concreto disposte attraverso una fonte secondaria, appunto il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, per un periodo limitato e a seconda dell’evoluzione del quadro epidemiologico. Inutile precisare che si tratta di una sorta di  delega in bianco: il decreto legge stabilisce cioè la possibilità di introdurre limitazioni attraverso il DPCM, ma è la fonte secondaria (cioè il DPCM) a poter stabilire l’applicazione della misura restrittiva e a determinarne l’effettivo contenuto.
Al protagonismo del Governo ha fatto riscontro il sostanziale immobilismo del Parlamento, del quale l’emergenza sanitaria ha addirittura reso difficoltosa la convocazione. Il Governo ha infatti assunto motu proprio l’iniziativa normativa per fare fronte all’emergenza; contrariamente a quanto previsto dall’art. 78 della Carta per lo stato di guerra, i poteri necessari per fare fronte all’emergenza non gli sono stati conferiti attraverso una apposita deliberazione delle Camere.
Ora la domanda è: il quadro normativo che si è andato delineando nella prospettiva del contrasto all’emergenza sanitaria è rispettoso dell’assetto costituzionale vigente? L’adozione di misure restrittive di libertà fondamentali assunte attraverso lo strumento del DPCM (fonte secondaria e atto dell’Esecutivo che sfugge financo al controllo del Presidente della Repubblica) può tradursi in una violazione delle libertà dei cittadini costituzionalmente garantite, considerando che la stessa Carta individua nella legge (o negli atti con forza di legge) la fonte preposta ad apportare limitazioni a siffatte libertà in ragione di interessi superiori?
Sul punto, si registra un contrasto di opinioni tra i giuspubblicisti. Secondo una prima corrente di pensiero, l’azione del Governo si sarebbe svolta nel rispetto dei principi della Carta. I sostenitori dell’opinione ora in analisi ritengono che le misure restrittive siano il prodotto di un corretto bilanciamento tra l’interesse generale della tutela della salute e gli altri diritti individuali dei cittadini sacrificati dalle misure. Non a caso, lo stesso art. 16 della Costituzione, in tema di libertà di circolazione, precisa che “sono salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o sicurezza“. Escludono inoltre questi giuristi la configurabilità di una lesione della riserva di legge: le limitazioni sono infatti contemplate in  decreti legge (fonte primaria) e trovano poi attuazione attraverso il DPCM. Se si considera che nessuno contesta la sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza previsti dall’art. 77, le misure del Governo non dovrebbero presentare, in questa prospettiva, profili di incostituzionalità.
Questa posizione non è però condivisa da altri studiosi, ad avviso dei quali la riserva di legge in tema di limitazione dei diritti di libertà (e richiamata dagli artt. 13 e 16) è da intendersi come una riserva di legge assoluta: ne deriva l’inattitudine della fonte secondaria (e cioè del DPCM) a concorrere alla disciplina di una materia che la Costituzione riserva alla competenza esclusiva della fonte primaria. La previsione, nel testo dei decreti legge, di possibili limitazioni la determinazione del cui contenuto viene poi integralmente rimessa alla fonte secondaria sembra costituire un aggiramento della riserva di legge, con conseguente incostituzionalità delle norme in tal guisa emanate.
Si segnala, inoltre, che attraverso i DPCM adottati lo scorso marzo, il Governo non ha imposto restrizioni alla sola libertà di circolazione (e cioè alla libertà dei cittadini di spostarsi da un luogo all’altro del territorio nazionale), ma della stessa libertà personale, imponendo, per quasi due mesi, ai cittadini di non lasciare il proprio domicilio se non per esigenze di lavoro, salute o per altra necessità. La libertà personale può essere limitata, nei casi previsti dalla legge, da un provvedimento dell’autorità giudiziaria (c.d. riserva di giurisdizione) e non attraverso un atto amministrativo.
Chi ha ragione? Difficile, in questa sede assumere una posizione netta. Possiamo limitarci a qualche spunto, utile come base per una discussione nella quale l’analisi giuridica finisce fatalmente col mescolarsi alle valutazioni di tipo politico: certamente, nel quadro di un bilanciamento tra interessi tutelati a livello costituzionale, la protezione del bene-vita e del bene-salute prevale, in quanto interesse collettivo, sui confliggenti interessi individuali. Non è meno vero che, come cittadini, siamo portati ad accettare le limitazioni imposte dai provvedimenti dell’Esecutivo sia in ragione del fatto che il bilanciamento di cui sopra risulta nella sostanza generalmente condiviso; sia perché autore di questo bilanciamento è un Governo che offre sufficienti garanzie sul piano della tenuta democratica.
Dobbiamo però chiederci: se le libertà individuali venissero un domani sacrificate nella stessa misura in ragione di un differente interesse collettivo (ad esempio di pubblica sicurezza: come un allarme terrorismo) da un Governo di diverso colore accetteremmo con analoga serenità misure restrittive imposte esclusivamente da provvedimenti dell’Esecutivo? E se è vero che il sacrificio delle libertà individuali si è reso necessario nel quadro di una situazione eccezionale, non è proprio nelle situazioni eccezionali che la Costituzione deve dispiegare la sua funzione di garanzia?
Colpisce, in questo senso, la posizione marginale del Parlamento, che di fatto si è limitato a convertire in legge i decreti del Governo. Se infatti non si nega che la centralità dell’Esecutivo è dipesa ancora una volta da una situazione eccezionale, non si deve però nemmeno dimenticare che – nell’unica situazione eccezionale contemplata dalla Carta: e cioè la deliberazione dello Stato di guerra – la Costituzione stessa prevede che sia il Parlamento a dover assegnare al Governo i poteri necessari. Non poteva essere seguita una procedura analoga per normare l’emergenza in atto, riaffermando la centralità nel sistema dell’organo rappresentativo della sovranità popolare?
Ancora, i giuristi sono maggiormente concordi nel muovere delle critiche alle scelte del Governo – specie con riferimento alla “prima ondata” del contagio – sul piano della ragionevolezza, cioè della “congruità della norma al fatto”, della capacità del legislatore di regolare nello stesso modo situazioni identiche e in modo differente situazioni diverse. In questo senso, ci si chiede quanto sia risultata aderente al principio di ragionevolezza la decisione – assunta con il famoso DPCM del 9 marzo – di imporre ai cittadini residenti in Sardegna (zona nella quale, in quella particolare fase, si registravano pochissimi contagi) le stesse restrizioni imposte nella Lombardia flagellata dal virus. Una scelta, quella del lockdown nazionale, diametralmente opposta a quella assunta nella contingenza attuale, in cui si è appunto deciso di graduare l’entità delle restrizioni alla situazione dei contagi nei vari territori; una scelta che paradossalmente sarebbe stata, sul piano della ragionevolezza, molto più accettabile proprio nella contingenza attuale, con il contagio uniformemente esteso su tutto il territorio nazionale.

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